
Eppure è Natale, e conserviamo la speranza
24 Dicembre 2018
Se Dio è l’Assoluto, da dove viene il male?
24 Dicembre 2018La cosa essenziale è la verità; di tutto il resto si potrebbe anche fare a meno, ma non della verità. Nessuno, neanche il cinico più incallito, neanche il nichilista più convinto, può fare a meno della verità: nelle grandi o nelle piccole cose, essa è la garanzia del fatto che ci stiamo muovendo in un mondo reale, e non nel labirinto della pazzia.
Una domanda affascinante è se la verità sia accessibile a tutti, beninteso a determinate condizioni, ma pur sempre restando in un ambito strettamente intellettuale, oppure no; in altre parole, se la sua ricerca consista in una tecnica, o in un insieme di tecniche, applicando le quali, e rispettando le quali, la mente non possa che giungere a destinazione, purché sappia cosa sta cerando e possieda non solo la mappa concettuale, ma anche le strutture logico-linguistiche atte ad afferrarla e, poi, ad esprimerla. Partendo da quest’ultimo punto, dobbiamo innanzitutto riconoscere che una cosa è giungere in un luogo, un’altra cosa è vedere quel che in esso si trova, un’altra ancora comprenderlo, e una ulteriore operazione è quella di saperlo descrivere ad altri. Per rispondere alla nostra domanda, dobbiamo quindi considerare questo quattro punti, uno per uno.
A) GIUNGERE ALLA VERITÀ.
Tutti possono giungere alla verità? Teoricamente, sì. Non vi sono ostacoli insuperabili di tipo gnoseologico. In pratica, no, assolutamente no: solo pochissimi possono sperare di riuscirvi. E non perché l’impresa sia, in se stessa, impossibile, ma perché richiede una disposizione d’animo che solo pochissimi possiedono, o hanno saputo sviluppare. Bisogna infatti svuotarsi del proprio io, abbandonare le sue pretese, liberarsi dalla presunzione di sapere già, o anche quella, non meno erronea, di essere degni di sapere. Ci vuole, in altre parole, un profondo e rigenerante bagno di umiltà. Ricordiamo il doppio rito cui si sottopone Dante – per mezzo di Virgilio e su indicazione di Catone Uticense, sulla spiaggia del Purgatorio – di purificazione e di umiltà: il primo consiste nel lavacro del viso, il secondo nel cingersi con la vita con un giunco schietto, simbolo di umiltà e flessibilità. Nessuno giunge alla verità mediante un atto di forza; nessuno vi giunge semplicemente perché ha deciso che deve giungervi; nessuno vi giunge grazie alla sua volontà e ai suoi mezzi personali. La verità è un dono, una grazia che scende dall’alto e che si nega e non si fa trovare, né si fa riconoscere, da chi pretende di averla ad ogni costo. E non basta l’umiltà: è necessario tutto un certo percorso di vita, fatto, appunto, di umiltà e di purificazione. Solo chi si sottopone a tale percorso, liberandosi mano a mano da ciò che è sciocco, superfluo, volgare, egoistico, e si abitua a nutrirsi solo di ciò che è bello, buono, giusto ed essenziale, solo costui si trova nelle condizioni adatte per poter accedere alla rivelazione finale del vero C’è uno stile di vita che predispone alla verità; così come, al contrario, c’è uno stile di vita che rende pressoché impossibile il suo raggiungimento. Ora, specie nelle condizioni di vita che sono proprie della cosiddetta civiltà moderna, la stragrande maggioranza delle persone vive sprofondata in stili di vita che sono quanto di più egoico, grossolano, superficiale e impuro si possa immaginare. È paradossale che certe correnti artistiche e certi movimenti poetici — come il decadentismo, o, più recentemente, il movimento beat con tutte le sue varianti più o meno fantasiose, come il Beat-Zen- abbiano teorizzato la sregolatezza dei sensi per agevolare la rivelazione del mistero che si trova al di là delle cose: al contrario, questa è la via diametralmente opposta, una via che porta lontanissimo da quella rivelazione. Né la droga, né l’alcol, né la lussuria, permetteranno di avvicinarsi d’un millimetro alla sospirata verità; bensì la purezza di vita, lo sbarazzarsi del superfluo, il purificare i pensieri, le parole e le azioni, il rendersi trasparenti allo sguardo di Dio.
B) SAPERLA VEDERE.
