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Le quattro relazioni da ricostruire per restare umani

Abbiamo visto e discusso più volte, sulle orme di Aristotele di san Tommaso d’Aquino, che la vita è essenzialmente movimento, cioè attività. Solo le cose morte non si muovono, perché non agiscono.

Abbiamo anche visto che tale attività è determinata dall’esistenza di un fine. Se non vi fosse alcun fine da raggiungere, le cose potrebbero risparmiarsi la fatica di agire e di muoversi.

Ora, il fine è sempre proporzionato e adeguato alla natura di quella determinata cosa. Pertanto il fine è vegetativo, ossia di pur riproduzione e conservazione, negli esseri dotati di anima vegetativa, è sensitivo, e dunque parzialmente intenzionale, oltre che istintivo, negli esseri dotati di anima sensitiva; è libero e razionale negli uomini, che sono dotati di ragione e volontà. A rigore, tutto si muove, anche le montagne, le stelle e i pianeti; ma, essendo cose priva di vita, i loro movimenti, pur essendo sostanzialmente ordinati, perché soggetti alle leggi della natura, che sono ordinate per definizione, sono però del tutto ciechi e inconsapevoli e il fine cui tendono non è connesso direttamente al benessere degli enti, ma soltanto al ciclo naturale di cui sono parte.

D’altra parte, se tendere a un fine equivale a muoversi (perché chi sta sempre fermo non tende ad alcunché), e se il fine naturale dell’uomo è realizzare la propria natura razione, appagandosi del vero, è chiaro che i movimenti che contraddistinguono l’attività umana sono fatti di relazioni. Muoversi è la stessa cosa che entrare in relazione; tanto più che l’uomo essendo un animale socievole, se venisse privato di ogni relazione, smarrirebbe se stesso. Se Robinson Crusoe fosse stato liberato dalla sua isola non dopo quattro ani, ma dopo quaranta, probabilmente sarebbe impazzito: e infatti una delle più raffinate torture in uso presso certi istituti di detenzione consiste proprio nell’isolare il detenuto, magari al buio e in uno spazio ristretto, in modo che non oda alcun rumore e non possa percepire lo scorrere del tempo, né intuire l’esistenza del normale svolgimento della vita di ogni giorno, all’esterno.

Le relazioni fondamentali che costituiscono e corroborano la nostra umanità sono quattro: con Dio, con l’altro, con il mondo e con se stessi. Tutte insieme, se sanamente impostate e ben orientate, vale a dire non soffocate dall’egoismo dell’opportunismo, fanno di noi ciò che siamo, cioè degli esseri umani completi, sia pure con tutto il nostro bagaglio di pregi e difetti, più o meno tenaci, più o meno radicati; senza una sola di esse la nostra umanità si può definire incompleta, e pertanto insoddisfacente, ossia non atta a dare una risposta adeguata i nostri bisogni fondamentali, sia di natura materiale sia, soprattutto, di natura spirituale. Se venissero a mancare tutte e quattro, o se venissero gravemente compromesse nella loro normale esplicazione e nel soddisfacimento dei nostri bisogni necessari, noi non saremmo più esseri umani nel senso più pieno della parola. Avremmo ancora, naturalmente, l’aspetto di uomini e taluni modi di fare caratteristici della nostra specie; però, in buona sostanza, saremmo già membri di un’altra specie vivente, da taluni temuta e aborrita e da altri, invece, auspicata ed attesa con gioia. la specie trans-umana.

Ora queste quattro relazioni le stiamo perdendo tutte pressoché contemporaneamente (anche perché sono strettamente legate l’una con l’altra, O, quanto meno, stiamo assistendo ad un loro pauroso, progressivo e in apparenza inarrestabile indebolimento, ma ad una lenta erosione, che è più facile osservare, nella sua nuda evidenza, nello sviluppo dei bambini.

