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O accettare lo scandalo della sofferenza o impazzire

Il grande problema, inutile girarci attorno, il più grande problema per credenti e non credenti, ma soprattutto per i credenti, è quello della sofferenza, e in modo particolare di quella sofferenza che a noi, giudicando le cose dall’esterno, appare inutile, priva di senso e di scopo. Di conseguenza, o gli uomini giungono ad accettare lo scandalo della sofferenza — perché si tratta, senza alcun dubbio, di uno scandalo, cioè di una sfida drammatica a tutto il nostro essere, che esige una risposta, ma esso non è in grado di darla — o finiscono per impazzire. Siamo convinti che la società occidentale, con l’avvento del cristianesimo, fosse giunta non a capire, ma ad accettare lo scandalo della sofferenza; e siamo altrettanto convinti che il problema numero uno della civiltà moderna è quello di aver rifiutato lo scandalo della sofferenza, e con ciò d’essersi messa, necessariamente e ineluttabilmente, sulla strada che conduce alla follia.

Avete mai fatto l’esperienza di assistere una persona cara nel calvario di una malattia terminale: vederla trasformarsi, fisicamente e mentalmente, fino a diventare irriconoscibile; e avete mai provato lo strazio dell’impotenza, di non poter far nulla per alleviare le sue sofferenze, ma di poter solo aspettare con lei, accanto a lei, la fine pietosa del suo lungo e apparentemente inutile soffrire? Se non avete fatto questa esperienza, non sapete ancora nulla della vita. Certo, potete aver assistito alla malattia terminale di moltissime persone; per medici e infermieri è il pane quotidiano, specie nei reparti geriatrici; ma se si trattava di estranei, la cosa è ben diversa. Solo chi ha vissuto l’esperienza di veder spegnersi lentamente, inesorabilmente, una persona cara, e ha visto la morte giocare a rimpiattino con lei e con voi come il gatto col topo, stringendo il vostro cuore nella sua morsa spietata sino a spremerne tutta l’angoscia possibile, solo costui sa di che cosa stiamo parlando. Stiamo parlando qualcosa di vivo, che ci tocca nell’intimo; non di libri o di teorie. Sui possono costruire bellissimi filosofemi sul tema della sofferenza e si possono perfino comporre dei poemi, dei romanzi o dei film estremamente coinvolgenti e commoventi sulla dolorosa separazione da una persona cara, qualora essa avvenga in questo modo (ed è il caso ormai più frequente: non si muore velocemente, ma lentamente e dolorosamente, non a casa ma in un letto d’ospedale); ma solo chi ne ha fatto l’esperienza personale sa come essa sia la più dura prova che ci è data da sopportare in tutto il corso della nostra esistenza. Anche più dura della nostra stessa malattia e della nostra stessa morte, quando verrà l’ora.

D’altra parte, se la sofferenza è inutile, allora il mondo è semplicemente assurdo, dal momento che il mondo è pieno di sofferenza. Da un problema morale si passa così a una questione logico-filosofica: che ragione ha di esistere un mondo assurdo? Evidentemente, non può essere che il frutto del caso; oppure di un dio malvagio, che gode allo spettacolo incessante della sofferenza dei suoi abitanti. E quando parliamo della sofferenza, sia chiaro che intendiamo la sofferenza in generale; perché se è logico che gli esseri umani, per ragioni psicologiche ed emotive, siano colpiti soprattutto dallo scandalo della loro sofferenza, in quanto è una sofferenza perfettamente autocosciente, non di meno riteniamo, e abbiano sempre ritenuto, che sotto il profilo etico e filosofico la sofferenza degli animali ponga una questione altrettanto grave e che rappresenti uno scandalo che esige, anch’esso, una qualche spiegazione, pena l’inesorabile conclusione circa l’assurdità del mondo (cfr. specialmente gli articoli: Che senso ha, dal punto di vista morale, la sofferenza degli animali?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice l’11/0610 e su quello della Accademia Nuova Italia il 09/11/17; Perché soffrono gli animali?, e Forse anche l’animale ha un’anima, come quella umana, bisognosa di redenzione, entrambi sul sito dell’Accademia Nuova Italia, rispettivamente il 02/11/17 e il 05/12/17).

