
Solo uno sguardo trasparente può contemplare il vero
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25 Dicembre 2018La tua creazione è bella, o Wataineuwa; ma perché c’è la morte? Questa domanda fa parte di un mesto canto formulare degli indigeni, ora estinti, della Terra del Fuoco, gli Yàmana: così fu raccolta dagli ultimi etnologi che entrarono in contatto con loro prima che sparissero completamente. È quasi la stessa domanda che ci ha posto un caro amico, persona molto intelligente e intuitiva, anche se sprovvista di una specifica formazione filosofica: perché c’è il male?; e attendeva una risposta. Proveremo a rispondere, anche se già molte volte abbiamo toccato l’argomento; d’altra parte, ci rendiamo conto che è una questione centrale per la maggior parte di noi, ed è l’ostacolo che trattiene sulla via della fede tutti quelli che, come Ivan Karamazov, non sopportano lo spettacolo della sofferenza, specialmente degli innocenti, e preferiscono restituire il biglietto d’ingresso in paradiso, perché ritengono che il prezzo che l’umanità deve pagare per entrarci, fosse anche solo il dolore disperato di un singolo bambino, sia comunque troppo alto. Inoltre, siamo sempre stati convinti che fare filosofia è chiarire le questioni complesse e trovare la verità, là dove pare che nulla abbia un senso compiuto e intelligibile, ma soprattutto saperlo fare non solamente per se stessi, bensì anche per gli altri, per quelli che non hanno studiato la filosofia sui libri: perché se i filosofi sono capaci di parlare e di farsi intendere solo dai filosofi di professione, allora vuol dire che la filosofia è una ben misera cosa, una specie di club per cervelli sterili, del tutto staccati dalla società e quindi sostanzialmente parassitari. Al contrario, poiché la verità è semplice, anche se ardua da raggiungere, siamo certi che a tutti può essere mostrata e che lo si può fare esprimendosi in maniera tale che i non specialisti non ne restino esclusi. Chi ci ha seguiti nel nostro percorso, che si snoda lungo un arco di molti anni, potrebbe restare meravigliato da questa affermazione, poiché abbiamo più volte affermato e ribadito che, alla fine, solo pochi riescono a intendere la verità, perché la maggior parte della gente, anche se dice di cercarla, non ne vuole in realtà sapere. Ebbene, l’apparente contraddizione si spiega col fatto che una cosa è ricevere la verità in maniera tale da poterla comprendere, e un’altra cosa è volerla comprendere davvero: questo secondo atto non richiede solo capacitò intellettuali, ma anche e soprattutto una certa disposizione della volontà. Di fatto, la nostra esperienza, sia attraverso l’insegnamento, sia nel rapporto con gli adulti che frequentano le conferenze o che scrivono i loro commenti e le loro osservazioni in rete, è che moltissime persone, pur riempiendosi la bocca del desiderio di trovare la verità, di fatto non sono suoi amici, perché vorrebbero trovarla alle loro condizioni: non possiedono l’umiltà necessaria a capire che, in tal modo, non si va da nessuna parte. Una sola cosa rende assolutamente impossibile avvicinarsi alla verità (oltre, si capisce, alla stupidità totale; ma anche questa è figlia dell’altra): la superbia, l’arroganza di chi non ha pazienza, non sa farsi piccolo, non sa chiedere, ma pretende e crede di aver diritto a strappare la verità, magari a viva forza, quasi che fosse un trofeo da guadagnarsi con le proprie forze e da esporre in salotto, per ricevere l’ammirazione altrui. Ma se c’è l’umiltà, allora è sempre possibile ricevere la verità: perché la verità è aristocratica non nel senso che disdegna la gente comune, ma nel senso che si nega agli animi volgari, e ad essi soltanto.