Partiamo dalla prima. La relazione dell’uomo a Dio non è un di più, qualcosa che può esserci o non esserci; è costitutiva del suo statuto ontologico di creatura razionale. Nessuna relazione a Dio, niente essere umano propriamente detto. Ma come è possibile che l’uomo, menomandosi, rinunci e recida via da sé una parte fondamentale del proprio essere? Lo può fare per via del potere che gli è stato Dato, precisamente da Dio. Dio lo ha creato simile a sé e gli ha dato l’autorizzazione, se non il comando, in quanto creatura razionale, di governare il mondo, cioè l’insieme delle cose inanimate e degli esseri irragionevoli. Tale potere gli ha conferito quasi automaticamente la facoltà di farne uso nel modo sbagliato, ossia con la pretesa di rendersi simili al Creatore o addirittura di rivaleggiare con Lui. Da lì in poi il passo è stato breve. L’uomo moderno si è costantemente sforzato di allontanare a sé l’immagine di Dio, onde dover più nemmeno ricordare che c’è Qualcuno che viene prima di lui e che è al di sopra di lui, e al quale dovrebbe corrispondere amore e gratitudine infiniti. È quello che gli psicanalisti freudiani chiamano l’uccisione del padre: per il solo fatto di esistere, per il solo fatto di aver dato la vita ai suoi figli, il Padre assume i connotati di una figura odiosa, tirannica: meglio se non esistesse più, se non gli facesse ombra con la sua presenza. Si veda la patetica e piagnucolosa lettera di Franz Kafka al proprio padre, puerile atto di accusa contro mille presunte prevaricazioni, riconducibili in fondo a questa sola: il padre c’è, è un uomo solido e che ha le idee ben chiare sulla vita e sul proprio posto nel mondo; il figlio no, si sente un nulla, uno zero, un eterno insicuro e un incapace totale, e in sostanza ne dà la colpa a suo padre, così, senz’altro motivo che una sorda, irragionevole invidia infantile e un banale bisogno di cercare un capro espiatorio sul quale riversare la responsabilità del proprio fallimento, del proprio radicale senso d’inadeguatezza. Se almeno anche il padre fosse un debole e un timido come il figlio! E Invece no, è grande e forte, anche fisicamente: e questo è un oltraggio, è una provocazione, come se egli volesse irridere la debolezza di quel figlio che non sa crescere, che non sa o non vuol trovare la sua strada nella vita…

Così, dei figli sempre più nani hanno coltivato un odio sempre più smisurato verso i loro padri: fenomeno divenuto clamorosamente visibile e generalizzato nel Sessantotto. Si noti che il Concilio Vaticano II precede di pochissimi anni il Sessantotto: è stato il, infatti, il Sessantotto dei cattolici e dei preti, la meschina ribellione dei figli rammolliti e ingrati contro quei padri, quei vescovi, quei teologi, quei papi, che erano stati, al loro confronto, dei veri e propri giganti. Ma i giganti, si sa, vivono in un mondo troppo grande: la loro morale punta troppo in alto; la loro coerenza punge a sangue i sensi di colpa si chi non la sa imitare nemmeno in piccola parte. E allora via tutto: abbassiamo la morale, togliamo la coerenza, proclamiamo che d’ora in poi si cambia musica, non ci sono più peccati né tentazioni, soprattutto non ci sono più nemici, sono diventati di colpo tutti belli, bravi e bene intenzionati, insomma c’era stato un grosso equivoco: i preti, chiusi in un loro mondo oscurantista, avevano voluto vedere il male dappertutto, anche dove non c’era. I massoni, i comunisti, gli ebrei, i protestanti, i seguaci delle false religioni, gli atei militanti: tutti ottimamente intenzionati, seguaci di credenze più che rispettabili. Rimasto padrone del campo, l’uomo ha messo in fuga i fantasmi del male, i diavoli e le streghe, e finalmente può costruire liberamente, cioè soggettivamente, il proprio destino di fraternità e solidarietà.

La relazione con l’altro è strettamente in relazione con Dio. Se Dio non c’è più, se Dio è morto, e i figli gelosi della madre lo hanno assassinato, non c’è più nemmeno il fratello. Perché mai bisognerebbe vedere un fratello nel primo straccione che passa per la strada? O Nel collega che cerca di scalzarmi dal mio posto perché ambisce alla mia scrivania? O nel vicino di casa dalle abitudini fastidiose, che mi fa venire l’orticaria non appena accende la radio per ascoltare le sue antipatiche canzoni? La storia di Caino e Abele è esemplare, come lo è quella di Giuseppe venduto ai mercanti dai suoi stessi fratelli: se viene meno l’autorità paterna, si disintegra il senso della famiglia: non c’è più fratello, non c’è più sorella, non c’è più alcun affetto umano che possa definirsi "sacro". L’altro non è più che un mezzo per realizzare i miei fini o un ostacolo da eliminare: null’altro. Sono io forse il suo custode di mio fratello? (Gn. 4,9). No di certo: ciascuno deve imparare a badare a se stesso. Di più. Gli altri, già per il solo fatto di esserci e si starci fra i piedi, sono una maledizione. Come dice Jean-Paul Sartre con brutale, disarmante franchezza, gli altri sono l’inferno.