Scriveva il filosofo Luigi Pareyson (1918-1991) nel suo Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa (Torino, Einaudi, 1993, pp. 210-212):

Quando Ivan afferma che il mondo è inaccettabile, intende dire, in fondo, che la sofferenza è incomprensibile: è per l’incomprensibilità della sofferenza che il mondo, per i mali ch’esso contiene, si presta assai più a una satanodicea che a una teodicea. Il senso dell’inesistenza di Dio è l’incomprensibilità della sofferenza, è il fatto che il dolore appare SOLTANTO come uno scandalo. Questa incomprensibilità non si può né sanare né dissipare. Nemmeno il redentore l’ha dissipata: egli non è venuto a spiegare la natura e le ragioni della sofferenza, ma a fare qualcosa di molto di più e di molto più decisivo: è venuto per caricarla su di sé e per liberare l’umanità. Questa è la grande confutazione dell’ateismo avanzata da Alësa. Egli è d’accordo con Ivan nel considerarla sofferenza come uno scandalo e nell’affermarne l’incomprensibilità; ma non ne trae la medesima conseguenza, cioè la negazione dell’esistenza di Dio; anzi, ciò ch’egli intende fornire è appunto la più solenne smentita di questa legittima conclusione, e la rinviene nel fatto straordinario che il redentore libera l’umanità dalla sofferenza trasportandola interamente su di sé e vivendola sino in fondo. Se non ci fosse il redentore, cioè il Dio sofferente, il nostro dolore resterebbe senza senso, e la sofferenza inutile rimarrebbe uno scandalo, allo stesso modo che se non ci fosse Dio le nostre colpe resterebbero senza perdono. Infatti non c’è nulla di più rigido, e inflessibile, di meno propenso al perdono e indulgente alla sofferenza, che la riflessione puramente razionale, quale vuol essere quella del pensiero euclideo. L’etica razionale e autonoma ignora il perdono, che va oltre la legge, e non si cura del dolore, giudicato incomprensibile: per il pensiero euclideo la sofferenza è uno scandalo senza senso e il perdono una concessione impossibile, come attesta il rifiuto opposto da Ivan alla creazione e alla redenzione, entrambe fallimentari, l’una per l’assurdità del mondo, l’altra per la persistente infelicità degli uomini.

Tutte queste considerazioni, anche se non chiaramente esplicitate, sono contenute nella replica di Alësa. Alësa non si restringe alla tesi banale che nessuno ha diritto di lamentarsi di soffrire di fronte alle sofferenze del Cristo. Ciò ch’egli intende affermare è che perfino la sofferenza inutile perde molto del suo carattere di scandalo di fronte a uno scanalo infinitamente più grande, quale può essere quello della sofferenza del redentore, cioè di Dio stesso. Ogni altro scandalo cessa se anche Dio soffre e vuol soffrire. Dio ha voluto soffrire lui stesso, e dopo questo fatto "d’un altro modo", dopo questo scandalo inaudito, niente può più essere scandalo, né c’è più nulla da dire sul problema della sofferenza. La sofferenza di Dio è l’unica risposta che si può dare al problema del dolore: è LA risposta in generale al problema della sofferenza. Allo scandalo della sofferenza inutile del puro paziente, Alësa contrappone lo scandalo del redentore, cioè del Dio che soffre e muore. (…)

Dostoevskij si ferma qui. Ma si può e si deve andare oltre: il significato di ciò ch’egli dice trascende di molto l’esplicitezza del suo discorso, ed è bene tentare di svolgerlo proprio per comprendere bene il senso della sua lezione. L’idea del Dio sofferente è l’unica che possa resistere all’obiezione della sofferenza inutile come dimostrazione dell’assurdità del mondo, e che anzi possa capovolgere l’intera problematica della sofferenza, nel senso di trarre dalla stessa incomprensibilità del dolore la possibilità ch’esso dia un senso alla vita dell’uomo. L’idea fondamentale di Dostoevskij è che se per un verso l’umanità è liberata dalla sofferenza perché la stessa sofferenza è portata in Dio, per l’altro verso il senso della sofferenza dell’umanità è la consofferenza col redentore che col suo dolore ha soppresso quello dell’umanità (1 Petr 2,19, 21-24).

