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In principio era Hollywood

Nelle società moderne, dove l’illusione democratica genera l’illusione della libertà, mentre di fatto le oligarchie controllano sia il lato materiale della vita della gente, sia quello spirituale, il fattore veramente decisivo è il controllo dei mezzi di comunicazione di massa, perché per il cittadino moderno non è vero quel che è vero, ma è vero quel che passa attraverso la comunicazione di massa e specialmente attraverso il cinema. Non importa se il cinema, oggi, è in crisi, quanto al numero delle sale di proiezione e quanto al numero dei biglietti staccati; esso ha talmente pervaso l’immaginario collettivo, che seguita a esercitare la sua influenza anche sugli altri mezzi di comunicazione, dalla radio alla televisione e al telefonino, per non parlare della carta stampata, e anche sulle varie forme di spettacolo, i concerti di musica leggera, gli eventi mondani d’ogni tipo, le sfilate di alta moda e perfino gli eventi sportivi. La politica, a sua volta, ne è pesantemente influenzata, sia per quel che riguarda il modo della comunicazione, sia riguardo ai contenuti stessi; e nemmeno la scuola si può considerare un’isola indipendente da tali influssi. In breve, chi controlla il cinema controlla anche tutto il resto, letteralmente in ogni ambito della vita collettiva e di quella individuale. Influenza il modo di pensare, di sentire, di sperare, di temere, di amare e di odiare; influenza gli atteggiamenti verso il lavoro, il tempo libero, la cultura, la religione, la morale, l’arte, la scienza, e naturalmente verso la famiglia e le istituzioni pubbliche; ma anche e soprattutto verso il sesso, l’affettività e l’erotismo.

E quando diciamo il cinema, intendiamo Hollywood: cioè quella piccola percentuale della produzione cinematografica che entra nel circuito della grande distribuzione mondiale e che raggiunge centinaia di milioni di persone. Il resto del cinema che si fa nel mondo, non solo negli altri Paesi ma negli stessi Stati Uniti, il cinema sperimentale, il cinema d’autore, il cinema che non arriva alla grande distribuzione perché viene fatto con piccoli capitali e senza star famose, e quindi non attira l’attenzione della critica e del pubblico, se non quelli di nicchia, non conta: dal punto di vista dell’immaginario collettivo, è come se non esistesse. C’è stato un periodo, diciamo fra gli anni ’50 e ’70, in cui accadeva che dei registi molto dotati, non solo americani, ma francesi, italiani, britannici, russi, realizzassero dei film d’autore che erano anche dei grossi successi commerciali ed entravano nella grande distribuzione; ora quel momento è passato, ed esiste una netta divisione fra cinema d’autore e cinema commerciale. Il cinema che conta, che realizza i grandi numeri, che mobilita i critici importanti, che vince i premi famosi e che riscuote l’interesse del vasto pubblico, è solo ed esclusivamente cinema commerciale, di un livello artistico e intellettuale sempre più basso, e di una serietà d’intenti sempre più mediocre, per non dire nulla. Il grande pubblico si abitua così a "digerire" dei prodotti cinematografici sempre più scadenti, e finisce per trovarli buoni, come sempre accade quando non c’è altra scelta: perché questa è la situazione del "grande" cinema oggi, il fatto di agire in regime di monopolio. Le grandi case cinematografiche hollywoodiane si sono messe d’accordo, si sono divise il lavoro e spartite le quote di mercato, operano in sinergia e portano avanti un unico progetto globale. La caratteristica più notevole del cinema odierno, infatti, è quella di prestarsi in maniera sempre più scoperta a veicolare una filosofia di vita che esprime il punto di vista dei liberal americani, progressista, femminista, ambientalista, migrazionista e gay-fiendly; un punto di vista irreligioso o pervaso di una religiosità vaga e dolciastra, più che religiosità si potrebbe dire una spiritualità usa e getta, stile New Age, che diffonde nel pubblico una concezione vagamente naturalista e panteista, secondo la quale noi veniamo dalla terra e torniamo alla terra, né dobbiamo aspettarci un destino ultraterreno, perché tutto ciò che esiste è qui, adesso, e non c’è nessun altro livello di realtà oltre quello materiale e visibile (si noti con quanta frequenza il cinema odierno diffonde la scena del funerale laico che consiste nella dispersione delle ceneri del caro estinto, dopo la cremazione d’obbligo).