Cominciamo col fare chiarezza, sgombrando il campo da possibili fraintendimenti. Il nostro amico parlava dell’Assoluto come coincidente con l’Essere, il che è esatto, e come coincidente con l’esistente, il che non lo è. Se è vero, infatti, che il fatto di esistere è una cosa più perfetta del fatto di non esistere, così come vivere in una casa calda e affettuosa è cosa migliore del fatto di sognarla solamente, è altrettanto vero che il fatto di esistere non coincide con l’essere. L’essere, infatti, è ciò che esiste per se se stesso e da se stesso: ciò che non deve ad altri la propria esistenza; ciò che non è causato da qualcosa che stia al di fuori di sé. L’essere, quindi, è necessario, nel senso tecnico della parola: è ciò che ha in se stesso la propria ragione di esistere. Ma le cose esistenti che ricadono nella nostra sfera sensoriale, non sono di questo tipo: non hanno in se stesse la propria ragione di esistere, ma in qualche cosa d’altro; non sono perciò necessarie, ma accidentali — sempre nel senso tecnico della parola. Accidentali non vuol dire superflue: vuol dire che possono esserci e potrebbero anche non esserci. Le cose accidentali, diciamo gli enti accidentali, sono di natura materiale, quindi hanno un principio e una fine: sono soggette alle leggi del tempo, subiscono l’usura degli anni, o dei secoli, o dei millenni, o dei miliardi di anni, come nel caso dei corpi celesti che si muovono, lungo le loro orbite, nell’immensità dell’universo. Ma l’essere, al di là del mutamento, permane; l’essere non è toccato dal trascorrere dei miliardi di anni, perché l’essere è fuori del tempo, anzi, il tempo esiste perché esiste l’essere, e così lo spazio: ma l’essere, quanto a se stesso, non ha né tempo, né spazio; o, se si preferisce, il che è lo stesso, l’essere è la condizione che rende possibile l’esistenza dello spazio e del tempo. Noi, enti soggetti alle leggi dello spazio e del tempo, siamo portati a identificare l’esistere con l’essere, mentre sono due cose profondamente diverse: quello che esiste oggi, domani non esisterà più, e c’è stato anche un tempo in cui non esisteva: ma perché gli enti finiti possano esistere, deve esserci, a monte, un qualcosa che li fa esistere, che ne rende possibile l’esistenza, perché già esiste, è sempre esistito e sempre esisterà, e che non è soggetto ad alcuna limitazione, ma assoluto ed eterno: ed è ciò che chiamiamo l’essere. È impossibile pensare il mondo, anzi, è impossibile pensare alcunché, ed è perfino impossibile l’atto del pensare, se si prescinde dall’essere. Ecco perché ogni forma di idealismo si risolve in una lucida follia e non meriterebbe neppure il nome di filosofia (Maritain, infatti, parlava di ideosofia, negandogli la qualifica di pensiero filosofico): perché presuppone che prima dell’essere esista un’altra cosa, il pensiero, e che sia il pensiero a far scaturire, chi sa come, l’essere, anziché l’essere che fa esistere ogni altra cosa, anche il pensiero. E se è vero, come dice il Vangelo di Giovanni, che in principio era il Verbo, cioè il Logos, che è sia pensiero che discorso, è altrettanto vero che il Logos, per Giovanni, non è qualcosa che precede l’essere, ma è l’Essere che pensa e, pensando, parla: e dalla sua Parola scaturiscono gli enti e tutto ciò che esiste.
È chiaro che la civiltà moderna, impregnata di materialismo e nata da una rivolta intenzionale contro la metafisica, ci pone nelle condizioni peggiori per apprezzare la differenza fra l’essere e l’esistente. Siamo talmente abituati a pensare le due cose come coincidenti, che riesce difficile e dobbiamo fare uno sforzo per separarle, come in realtà sono. A noi, figli della modernità, sembra ovvio che le cose, dal momento che esistono, sono; invece, proprio il fatto che esistono sul piano materiale testimonia che esse esistono nel tempo: che non esistevano ieri e non esisteranno più, domani. Di conseguenza, le cose che cadono sotto i nostri sensi esistono, ma in maniera limitata, fragile, imperfetta, e, appunto, accidentale: godono di un’esistenza parziale e transitoria, che noi, specialmente da giovani, e soprattutto da bambini, scambiamo per necessaria, e quindi, se non proprio per definitiva e assoluta, per stabile e durevole. Ma non è affatto così: tutto ciò che cade sotto i nostri sensi ha un’esistenza effimera. Un giorno come le farfalle, dieci miliardi di anni come le stelle: che differenza c’è fra un giorno e dieci miliardi di anni, a paragone dell’eternità? È sempre una quantità risibile, insignificante: poco più dello zero assoluto. E noi tendiamo a scambiare questo quasi zero per l’essere, e fantastichiamo su di esso, come se si potesse fondare alcunché su di una base tanto fragile. Gli esseri umani, però, non sono solamente enti materiali: hanno una doppia natura, fisica e spirituale. Con la loro natura spirituale, sentono e intuiscono che c’è qualcosa d’altro, qualche cosa che permane: qualche cosa che non illude, che non delude, che non mente, che non appare senza essere. Questo qualcosa è l’essere: filosoficamente lo si può definire come ciò che ha la propria causa in se stesso; in termini religiosi, è quel Dio che tutti gli uomini, in tutte le civiltà a noi conosciute, hanno sempre adorato, con nomi ed in forme diversi, fino a quando si è affermata la cultura moderna e questa tensione degli enti finiti verso l’essere infinito è stata violentemente e artificialmente recisa. Sicché l’uomo moderno, e lui solo, a quanto sappiamo, nel corso dell’intera storia umana, sente il tormento della sete, ma è convinto che non esista alcun ristoro per spegnerla, perché la sua parte razionale – ma di una razionalità aridamente meccanicista — ha deciso che non esiste alcuna fonte. Egli cerca, pertanto, di convincersi di non aver sete; cerca di distrarsi con altre cose; ma la sete rimane, ed è sempre più tormentosa: e il fatto che non voglia andarsene è la prova più eloquente del fatto che la sorgente esiste, dopotutto.