La sofferenza del Cristo è un evento tremendo e immane che riesce a spiegare la tragedia dell’umanità solo in quanto estende la tragedia alla divinità. In questo senso la sofferenza inutile è esemplare: essa è un caso in cui il male è in Dio e quindi Dio deve soffrire. Con l’idea del Dio sofferente la sofferenza non è più limitata all’umanità, ma diventa infinita e s’insedia nel cuore stesso della realtà. Dostoevskij. Nel partecipare allo scandalo di Ivan per la sofferenza inutile, riconosce che il cuore del creato è dolorante: nella sofferenza inutile il dolore acquista per lui una portata non solo umana, com’è nella sofferenza in generale, bensì anche cosmica. Ma quando egli indica nel Cristo sofferente l’unica risposta possibile alla domanda sull’inutilità della sofferenza, mostra di ritenere che il dolore acquista per lui anche un significato divino, anzi teologico. La sofferenza del Cristo ha conosciuto culmini particolarmente tragici e dolorosi, e indubbiamente il più drammatico è il momento in cui egli sulla croce si è sentito abbandonato da Dio. E s’è trattato d’un reale abbandono, ciò che, come osserva Kierkegaard, può succedere non a un uomo, ma solo al Dio-uomo; Dio ha risposto col suo silenzio al grido del Cristo, il che è doppiamente crudele da parte di Dio, perché Dio non soltanto ha voluto che il Figlio soffrisse, ma lo ha abbandonato nel momento della sofferenza. Ciò significa che Dio è crudele anzitutto con sé: egli stesso vuol soffrire, e si abbandona perciò alla crocifissione; non ha risparmiato suo Figlio, cioè se stesso, e in una forma di sublime masochismo s’è messo contro di sé; v’è in lui una crudeltà radicale e originaria, che lo induce anzitutto a negare se stesso e a ergersi contro di sé. Una legge di espiazione grava sull’umanità: come suo destino di sofferenza; e su questa tragica vicenda giunge come una grazia inaspettata il perdono di Dio. Ma il perdono è possibile in virtù d’una tragedia anche più immane di quella umana, ed è la tragedia immanente alla vicenda di Dio: la sofferenza del Cristo e il suo abbandono da parte di Dio nel momento estremo del suo abbassamento. Alla tragedia umana e storica donata da una misteriosa legge di espiazione s’aggiunge una tragedia divina e teogonica: Dio contro se stesso.

Ora, per prima cosa bisogna ammettere che non è giusto parlare della sofferenza in astratto, come se tutte le sofferenze fossero uguali; e che in particolare la sofferenza provocata da agenti naturali, come le malattie, la vecchiaia e la morte, è cosa ben diversa da quella provocata dalla furia delle passioni umane, l’avidità, la superbia e la lussuria, perché quest’ultima deriva dalla libertà umana e dal suo cattivo uso, e pertanto è, in linea teorica, eliminabile o rimediabile, mentre la prima pesa sui viventi come una imperscrutabile fatalità e viene vissuta come un arbitrio assoluto e come uno scandalo incomprensibile (ad es. la morte di un bimbo nella culla, che lascia affranti e attoniti i suoi genitori). Ma Se Dio stesso si é fatto uomo per mostrarci, vivendolo sulla sua pelle, il valore della sofferenza; se non ha esitato a sacrificare il suo Figlio, dopo averlo mandato sulla terra a rimettere i peccati del mondo (Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis: dove tollere significa "prendere su di sé" e non già "togliere", mediante una specie di gioco di prestigio) con il suo stesso sacrificio; e se ha abbandonato il Figlio nell’ora più buia, affinché il suo sacrificio fosse completo e toccasse il vertice del sublime in un modo che nessun’altra religione arriva neanche lontanamente a concepire: allora va da sé che bisogna domandarsi di nuovo, e con estrema serietà, se il mondo sia la casa della follia o se sia il luogo dove la giustizia e l’amore — che poi sono le due facce della stessa medaglia — si completano e si rafforzano a vicenda.