Perfino lo spettatore più distratto si sarà accorto che il cinema di Hollywood, da alcuni decenni, ma con un’accelerazione negli ultimi anni, sta portando avanti una vera e propria battaglia ideologica per legittimare pienamente l’omosessualità, per porla su un piano di dignità pari, se non superiore, all’eterosessualità, con tutto ciò che ne consegue: esaltazione delle famiglie arcobaleno, promozione della bisessualità e della transessualità, intimidazione anche giuridica nei confronti del dissenso, diffusione dello stile di vita gay nella società, nella scuola e perfino nell’esercito, acquisizione di significativi consensi da parte di certi settori delle chiese, specie protestanti, ma di recente anche quella cattolica. Lo schema utilizzato è da manuale. Dapprima compaiono nei film alcuni personaggi secondari con tendenze gay, non sempre dichiarate e palesi; poi la loro presenza si infittisce; infine dai personaggi secondari si passa a quelli principali. A quel punto la problematica si fa estremamente seria: ciò che all’inizio veniva presentato al pubblico quasi come uno scherzo, una forma d’ironia o un timido esperimento, diventa lo strumento per far passare contenuti sempre più "pesanti" e sempre più dichiaratamente ideologici. Il film Cuori nel deserto, del 1985, di Donna Deitch, è stato una pietra miliare nella conquista di una fierezza e di una identità lesbiche, perché milioni di donne lesbiche si sono potute immedesimare nella vicenda della protagonista, una professoressa divorziata la quale conosce una giovane cameriera che di lei s’innamora, e alla cui passione, dopo molte incertezze, decide di corrispondere, nonostante le differenze di educazione, censo, di cultura e di età. Come dire: l’amore non conosce confini. La cosa più notevole, in questo come in altri film dello stesso genere, è l’atteggiamento tenuto da amici e parenti: a parte qualche nota stonata, i personaggi di contorno che si presentano come onesti, intelligenti, sensibili, non hanno difficoltà a comprendere e sostenere le pulsioni omoerotiche delle due protagoniste, sempre in base alla legge secondo cui "al cuore non si comanda". Non intervengono mai scrupoli morali o principi religiosi; si dà per scontato che non ve ne possano essere, se due persone sono "sincere" e se il loro sentimento è grande e "pulito".

Naturalmente in questi film di vera e propria propaganda non si mostra mai il lato sordido dell’omosessualità, la prostituzione, la promiscuità, l’infedeltà, i drammi della gelosia, le famiglie distrutte, i figli sconcertati o traumatizzati; al contrario, tutto si svolge in un’atmosfera molto "sana", molto civile e molto simpatica. I protagonisti omosessuali sono delle bravissime persone, gentili, educati, cittadini esemplari, pieni di buoni sentimenti verso il mondo intero, altruisti, generosi, che non si distinguono in nulla, anche esteriormente, da qualsiasi altra persona; e anche questa è una grossa mistificazione della realtà, perché se ciò accade in un certo numero di casi, più spesso l’omosessuale si vede e si riconosce per dei tratti e un certo modo di fare che denotano uno scompenso, uno squilibrio. Ma questo è appunto ciò che i registi, o meglio i produttori, vogliono assolutamente togliere dalla testa del pubblico: che l’omosessualità sia uno squilibrio e una disarmonia, e che nasca da problemi e conflitti psicologici non risolti, ma che potrebbero essere affrontati, se non sempre risolti, qualora venissero riconosciuti come tali. Invece si vuol far passare l’idea che gay è bello, che non c’è nulla di strano nel far l’amore e magari nello sposarsi con una persona dello stesso sesso, che i figli non ne subiscono alcun danno — anche se resta da vedere come arriveranno, questi figli, a meno che ci fossero da prima, cioè da prima del coming out dei genitori omosessuali. Si vuole dar l’idea, e ci si è in gran parte riusciti, che non c’è niente di sbagliato nell’omosessualità, e che la sola cosa sbagliata sono le prevenzioni, i pregiudizi, l’incomprensione degli "altri". Il problema non è quello di una moglie e madre che pianta marito e figli per andare a vivere la sua felice storia d’amore con un’altra donna, magari la cameriera o la fioraia del negozio all’angolo; e nemmeno il papà che pianta moglie e figli, magari dopo dieci o venti anni di matrimonio, per inseguire il suo sogno di felicità con un altro maschio, un collega, un amico, un tifoso della stessa squadra di calcio, o magari il collega cow-boy in qualche ranch sperduto ai piedi delle Montagne Rocciose (vedi Brokeback Mountain, del 2005; due piccioni con una fava: propaganda gay e riduzione del genere western, già roccaforte dei valori virili alla John Wayne, a strumento dell’ideologia gay). Il problema sono gli altri. È l’ultima versione, rivista e corretta, della teoria di Rousseau seconda la quale l’uomo è naturalmente buono e sono buoni anche i suo istinti, mentre la società tende a incattivirlo.

