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11 Dicembre 2022Quali sono i valori morali senza i quali un società non trova la forza di reggersi, né di far fronte a pericoli esterni? Noi, che siamo i discendenti diretti di una civiltà tre volte millenaria, non abbiamo che da considerare l’indole dei nostri progenitori. Vedremo allora che la forza assimilatrice di Roma e la sua straordinaria capacità di adattamento, ereditata sul piano politico da Venezia e sul piano ideale e universale dalla civiltà cristiana, si reggevano su queste sei colonne di straordinario spessore: la Pietas, la Virtus, la Fides, la Pudicitia, l’Amicitia e l’Amor. Togliete una sola di queste colonne, e l’intero edificio cadrà in rovina: come è destinata ad andare in rovina qualunque società ne sia sprovvista, o gravemente difettosa. La presenza simultanea e consistente di questi valori, non come norme astratte ma come sentimento vivo e operante nel cuore dei cittadini, presuppone che una società, simile in questo ad un organismo vivente, deve essere disposta a dare, per libera offerta dei suoi membri, qualcosa di più di quanto essi abbiano ricevuto; infatti il principio dell’egoismo e del calcolo individualista è la sua inevitabile tomba.
Qualunque studente di liceo che abbia studiato un po’ l‘Eneide avrà imparato cos’è la pietas, una qualità che il duce troiano possedeva in grado eminente che è un po’ il concentrato della sensibilità e della spiritualità virgiliana: la devozione assoluta, il rispetto incondizionato ed il culto amorevole della Patria, della famiglia (intesa come l’insieme degli avi e non solo i parenti viventi) e degli dèi. Il primo comandamento era quello della pietas: primum est pium esse. Empio, impius, è il carattere contrario: e per un romano antico una persona empia, in quanto indifferente o sprezzante verso tali valori, era automaticamente una persona scellerata, spietata e malvagia; una persona da tenere a debita distanza, del tutto inadatta a vivere nel contesto della società civile. Una persona, inoltre, della quale è impossibile fidarsi, perché non prova gli stessi sentimenti né avverte gli stessi obblighi che legano insieme i membri di un gruppo sociale, non rispetta patti né giuramenti, insomma è simile a un animale rabbioso, pronto a scagliarsi contro chiunque. Nel poema virgiliano il tipico empio è il re Mezenzio, che cade ucciso da Enea nel vano tentativo di vendicare la morte del figlio Lauso: il suo carattere è definito dalle espressioni contemptor divum e contemptor deum, spregiatore degli dei (e degli uomini).
La virtus, per Cicerone, è la disposizione virtuosa del cittadino verso lo stato; deriva da "vir", uomo, e accompagna i concetti di forza e valore: dapprima in senso fisico e militare, più tardi anche, per estensione, come concetto complessivo di perfezionamento morale (cfr., qui e altrove, Clara Cardoni e Roberto Ricciardi, Il volto di Roma. Gli autori latini per il biennio, Torino, Paravia, 1990, p. 489). Dopo la conquista di Siracusa da parte di Archimede, nel corso delusa Seconda guerra pubblica, i romani, popolo dalle spiccate attitudini militari, innalzarono la viruts a vera e propria divinità, con un culto specifico a lei riservato. Tale culto venne rinverdito e rinnovato da Caio Mario dopo le sue spettacolari vittorie sui Cimbri e i Teutoni lo rimise in auge, dedicandogli un secondo tempio con le spoglie dei vinti. Va notato che nel pensiero dei romani la virtus era legata inscindibilmente al concetto di honor, nel senso che, per essi, era inimmaginabile un valore guerriero disgiunto dal senso dell’onore.
Quest’ultimo concetto ci aiuta a capire meglio cosa fosse per i romani la fides (ovvero, ma è pleonastico precisarlo, la bona fides). Si tratta di una atteggiamento mentale e spirituale di rettitudine e onestà nei confronti dell’altro, fosse pure il nemico, quando si tratta di contrarre un patto giurato e di sottoporsi a una norma di reciproca lealtà. Attilio Regolo che sceglie di tornare a Cartagine pur sapendo di andare incontro a un duro destino, perché non ha consigliato al senato di intavolare trattative di pace bensì di continuare aìla guerra, è un personaggio che bene incarna il valore della fides. Viceversa, se volessimo indicare il personaggio (poetico, non storico) che incarna la radicale negazione della fides, lo troviamo ancora un volta nell‘Eneide ed è il greco Sinone, il quale, recitando un’abilissima ma ignobile commedia, muove a compassione i troiani fingendosi una vittima designata della loro malizia e ingiustizia, e ha un ruolo fondamentale nel convincerli che il cavallo di legno da essi abbandonato sulla riva è un innocuo sacrificio agli dèi e può essere introdotto in città senza alcun pericolo.