Non basta giungere alla verità, ammesso che si tratti di giungervi e non piuttosto di permetterle di giungere a noi, di svelarsi (anche le metafore hanno la loro importanza): bisogna anche, e soprattutto, saperla vedere. Parrebbe una precisazione superflua, quasi una tautologia, e invece non lo è. La verità appare evidente solo a colui che è pronto per recepirla. A chi non è pronto per essa, il fatto di averla davanti sarà, per lui, come se non ci fosse per niente: sarà come un discorso che viene fatto in una lingua del tutto straniera e quindi incomprensibile: quel discorso potrà anche essere veritiero e sommamente interessante, ma è come se nessuno lo pronunciasse, qualora manchi l’orecchio capace d’intenderne il significato. Così è anche per la verità. Se l’occhio non è pronto e disposto a vederla, non la vedrà; e non la udrà neppure se qualcuno la gridasse dai tetti. Infatti, è impossibile mostrare qualcosa a qualcuno, se costui è fermamente deciso a non vedere e a non capire, o se è sprovvisto degli strumenti a ciò necessari. Non tutti quelli che dicono di cercare la verità, la cercano realmente; e solo pochi di quelli che la cercano, la cercano nel modo giusto. È noto l’aneddoto del Buddha che, a due visitatori venuti per interrogarlo circa il problema di Dio, aveva dato due risposte diametralmente opposte: all’uno aveva detto che Dio esiste, all’altro che non esiste; ma poi aveva chiarito al meravigliato discepolo Ananda che nessuno dei due era un vero ricercatore, poiché entrambi avevano già la loro idea bell’e fatta e avevano percorso tanta strada solo per averne la conferma. Come dire che cercare davvero la verità, significa evitare di porre innanzi a sé la risposta. E quanto al cercare nel modo sbagliato, ricordiamo le parole dell’apostolo Giacomo, nella sua lettera (4, 2-3): Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete, perché chiedete male…
C) COMPRENDERLA.
Non basta vedere: bisogna anche comprendere. Si può vedere un manoscritto, ma non saperlo decifrare; si può vedere un paesaggio, ma lasciandosi distrarre da ciò che è del tutto secondario e ignorando ciò che in esso vi è di essenziale; e lo stesso può accadere nei confronti delle persone con le quali entriamo in relazione. Quante volte ci lasciamo incantare dalle cose più superficiali, ad esempio l’abbigliamento, o l’acconciatura; o da ciò che ha la sua importanza, e tuttavia non è la cosa più importante, come l’aspetto fisico, la giovinezza, e simili. C’è gente che si rifiuta di prendere in considerazione quel che dirà una persona solo perché porta l’abito religioso, oppure per il fatto che è in età avanzata: dà per scontato che dalla sua bocca non uscirà nulla che valga la pena di essere ascoltato. Molte persone erudite ritengono di non aver nulla da imparare da un operaio o da una vecchietta; e molti giovani disprezzano in anticipo quel che diranno i loro genitori. Il comunista rifiuta di ascoltare il fascista, e viceversa; e non parliamo delle fedi religiose. Si può anche ascoltare una musica senza comprenderla affatto; guardare un quadro, e non capirlo; proprio come si può assistere a una dimostrazione matematica, ma, essendo sprovvisti delle conoscenze di base, non capirci nulla. Comprendere una cosa non è la stesso che vederla o udirla. Quando si comprende veramente, è come se si spalancasse un terzo occhio, o come se si aprisse il muro della stanza e si spalancasse innanzi l’infinito. Se, poi, parliamo della verità, allora si tratterà di una esperienza sublime, di una vera e propria illuminazione. A colui che fa questa esperienza, pare che ogni cosa si accenda all’improvviso di uno splendore interno, e come se tutte le cose rivelassero il loro intimo, essenziale legame reciproco; mentre a ciò si accompagna una sensazione di profonda pace, gioia e appagamento. È come quel che si rivela a Dante nel XXXIII canto del Paradiso, là dove scrive (85-93): Nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, /ciò che per l’universo si squaderna:/ sustanze e accidenti e lor costume / quasi conflati insieme, per tal modo / che ciò ch’i’ dico è un semplice lume. / La forma universal di questo nodo / credo ch’i’ vidi, perché più di largo, / dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.
D) SAPERLA DESCRIVERE.