È incalcolabile l’apporto dato alla "normalizzazione" dell’omosessualità nel sentire delle persone comuni, dato da film come Philadelphia, di Jonathan Demme, del 1993, nel quale l’idea vincente, si fa per dire, è unire in un solo intreccio la lotta contro il pregiudizio verso i malati di AIDS e quello verso gli omosessuali in generale. Forzando deliberatamente la realtà, si passa sotto silenzio la relazione che realmente esiste fra AIDS e omosessualità, e si presenta la battaglia per l’accettazione dei malati di AIDS come l’altra faccia della medaglia per l’accettazione delle persone omosessuali. Anche qui il protagonista è un bravissimo cittadino, onesto, laborioso, rispettoso della legge, figlio affezionato, che scopre di essere malato di AIDS e viene ingiustamente licenziato dai suoi datori di lavoro, accecati dal pregiudizio verso di lui e la sua malattia, quando viene in luce la sua doppia vita e il fatto che vive stabilmente con un altro uomo col quale ha una relazione sessuale. Grazie alla popolarità di attori come Tom Hanks e Antonio Banderas (il suo compagno/amante), milioni e milioni di persone in tutto il mondo hanno introiettato l’idea che il problema non sia l’omosessualità e tanto meno l’atto della sodomia, intrinsecamente pericoloso sotto il profilo igienico-sanitario, e che non sia nemmeno l’AIDS, ma solo e unicamente l’atteggiamento sbagliato, egoista, razzista, ignorante, delle persone omofobe, le quali giudicano senza capire e senza mostrare un briciolo di umanità. È lo stesso schema, si noti, che oggi viene utilizzato per far sentire in colpa, e per far passare da persone brutte e cattive, quanti non sono affatto persuasi che il dovere cristiano degli italiani, e degli europei in generale, sia quello di accettare l’invasione di milioni e milioni di africani travestita da emergenza umanitaria. Perfino i volti sono gli stessi: anche qui Antonio Banderas (sulla scia del collega Richard Gere, e davanti a chissà quanti altri, che ora si metteranno in fila), benché stagionato come attore, si presta con entusiasmo a mettere la faccia per veicolare l’ideologia migrazionista, sponsorizzando l’opera delle o.n.g. che imbarcano i migranti sulle coste dell’Africa per scaricarli nei porti italiani, il tutto sotto le luci dei riflettori e con qualche decina di giornalisti al seguito, a far da cassa di risonanza. Infine sono gli stessi anche i grandi registi dell’operazione: quei signori della grande finanza internazionale, che hanno la loro centrale operativa a Wall Street e ai quali non importa proprio nulla né dell’AIDS, né del cambio di sesso, né dei diritti delle persone omosessuali, né delle vere o supposte discriminazioni delle quali son vittime, e nemmeno importa loro della miseria dell’Africa e del destino delle sue popolazioni, poiché la sola cosa a cui sono interessati è seminare il massimo del disordine possibile, il massimo della confusione, il massimo del disorientamento, sia materiale che morale, poiché solo nel caos essi, una minuscola minoranza della popolazione mondiale, possono esercitare un dominio occulto su oltre sette miliardi di persone che abitano il pianeta Terra. Dal cinema di Hollywood, che plasma l’immaginario collettivo, poi, a cascata, per mille rivoli prendono alimento e forza altre forme d’indottrinamento delle masse: dal cinema degli altri Paesi, alle televisioni pubbliche e private, ai premi artistici e letterari, ai discorsi dei capi di Stato e di governo, ai sermoni del clero modernista e del falso papa argentino, a ciò che si insegna nelle scuole e nelle università, vale a dire un distillato di questa ideologia favorevole all’omosessualità, al transessualismo stabilito per legge e finanziato dalla pubblica sanità, alle famiglie arcobaleno, all’adozione di bambini da parte delle coppie gay, alla fecondazione eterologa, all’utero in affitto, così come all’apertura dei porti e delle frontiere davanti a qualsiasi massa d’immigrati, regolari e irregolari, onesti e delinquenti, lavoratori o terroristi: così, senza far domande, senza porre limiti, senza operare la minima selezione o il minimo controllo.

C’è un piano dietro a tutto questo, e si vede. Si vede anche chi sono i registi; chi sono i teorici; quali sono i manovali; e anche cosa ci guadagnano in termini di stipendi, carriere, vantaggi materiali di vario genere. Si vede come la politica, la stampa, la cultura, perfino lo sport, siano asserviti a queste logiche, a fungere da strumenti pubblicitari della nuova ideologia progressista. Perciò, si tratta solo di tirare le conclusioni. Ogni tanto si aprono delle smagliature nel sistema — il caso Epstein negli Sati Uniti o il caso Bibbiano in Italia — e ci si accorge che il diavolo non sempre riesce a nascondere in tempo la sua lunga e brutta coda, indizio della sua effettiva presenza. Arrivati a questo punto, non si può far finta di non vedere e non si può neppure rimanere neutrali. Bisogna scegliere, e devono farlo anche quelli che preferirebbero starsene tranquilli in disparte. O si decide di stare dalla parte della verità, cioè del bene, oppure dalla parte della menzogna, che è il male. Tertium non datur

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Dmitry Demidov from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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