Limitiamoci, in questa sede, alla riflessione sulla sofferenza causata all’uomo dall’uomo stesso; perché la sofferenza che viene da fattori naturali non pone un problema morale, ma filosofico, e su di essa l’uomo non ha altra possibilità se non la rassegnazione; mentre sulla prima egli può esercitare niente meno che un potere, il potere del perdono. Padre, non imputar loro questo peccato, ma perdonali, perché non sanno quello che fanno: così prega Gesù Cristo mentre lo stanno inchiodando alla croce. Il perdono redime la sofferenza dall’inferno dell’inutilità; perdonando, la si trasforma in strumento di redenzione. Ma chi ha il potere di perdonare, chi ha il potere di redimere? Evidentemente, non l’uomo: l’uomo non può perdonarsi, perché vi sono peccati che, umanamente parlando, non meritano alcun perdono; e neppure può redimersi, perché non può trascendere il proprio statuto ontologico, e la creatura non può impossessarsi del più caratteristico attributo del Creatore: la capacità di perdonare che viene da un amore sovrabbondante e inesauribile. Solo Dio può perdonare, perché solo Dio può perdonarsi di aver abbandonato il Figlio sulla croce. Gli uomini non possono perdonarsi perché la cosa più piccola, la coscienza, non può contenere la cosa più grande, l’Essere: e quando essi compiono il male, offendono l’Essere, non solo le singole creature. Perciò, se Cristo non fosse morto sulla croce, noi non saremmo redenti; ma se il Padre non si fosse perdonato di averlo abbandonato, non saremmo perdonati. Redenzione e perdono sono due facce della stessa medaglia: per questo abbiamo detto che gli uomini non possono redimersi, né perdonarsi da soli. Gli uomini possono forse perdonare chi ha fatto loro del male, ma non sanno perdonare a se stessi, se hanno fatto del male ad altri o anche a se medesimi. Per fare tanto, ci vuole la presenza di un Altro. E chi se non Dio, che ha voluto offrirsi in sacrificio per la salvezza dei peccatori?

Anche da questo lato, comunque, cioè dalla necessità e allo stesso tempo dall’impossibilità, da parte dell’uomo, di perdonarsi, si arriva alla stessa conclusione: che la sofferenza è un valore. La sofferenza vicaria è l’offerta amorevole del proprio soffrire in riparazione al male morale che affligge il mondo. Il male commesso esige di essere espiato: se non vogliono espiare quelli che l’hanno commesso, bisogna che lo faccia qualcun altro. Esiste un preciso equilibrio fra il bene e il male, che raggiunge dimensioni cosmiche, per quanto piccoli e quasi insignificanti siano stati i suoi inizi. Ogni azione malvagia deve essere espiata e ogni peccato deve essere rimesso, cioè perdonato e preso su di sé da qualcuno L’espiazione può esser fatta dagli uomini, dopo che Gesù, il Figlio di Dio, ne ha dato l’esempio totale, sacrificandosi sul legno della croce. Da tempo si è smesso di parlare della teologia della croce, su cui pure Gesù è stato talmente chiaro, da non lasciar margine a dubbi; e così pure si è smesso di parlare della sofferenza vicaria, perché da tempo si è attuata nella pastorale la svolta antropologica di Karl Rahner: se l’uomo è al centro di tutto, perché dovrebbe offrire le proprie sofferenze per trasformarle in offerta a Dio? E cos’è questo Dio crudele, che gradisce l’offerta della sofferenza? Eppure sì, Dio è crudele: manda alla morte il suo unico Figlio, poi si sottrae alle sue richieste d’aiuto. È crudele con se stesso. Chi sarebbe capace di chiudere gli orecchi ai lamenti del proprio figlio morente, e poi di perdonarsi il fatto d’averlo mandato fra quei vignaioli omicidi e d’averlo abbandonato mentre essi lo uccidevano? Solo Dio, anzi solo il Dio cristiano. E questo perché Egli ci ha talmente amato, da spingere questo suo amore per noi fino al sacrificio, alla rinunzia totale di Sé: Padre, non quello che voglio io, ma sia fatto quello che vuoi tu, prega Gesù nell’orto del Getsemani, poco prima di essere arrestato.

E questo è appunto il cuore del Vangelo: Non ciò che voglio io, ma sia fatto ciò che vuole Dio da ciascuno di noi

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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