Grazie di tutto, don Gino
4 Marzo 2023Un vecchio romanzo di Paul Bourget, del 1927, si intitola: «I nostri atti ci seguono»: l’autore era un valente studioso di psicologia e, con quel titolo, egli ha colto una nota caratteristica della condizione umana. Ora, se è vero che i nostri atti ci seguono, nel senso che non possiamo in alcun modo rimuoverli e cancellarli come se non fossero mai esistititi, a maggior ragione potremmo affermare, sulle tracce di Jung, che «la nostra Ombra ci segue», implacabilmente, quanto più noi ci sforziamo di rifiutarla.
Per il maestro di Zurigo, l’Ombra era un concetto prettamente psicologico; ci domandiamo però se non sia giusto ampliarlo ed innalzarlo, fino a portarlo su di una dimensione filosofica: vale a dire, inglobandovi non solo le polarità esistenziali che il nostro io cosciente rifiuta, mano a mano che compie determinate scelte, ma anche quella dimensione ulteriore, ontologicamente irriducibile, formata dalle nostre infinite potenzialità che rimangono inespresse, e di cui abbiamo parlato nel precedente articolo «Le vite che non abbiamo vissuto ci tormentano come arti amputati» (sempre sul sito di Arianna Editrice).
Ma facciamo un passo alla volta.
Una esposizione abbastanza fedele del concetto junghiano di «ombra» è contenuta nel libro di Thorwald Dethlefsen e Rüdiger Dahlke, «Malattia e destino. Il valore e il messaggio della malattia» (titolo originale: «Krankheit als Weg», München, Bertelsmann Verlag, 1984; traduzione italiana di Paola Giovetti, Roma, Edizioni Mediterranee, 1986, pp. 50-51, 52-54):
«Ogni identificazione che si basa su una decisione esclude un polo. Però tutto ciò che noi NON vogliamo essere, che NON vogliamo ritrovare in noi, che NON vogliamo vivere, che NON vogliamo che entri a far parte della nostra identificazione, costituisce il nostro lato d’ombra. Infatti il rifiuto della metà di tutte le possibilità non fa certamente sì che queste spariscano, ma le bandisce semplicemente dall’identificazione dell’Io dalla coscienza seriore.
Il "no" ha eliminato dalla nostra visuale un polo, ma non lo ha fatto sparire. Il polo rifiutato continua infatti a vivere ininterrottamente nell’ombra della nostra coscienza. Come i bambini piccoli credono che chiudendo gli occhi si diventi invisibili, allo stesso modo gli uomini credono di potersi liberare di una metà della realtà rifiutando di accettarla dentro di sé. Così si permette a un polo (per esempio la virtù) di entrare nella luce della nostra coscienza, mentre il polo opposto (pigrizia) deve restare nell’ombra, in modo da non vederlo. Il NON VEDERE porta rapidamente a concludere di NON AVERE quella determinata caratteristica e si crede che un polo possa esistere senza l’altro.
Noi definiamo ombra (concetto coniato da C. G. Jung) la somma di tutte le realtà rifiutate, quelle che l’uomo non vede, o non vuol vedere, e che per lui sono quindi inconsce. L’ombra è il pericolo maggiore dell’uomo, perché essa è in lui senza che lui lo sappia. L’ombra fa sì che tutte le intenzioni e gli sforzi dell’uomo si trasformino alla fine nel loro opposto. Tutte le manifestazioni che derivano dall’ombra vengono dall’uomo proiettate su un anonimo "male" che esisterebbe nel mondo, in quanto ha paura di trovare in se stesso la vera fonte di ogni aspetto negativo. Tutto ciò che l’uomo non vuole e non desidera, deriva dalla sua propria ombra, che è la somma di ciò che egli non vuole avere. Però il rifiuto di confrontarsi con una parte della realtà e di viverla non porta affatto allo sperato successo. Al contrario, le realtà rifiutate costringono l’uomo ad occuparsi di loro in maniera particolarmente intensa. Questo avviene per lo più attraverso il giro vizioso della proiezione, perché se si è rifiutato e represso in sé un determinato principio, fa sempre paura incontrarlo di nuovo nel cosiddetto MONDO ESTERIORE. […]
Ritroviamo qui una legge ironica cui nessuno può sottrarsi: l’uomo si dedica soprattutto a cò che non vuole. Nel far questo si avvicina tanto al principio rifiutato che finisce per viverlo! Il lettore non dovrebbe dimenticare queste parole: il rifiuto di un qualunque principio fa con certezza in modo che la persona viva direttamente questo principio. In base a questa legge, i figli assumono col tempo i comportamenti che odiano nei genitori, i pacifisti diventano militanti, i moralisti licenziosi, gli apostoli della salute si ammalano gravemente. […]
A questo punto dovrebbe risultare chiaro che in realtà non esiste un mondo circostante che ci forma, ci influenza o ci fa ammalare – il mondo circostante si comporta come uno specchio nel quale noi vediamo sempre e soltanto noi stessi, per l’esattezza anche e soprattutto la nostra ombra, per la quale in genere siamo ciechi. Come guardando il nostro corpo fisico riusciamo a vederne soltanto una piccola parte, e non siamo capaci di vederne vari aspetti (colore degli occhi, viso, spalle, ecc.) se non con l’aiuto di un riflesso nello specchio, allo stesso modo per quello che riguarda la nostra psiche siamo parzialmente ciechi e possiamo riconoscere la parte a noi invisibile (ombra) solo tramite la proiezione e il riflesso del cosiddetto mondo esterno o mondo circostante. La conoscenza ha bisogno della polarità.