Pietas, virtus e fides sono i tre valori fondamentali della società romana antica, almeno fino alle guerre puniche e alla conquista dell’oriente, che provocarono grossi sconvolgimenti sociali e un indirizzo politico sempre più imperialista e militarista, introducendo nella mentalità e nel costume romana anche mutamenti irreversibili (e non in senso positivo). Ad essi si possono associare, quasi altrettanto importanti (ma forse più sul piano delle virtù personali che pubbliche) la pudicitia, l’amicitia e l‘amor.
La pudicitia è un valore tipico delle società patriarcali e perciò riguarda direttamente più la donna che l’uomo, la quale è educata a posporre ogni altra cosa alla rigida difesa del proprio onore e della propria irreprensibilità: tipico esempio, il personaggio descritto da Tito Livio di Lucrezia, che, disonorata con un misto di violenza e di astuzia da Sesto Tarquinio, preferì ucciderei, davanti al padre e al marito, dopo aver denunciato lo stupro e aver protestato la propria completa innocenza. L’elogio della pudicitia femminile è il topos che compare con maggiore frequenza nelle orazioni funebri e nelle iscrizioni votive. Fra i poeti, è il mite e bucolico Tibullo quello che innalza il canto più accorato alla virtù della pudicitia. Per quanto riguarda la figura del maschio, il rispetto della pudicitia implicava la solerte vigilanza del pater familias, o comunque del capofamiglia, nel custodire l’onore di tutti i membri e specialmente quelli di sesso femminile. Sono tuttavia documentati dei casi nei quali anche gli uomini, specialmente i giovinetti e gli adolescenti, erano richiamati all’obbligo di conformare i loro costumi di vita alla virtù della pudicitia. Per esempio, nell’orazione Pro Caelio, Cicerone deplora che un ragazzo di soli diciassette anni — Lucio Sempronio Atratino — si sia lasciato coinvolgere in un’accusa infamante contro un cittadino rispettabile, Celio Rufo, e scorge nel rossore delle sue guance un’ammissione indiretta della sua coscienza, al tempo stesso caricando le tinte contro la bella ma perversa Clodia, intendendo porre in contrasto il pudore istintivo del ragazzo con la sfrontata impudicizia della donna. Per chi fosse curioso di sapere come la cosa andò a finire, Celio, che era anche un amico personale di Cicerone, venne assolto dall’accusa di veneficio; anche se a noi moderni resta il dubbio su quanto la formidabile capacità dialettica ciceroniana abbia pesato nei confronti della sentenza e rispecchiato la verità dei fatti.
Infine amicitia e amor, che traggono origine da una stessa radice, non erano, per i romani, due sentimenti ben distinti, ma in un certo senso erano l’uno il prolungamento e l’approfondimento dell’altro, tanto è che vero che una salda e fedele amicizia era considerata come un naturale modo di perfezionamento e d’innalzamento morale. del resto, è sufficiente leggere con un minimo di partecipazione l’epistolario di Cicerone con i suoi amici per constatare quanto i due sentimenti — escluso l’aspetto sessuale — fossero strettamente e inseparabilmente legati nella mentalità romana, al punto che il vero amico non sa rassegnarsi a strare nemmeno pochi giorni senza ricevere notizie dall’altro, e trema e si preoccupa per qualsiasi circostanza possa minacciare il proprio caro nella salute, nei beni o negli affetti. In ogni casso, l’amore è visto come una forza operosa, instancabile, invincibile: omnia vincit amor et nos cedamus amori, «l’amore vince tutto, arrendiamoci anche noi all’amore», canta Virgilio nelle Bucoliche (X,69).
Arrivati a questo punto, ci sembra doveroso ritornare ai nostri casi presenti e paragonare lo stato morale della nostra società con quello di una società veramente coesa ed organica, come fu e seppe mostrare di essere quella dei nostri progenitori romani. Pur tenendo conto che esiste sempre uno iato, una qualche distanza fra i valori che uno società professa ed onora a parole, e quelli che realmente i suoi membri mettono in pratica nelle circostanze concrete della loro vita pubblica e privata, e pur tenendo conto anche del fatto che i valori possono evolvere, non però rovesciarsi e capovolgere il proprio significato, perché in tal caso non si tratterebbe di una evoluzione, ma di un’auto-distruzione, il confronto appare impietoso da qualunque punto di vista, anzi addirittura improponibile.