Quest’ultima difficoltà è anche la più ardua. Contrariamente a quel che si crede, è più difficile condividere con gli altri la rivelazione del vero, che non farne la personale esperienza. Anche Dante dedica ampio spazio a questa difficoltà: dice che alla difficoltà di ricordare la meravigliosa visione di Dio, che è la verità suprema, si accompagna la difficoltà di riuscire a darne un’idea, per quanto imprecisa e approssimativa; una difficoltà quasi insuperabile. Non esiste un linguaggio che sia adeguato a dire ciò che è quasi indicibile, perché la verità è sublime e abbagliante; e non è probabile che chi ascolta riesca a comprendere: come potrebbe capire la descrizione dei colori, colui che è cieco fin dalla nascita? E come rendere la sublime armonia di un concerto musicale, a beneficio di colui che è sordo da sempre? In genere, riesce a comprendere qualcosa di una tale comunicazione colui che già, per conto proprio, si era avvicinato alla medesima meta, cioè alla verità; ma colui che non ha mai intrapreso seriamente la ricerca e che, per giunta, non si è mai posto nel giusto atteggiamento mentale e spirituale, non ha mai invocato il soccorso della grazia, non ha mai cercato di purificare i propri pensieri e la propria vita, come potrebbe capire? Anche se la verità gli venisse descritta perfettamente da chi ne ha fatto l’esperienza, lui non capirebbe nulla; anzi è probabile che si limiterebbe ad alzare le spalle, annoiato se non infastidito, con un sorriso di compatimento sulle labbra. Penserebbe che l’altro si è lasciato suggestionare, che si tratta di "misticismo", il che per il ricercatore volgare è una caratteristica fortemente negativa. Di solito, chi non è pronto per la verità non è in grado neppure di sentirla dalla bocca di un altro. Quanto a colui che l’ha vista e l’ha compresa, sa anche quanto sia difficile comunicarla: sa che i porci vogliono le ghiande, non le perle; e sa che i porci, a chi vuol dare loro le perle, si rivoltano contro, e cercano di calpestarlo, infuriati, perché non hanno avuto quel che volevano, ma qualcosa di cui non sanno che farsene e che per essi non ha alcun valore.
Ora che abbiamo fatto questa premessa, possiamo riprendere la domanda che ci eravamo posti: se la verità sia alla portata di tutti e se essa dipenda da una tecnica. Sì, è accessibile a tutti, ma solo alle condizioni che abbiamo detto; e no, non è una tecnica, né un insieme di tecniche. Di conseguenza, non esiste una via scientifica alla verità: non si tratta di formulare ipotesi, fare osservazioni o esperimenti, indi tirare le conclusioni in termini di leggi. Non esistono leggi e non c’è osservazione che valga: queste cose non servono a nulla. Ma la cosa più importante che crediamo di poter dire, e che ha sorpreso non poco anche noi stessi, è che la verità è del tutto indipendente dal soggetto che la cerca ma non dal modo in cui essa viene cercata; pertanto, anche se essa ha un carattere oggettivo e universale, non è tuttavia oggettivo, né universale, il modo in cui gli esseri umani la recepiscono. Desideriamo ribadire il concetto: a colui che è sprofondato nel fango, la verità non si rivela, perché la verità è luce, e il fango non lascia trasparire la luce. A colui che è immerso nella menzogna, nell’ipocrisia, nella malvagità, la verità si nega, perché tali cose sono nemiche della verità. A colui che cerca la verità per farne un cattivo uso, la verità si sottrae, perché essa non si lascia strumentalizzare da alcuno. E davanti a chi non cerca sinceramente e disinteressatamente la verità, ma vuole solo trastullarsi con essa, la verità rimarrà muta: come Gesù non disse neanche una parola a Erode Antipa, l’assassino del Battista, che lo interrogava; ed è l’unico caso, di cui ci riferiscano i quattro Vangeli, in cui Egli si regolò in tal modo. Bisogna essere degni della verità: ecco perché la verità è aperta a ciascuno, ma, di fatto, rimane preclusa ai più. Chi non la merita, non la troverà; e non la troverà perché non la vedrà; e se anche la vedesse, non la capirebbe. Tale è la condanna dei superbi, degli impuri, dei viziosi: quella di andare vagando a tentoni, per tutta la vita, senza mai riuscire a vedere nemmeno un raggio di verità. Come dice il padre Dante, per bocca di Virgilio (Purgatorio, III, 40-42): e disïar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato, / ch’etternalmente è dato lor per lutto.
In conclusione, noi abbiamo bisogno della verità: ne abbiamo bisogno come dell’aria da respirare. Tuttavia, se non ci abituiamo a desiderarla, a cercarla, a supplicarla (non già a volerla; meno ancora a pretenderla), se non ci alleniamo a camminare verso di essa, se non impariamo a fare tutto quanto ce la può rendere amica, esercitando un dominio su noi stessi, sulle nostre passioni, sul tumulto dei nostri appetiti animaleschi, ma anche sulla nostra superbia intellettuale, non saremo mai pronti né per raggiungerla, né per vederla, né per capirla, né per trasmetterla. Eppure, la verità non si cerca solamente per se stessi: la si cerca per il bene, disinteressatamente, in quanto è una buona cosa in sé, e dunque la si cerca anche per gli altri. A tutti la si vorrebbe comunicare, quando si è ricevuta la grazia di vederla e di capirla. Ma, per trovare qualcuno che l’accolga, bisogna divenire trasparenti…
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