Specchiarsi serve però soltanto a chi si riconosce nello specchio, altrimenti è un’illusione. Chi vede nello specchio i propri occhi azzurri, ma non sa che si tratta dei PROPRI occhi, si illude e non acquista conoscenza. Chi vive in questo mondo ma non si rende conto che tutto ciò che percepisce e vive è lui stesso, rimane nell’illusione e nell’inganno. È vero che l’illusione risulta incredibilmente vera e reale (… certuni parlano addirittura di FATTI DIMOSTRABILI) – però non si dovrebbe mai dimenticare questo: anche un sogno risulta perfettamente reale fintanto che ci si trova in esso. Bisogna svegliarsi per rendersi conto che il sogno è un sogno. Questo vale anche per il grande sogno della nostra esistenza. Bisogna prima svegliarsi per poterci render conto dell’illusione.
La nostra ombra ci infonde paura. Questo non deve meravigliare, in quanto essa consiste esclusivamente di tutte quelle parti di realtà che abbiamo allontanato il più possibile da noi. L’ombra è la somma di tutto ciò che noi crediamo fermamente che dovrebbe essere eliminato dal mondo affinché il mondo possa essere bello e sano. Ma le cose stanno esattamente all’opposto: l’ombra contiene tutto ciò che il mondo – il nostro mondo – ha bisogno di avere per sanarsi. L’ombra ci rende malati in quanto ci manca la sua presenza per poter essere interamente sani.
Il racconto del Graal tratta proprio questo problema. Il re Amfortas, ferito dalla lancia del mago Klingsor, o in altre versioni da un avversario pagano o addirittura a un nemico invisibile, è ammalato. Tutte queste figure sono evidentemente chiari simboli dell’ombra di Amfortas, dell’avversario invisibile. La sua ombra lo ferisce e con le sue forze egli non può sanarsi in quanto non osa interrogarsi sulla vera causa della propria ferita. La domanda necessaria da porsi sarebbe però quella circa la natura del male. Dato che non vuole esporsi a questo conflitto, la sua ferita non può cicatrizzarsi, e il re aspetta un redentore che abbia il coraggio di porre la domanda risanatrice. Parzifal è all’altezza di questo compito, perché – come dice il suo nome – egli attraversa la polarità di bene e male e si conquista quindi il diritto di porre la domanda redentrice: "Di che cosa hai bisogno, zio?". La risposta è sempre la stessa, sia che venga da Amfortas che da qualunque altro malato: "La tua ombra!". Soltanto la domanda relativa al male, al lato oscuro dell’uomo, ha effetti risanatori nella nostra storia. »
Per Jung, come abbiamo visto, e per le correnti di pensiero che a lui si rifanno, l’Ombra è essenzialmente il rovescio della Persona. Se la Persona, infatti, è essenzialmente l’immagine ingannevole che gli altri si sono fatti di noi e in cui noi stessi finiamo per credere, L’Ombra corrisponde alla parte di noi che abbiamo rifiutato e che, se riuscissimo a vedere, ci restituirebbe un’immagine inattesa e sconcertante di noi stessi. Eppure, non riusciremo mai a raggiungere un equilibrio stabile, se non imparando a guardarci nello specchio, riconoscendo l’Ombra che è in noi, e adoperandoci per integrarla nel quadro della nostra vita psichica.
Jung soleva dire che dovremmo imparare a fare ameno di una certa patina di rispettabilità sociale, se vogliamo vivere davvero la nostra vita in modo pieno, libero e felice; concezione che – sia detto fra parentesi – lo poneva ulteriormente in conflitto con l’ex maestro Freud, il quale non abbandonò mai l’idea che la civiltà «deve» imporre una rigida censura sulle nostre pulsioni, per il bene del corpo sociale: anche a costo di generare repressione, frustrazione, nevrosi e infelicità nel singolo individuo.