Sia detto fra parentesi, è nostra opinione anche il fatto che l’enorme diffusione dell’omosessualità e degli stili di vita omosessuali abbiano a che fare proprio con questa interruzione della relazione vitale con l’altro. Da quando, con l’evento della società di massa, l’altro è divenuto un estraneo, che potenzialmente fa paura perché contrasta la nostra linea d’azione e fa concorrenza ai nostri obiettivi umani e professionali, ripiegare — anche sessualmente — su chi è più simile a noi, e del quale ben conosciamo, perché sono i nostri, i meccanismi fisiologici che procurano piacere, può apparire a molti una scelta meno rischiosa rispetto al "salto nel buio" costituito dalla relazione con l’uomo o con la donna. La donna, infatti, è un mistero per l’uomo, come l’uomo è un mistero per la donna: stabilire una forte relazione reciproca implica una certa energia, una certa disponibilità al rischio esistenziale, e quindi l’accettazione che una vita normale è fatta anche di rischi quotidiani, grandi o piccoli che siano. La relazione con il mondo è il frutto di mille e mille relazioni con gli altri, profonde o fuggevoli, e anche con gli enti inanimati, ma carichi si significati: le stagioni, le albe, i tramonti, i paesaggi montani o marittimi, la vastità delle pianure immerse nella nebbia, lo scrosciare delle cascate, i fulmini di un temporale estivo, lo spettacolo indescrivibile delle stelle cadenti o di un’aurora polare.

Il fatto che ormai, nella maggioranza dei casi, noi non sappiamo più cogliere il linguaggio sconvolgente della bellezza nelle manifestazioni della natura, siano esse ordinarie o straordinarie, mostra fino a che punto ci siamo inariditi nella nostra attuale forma mentis utilitarista e materialista, e non siamo più in grado di riconoscere in esse altrettante manifestazioni della Parola di Dio, che sempre si serve anche del linguaggio della bellezza, come quello a noi più spontaneo e più connaturato.

La quarta relazione che stiamo perdendo è, paradossalmente, quella con noi stessi. In realtà esiste una perfetta logica in questo, perché allentare, rifiutare o recidere la relazione con Dio fa automaticamente dell’uomo uno spaesato, uno spostato, uno stralunato, un alieno, che vaga senza scopo né meta nei deserti dell’esistenza. Ma c’è qualcosa di ancor peggiore che rescindere e ripudiare il legame filiale don Dio Padre, ed è il voler ergere l’uomo a dio di se stesso. In questo senso l’uomo non arriva a negare propriamente l’esistenza di Dio, riconosce anzi, implicitamente, la necessità e la bontà di un principio ordinatore, però intende rivendicare quel ruolo a se stesso, in virtù del fatto che egli esercita già, di fatto, un dominio sul mondo, e, per quanto imperfetto (come mostrano le catastrofi naturali, le epidemie, ecc.) ne ha ricevuto l’investitura da Dio medesimo (Gen. 1, 26):

E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».

Di una cosa però si è scordato, o meglio non ha ancora saputo meditare a sufficienza e trarre la conclusione necessaria della terribile lezione del Peccato originale: per esercitare un legittimo dominio sul mondo non è sufficiente essere fatti a immagine di Dio e neppure disporre della forza necessaria a piegare a sé le forze della natura. Manca ancora la cosa più importante: l’umiltà di spirito con la quale la creatura si riconosce simile, ma non uguale al suo Creatore; e quello spirito di servizio che, solo, consente di accostarsi alle cose e agli esseri viventi con padronanza, sì, ma anche con amore, senso del limite e spirito di responsabilità.

In altre parole, non ci si può mettere al posto di Dio, senza essere Dio; si potranno scimmiottare alcuni movimenti, si potranno compiere degli atti di forza e quindi nelle vere e proprie forzature sui processi della natura (clonazione, fecondazione eterologa, cambio di sesso), ma non si sarà mai e poi mai in grado di agire con misura, con sapienza, con delicatezza, e con l’occhio rivolto al bene intrinseco e complessivo di tutte le creature, e non di alcune o, in particolare, della propria specie. Questo farebbe dell’uomo non il signore, ma il tiranno del mondo creato; e, inevitabilmente, ne farebbe anche lo spietato tiranno di se stesso.

Ecco dunque da dove dobbiamo ripartire per ricostruire la nostra umanità minacciata: dalle quattro relazioni fondamentali. E poiché la più importante è la prima, quella con Dio, poiché da essa dipendono anche le altre, incominciamo proprio da lì: gettiamoci a terra come il figlio prodigo, e supplichiamolo (Lc 15,21):

Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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