Poi è arrivato il cristianesimo, è nata la millenaria, gloriosa civiltà cristiana. Tutti questi valori sono atti riorganizzati, per così ire, e inglobati nell’amore di Dio, misura di tutti gli altri: non l’amore dell’uomo per Dio, non la ricerca soggettiva dell’uomo di Dio, come è venuto di moda fra i teologi a partire dal Concilio Vaticano II; ma l’amore di Dio per l’uomo, la chiamata di Dio, l’Incarnazione di Dio che si spinge fino a interrogare e ad impegnare il singolo uomo, ciascuno solo di fronte a se stesso e alla necessità di operare una scelta definitiva fra i due padroni, Dio e il mondo. Come scrive san Paolo in Efesini, 5,8-14:
8 Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; 9 il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. 10 Cercate ciò che è gradito al Signore, 11 e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente, 12 poiché di quanto viene fatto da costoro in segreto è vergognoso perfino parlare. 13 Tutte queste cose che vengono apertamente condannate sono rivelate dalla luce, perché tutto quello che si manifesta è luce. 14 Per questo sta scritto:
«Svègliati, o tu che dormi,
déstati dai morti
e Cristo ti illuminerà».
Così, per esempio, nel valore della pietas, la devozione verso Dio è divenuta prevalente e ha inglobato quella per i familiari e quella per la Patria: infatti il cristiano deve amare Gesù Cristo più dei propri genitori (cfr. Lc. 14,26) e la Paria Celeste più di quella terrena (cfr. Rom. 122,2). Il concetto della virtus si è modificato in senso spirituale: senza sparire del tutto sul piano della forza e dell’ardore guerresco (vedi lo spirito che animava i combattenti di Lepanto e quelli sotto le mura di Vienna), ha assunto prevalentemente l’aspetto di una qualità interiore, legata al coraggio e alla forza morale, come nel caso dei primi martiri o in quello dei missionari che si fanno uccidere al palo della tortura, imitando lo spirito di accettazione della volontà divina mostrato da Gesù Cristo al momento della sua Passione. La bonfa fides e la pudicitia si sono conservati pressoché intatti. L’amicitia si è fortemente spiritualizzata (vedi il magnifico trattato sull’Amicizia spirituale di Aelredo di Rievaulx); l’amore, che per i romani era ancora un sentimento complesso ed eterogeneo, si è definitivamente precisato nei tre aspetti dell’eros o amore passionale (anche in senso mistico), della philia o amore di amicizia, e dell’agape o chiaritas, onnicomprensivo e totalmente disinteressato, secondo il famoso elogio di san Paolo (1 Cor. 1-13):
1 Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo. 2 Se avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi la carità, non sarei nulla. 3 Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi la carità, non mi gioverebbe a niente.
4 La carità è paziente, è benevola; la carità non invidia; la carità non si vanta, non si gonfia, 5 non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non addebita il male, 6 non gode dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità; 7 soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa.
*8 La carità non verrà mai meno. Le profezie verranno abolite; le lingue cesseranno e la conoscenza verrà abolita; 9 poiché noi conosciamo in parte, e in parte profetizziamo; *10 ma quando la perfezione sarà venuta, quello che è solo in parte sarà abolito. 11 Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino. 12 Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto.*
13 Ora dunque queste tre cose durano: fede, speranza, carità; ma la più grande di esse è la carità.
Questo, nei secoli della civiltà cristiana.
Ma essa è tramontata da un pezzo: la civiltà nella quale viviamo non è solo post-crirstiana, è violentemente anticristiana.
Abbiamo smarrito sia i valori pagani, in ciò ch’essi avevano di valido e di costruttivo, sia quelli cristiani; e non li abbiamo sostituiti con nulla. Ci troviamo al centro di un pauroso vuoto spirituale, come l’occhio del ciclone, e non ci diamo alcun pensiero della tempesta d’inaudita violenza che sta per abbattersi su di noi.
Anche se il tempo è breve, dobbiamo correre ai ripari; ricostruire, incoraggiare, rincuorare.
Dobbiamo tener sempre a mentre le parole del Santo Padre Pio XII nel mezzo di uno dei peggiori cataclismi della storia, la vigilia del Santo natale del 1942:
Non lamento, ma azione è il precetto dell’ora; non lamento su ciò che è o che fu, ma ricostruzione di ciò che sorgerà e deve sorgere a bene della società. Pervasi da un entusiasmo di crociati, ai migliori e più eletti membri della cristianità spetta riunirsi nello spirito di verità, di giustizia e di amore al grido: Dio lo vuole! pronti a servire, a sacrificarsi, come gli antichi Crociati. Se allora trattavasi della liberazione della terra santificata dalla vita del Verbo di Dio incarnato, si tratta oggi, se possiamo così esprimerci, del nuovo tragitto, superando il mare degli errori del giorno e del tempo, per liberare la terra santa spirituale, destinata a essere il sostrato e il fondamento di norme e leggi immutabili per costruzioni sociali di interna solida consistenza.
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