Coerentemente con l’impostazione junghiana, per psicoterapeuti come Thorwald Dethlhefsen la malattia è, fondamentalmente, la manifestazione del conflitto provocato dal rifiuto della propria ombra, lo scompenso che si crea quando l’io respinge una polarità esistenziale e poi, involontariamente, finisce per concentrare su di essa la propria vita interiore.
L’Ombra, per Jung, non è il male; è, piuttosto, la nostra parte goffa e infantile, ma fresca ed autentica, che aspira alla luce e che, tuttavia, si scontra con le regole e con le convenzioni, vedendosi continuamente respinta nel sottosuolo della psiche (una concezione che risente, evidentemente, della lezione nietzschiana circa la dimensione «apollinea» e quella «dionisiaca» del nostro essere). Per vivere pienamente la nostra vita, secondo Jung, noi dovremmo trovare il modo di dare voce ed espressione all’Ombra, riconoscendo la sua legittimità e la sua funzione necessaria nell’economia della nostra esistenza. Altrimenti, finiremo per precipitare verso la schizofrenia maligna, simboleggiata dalla vicenda di Jekill e Hyde, dove quest’ultimo rappresenta, appunto, la parte profonda e vitale che si è visto negato, dall’io cosciente, qualunque diritto di cittadinanza, degenerando in manifestazioni autodistruttive.
Si tratta di una concezione eticamente complessa, almeno per la cultura occidentale, dove la polarità del Bene e del Male, se non altro, è radicata fin dagli albori del pensiero filosofico, e, in seguito, per il tramite del cristianesimo, è stata considerata come una realtà imprescindibile della vita morale e come una struttura ontologica originaria. Molto più vicina, invece, essa appare alle filosofie orientali, specialmente al taoismo e al buddismo, secondo le quali la realtà in se stessa è frutto di una compresenza di principî opposti – caldo e freddo, luce e tenebra, salute e malattia – i quali, pur restando distinti, si abbracciano e si armonizzano reciprocamente.
Dal nostro punto di vista, comunque, si tratta di trasferire il concetto di Ombra dal piano puramente psicologico a quello filosofico, includendovi non solo la nostra polarità rifiutata, ma anche tutto quell’infinito spettro di possibilità che giacciono in noi e che, pur non realizzandosi che in minima parte, testimoniano, col solo fatto di esserci, la nostra irriducibilità alla sfera della realtà fattuale; la nostra appartenenza ad una realtà ontologica originaria, che sfugge a ogni possibilità di esplicazione concreta ,perché è essa medesima un perenne rinvio alla dimensione dell’altrove, della trascendenza e dell’assoluto.
In altre parole, se si crede che la persona umana non sia altro che ciò che di lei si vede o che, eventualmente, si può scoprire sul lettino dello psicanalista, allora non c’è nessun residuo, nessuno sfasamento tra la realtà effettuale e la realtà noumenica del nostro essere: noi siamo i nostri atti, le nostre parole ed i nostri pensieri. Ma se, invece, così non è; se la persona è una realtà che eccede, costituzionalmente, l’ambito della realtà manifestata, perché la sua essenza profonda è misteriosa e inafferrabile con gli strumenti della ricerca empirica, allora ne consegue che essa non è chiusa e delimitata entro i confini dell’io, ma si espande a trecentosessanta gradi ed è collegata con la realtà universale, di tutte le altre persone e di tutti gli altri enti: passati, presenti e futuri.
In quest’ottica, l’Ombra è un concetto molto più ampio di quello ammesso dalla psicanalisi: non soltanto la parte rifiutata dall’io cosciente, ma la dimensione assoluta ed eterna dell’io trascendente, che, già qui ed ora, è, nella sua vera essenza, oltre le barriere dello spazio e del tempo ed oltre i confini fra l’io e il tu. Nella nostra essenza, infatti, noi non siamo individui isolati e limitati, ma siamo parte della realtà cosmica, esattamente come le gocce d’acqua sono parte del mare, o le molecole di ossigeno sono parte dell’aria.
Giunti a questo punto, tuttavia, ci si potrebbe chiedere – ricordando il romanzo di Adalbert von Chamisso «L’uomo senz’ombra» – se noi potremmo vivere, dopo tutto, senza la nostra Ombra; se, cioè, una volta che avessimo pienamente riconosciuto e integrato in noi la polarità che coscientemente abbiamo rifiutato, questo non provocherebbe in noi un ulteriore squilibrio. In altri termini: noi possiamo davvero fare a meno della nostra Ombra? Non sarebbe come voler sopprimere una parte essenziale alla nostra armonia interiore, sotto l’apparenza di aver recuperato entrambe le polarità?
La questione non è peregrina come potrebbe sembrare; anzi, a ben guardare, essa scaturisce naturalmente dalle premesse. Se si afferma che il conflitto nasce dal dualismo, vale a dire dal rifiuto di una delle due polarità dell’esistenza, e che esso deve venire superato in nome della esigenza di vivere pienamente e liberamente l’intero arco della realtà possibile, allora bisogna spiegare perché di questo arco completo, di questa dimensione totale, non dovrebbe far parte l’Ombra. Non si tratta di una contraddizione?
A prima vista, parrebbe di trovarsi in presenza di un paradosso logico, del tipo di quello basato sulla affermazione che tutti gli uomini mentono, tranne Socrate: chi ci garantisce che l’autore di questa frase non stia mentendo egli pure, come ogni altro? Ma ben presto ci si accorge che non si tratta di un paradosso logico, ma, semmai, di un paradosso esistenziale. Se l’armonia interiore deriva dal superamento del dualismo e dall’assunzione di entrambe le polarità presenti nella psiche, allora è evidente che l’Ombra, in quanto tale, tende a scomparire, mano a mano che il conflitto si spegne. Tuttavia, non è il caso di rimpiangerla: non più di quanto si rimpiange una malattia che se ne sta andando; e, a chi obiettasse che la malattia è una polarità tanto necessaria quanto la salute, si potrebbe rispondere che ciò non costituisce un buon motivo per corteggiarla.
La malattia, infatti, va superata, in una sintesi che oltrepassi l’opposizione salute-malattia; finché si rimane all’interno di quella contrapposizione, la malattia non è mai superata, né la minaccia da essa rappresentata. Allo stesso modo, l’Ombra va oltrepassata, mediante la consapevolezza del lato oscuro che è in noi; se non si riesce a fare ciò, si rimane sempre esposti alle crisi ed alle contraddizioni provocate dal dualismo. In fondo, l’Ombra non è altro che il segnale di qualcosa che avevamo rifiutato o rimosso, così come la febbre è un segnale della malattia.
Noi, pero, avevamo ipotizzato che l’Ombra, junghianamente intesa, sia soltanto una piccola parte di una realtà molto più vasta; una realtà che fa parte della dimensione illusoria dell’io, vale a dire dell’io che si crede esistente di per se stesso, indipendentemente dal Tutto in cui è immerso. In questa accezione più ampia, che si proietta fuori della nostra realtà personale e coinvolge l’intera dimensione cosmica, senza limiti di spazio né di tempo, l’Ombra non è solamente la parte rifiutata che continua a seguirci, chiedendo di essere accolta, ma l’infinita potenzialità che si cela nella nostra essenza e che coincide, in effetti, con l’essere in cui siamo immersi.
L’essere, in effetti, non ha limiti né confini; non è uno, non è due, ma è – come si dice in sanscrito – «advaita», non duale: di esso possiamo solo dire che non è duale, ma non, propriamente parlando, che esso sia uno, perché il concetto della unità presuppone quello della pluralità: mentre l’essere, in quanto tale, è oltre la dimensione quantitativa, oltre la categoria del numero.
E, se talvolta lo scriviamo con la lettera maiuscola, è solo per evidenziare che, al di là dell’essere manifestato, che pervade l’intero universo, vi è pure una dimensione personale, specifica, dell’Essere; vi è il concetto di Essere come origine, come causa e come fine di tutti i singoli esseri che esistono, di tutto ciò che è visibile, percepibile, pensabile; di tutto l’essere che si manifesta a noi, ma illusoriamente, come passato, presente e futuro, mentre, in realtà, non vi è che un unico tempo: l’eterno presente, vale a dire l’assenza radicale di tempo.
L’Essere in quanto Essere, infatti, è per sua stessa natura non manifestato e, a rigor di termini, inesprimibile, inconcepibile, ineffabile.
L’Essere di cui possiamo parlare, l’Essere che possiamo pensare, e sia pure in maniera astratta, non è veramente l’Essere, ma solo un pallido riflesso di Quello: un simbolo necessario per le nostre menti infinitamente limitate, inadeguate, balbettanti.
Eppure, una scintilla di quella Luce è in noi: ed è proprio l’Ombra a ricordarcelo, con il suo grido silenzioso, ma tenace.
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