E ora, finalmente, veniamo alla questione del male. Lasciamo perdere il male fisico: sappiamo che non è questo il grosso problema; è fin troppo chiaro se gli enti fisici non sono perfetti, il male fisico si spiega con tale imperfezione. Il problema, per il nostro amico e per tanti altri, è il male morale: come si possa conciliare il male con la bontà del mondo, e perciò del suo Creatire; o, se si preferisce, come si possa negare che l’Essere abbia in sé tanto il bene che il male. Quest’ultima idea, che in Dio vi siano tanto il bene che il male, è tipicamente gnostica: e oggi lo gnosticismo va forte, tanto che se ne coglie la presenza anche nella teologia e nella pastorale di molte eccellenti personalità della Chiesa cattolica, a cominciare da colui che siede sul soglio pontificio e si fa chiamare papa Francesco. D’altra parte, secondo il desiderio del nostro amico, vogliamo qui prescindere da un discorso specificamente cristiano, e rimanere su di un piano puramente filosofico. E dunque cominciamo col dire che l’essere non è automaticamente anche l’Essere (con la maiuscola): l’essere è ciò che esiste in modo autosufficiente e perciò necessario; inteso in senso personale, lo chiamiamo Essere, cioè il Principio di tutte le cose, quel che i credenti conoscono come Dio. Limitiamoci, quindi, a ragionare dell’essere: va da sé che le conclusioni cui giungeremo valgono anche, per forza di cose, per l’Essere.
Ora, non è possibile dire che l’essere è sia il bene, sia il male, perché l’essere è bene e il bene è l’essere: è buono ciò che esiste; ed è sommamente buono ciò che esiste in senso assoluto, mentre è relativamente buono ciò che esiste un senso relativo. Ma il male non ha la stessa consistenza ontologica: il male è privazione del bene, dunque è privazione dell’essere. Il male non si può definire se non in senso negativo: è una sottrazione, una negazione. In questo senso, il male non è un principio che si contrappone al bene, ma è la carenza, o il difetto, del bene; e quindi non esiste in senso assoluto, ma solo in senso relativo. Il bene assoluto esiste, ed è l’Essere; ma il male assoluto non esiste, perché nulla, neppure il Diavolo, esiste in senso assoluto, di tutto ciò che ha cominciato ad esistere, ma non esiste sub specie aeternitatis. C’è stato un tempo in cui il Diavolo non esisteva, e non esisteva neppure il male; ma non c’è stato un tempo in cui l’essere non esisteva, anche se c’è stato un tempo in cui nulla esisteva sul piano materiale. La creazione è l’atto con cui hanno cominciato a esistere gli enti sul piano materiale; ma essi già esistevano, sul piano spirituale, nella mente di Dio: pur non essendo necessari, essi erano inscritti da sempre nel progetto dell’essere, perché l’essere, che è il bene, è anche espansione, diffusione, apertura, dono, partecipazione, mentre il male è sempre un restringimento, una contrazione, una sottrazione, una diminuzione e una chiusura. Perché l’omicidio è male?, perché è togliere una vita. Perché il furto è male?, perché è togliere qualcosa al suo legittimo proprietario. Perché l’invidia è male?, perché è desiderare di togliere qualcosa a qualcuno, o desiderare che qualcuno perda qualcosa. La vecchiaia, la sofferenza e la morte sono dei mali? Sì, se guardiamo le cose solo dal punto di vista del finito; no, se le consideriamo alla luce dell’eterno, vale a dire dell’essere. Per l’essere, l’unico male è la sottrazione volontaria ed egoistica di essere: non è un male, ad esempio, dare la vita per un amico; e non è male prendere su di sé la sua sofferenza. E qui si trova la chiave per sciogliere, almeno in parte, il mistero del male. Per noi la sofferenza è un male, perché non ne vediamo il senso. Ma non lo vediamo perché pensiamo da uomini moderni, cioè da uomini materiali, da uomini carnali; ci scordiamo della nostra doppia cittadinanza. Ci scordiamo di essere anche creature con una natura spirituale e un destino soprannaturale. Per questo la vecchiaia, la malattia e la morte ci fanno tanta paura; e per questo non ne facevano così tanta agli uomini medievali, né ai santi; e ne facevano un po’ meno anche ai nostri nonni. Una signora di novantun anni, che ha visto molte cose, ha aiutato molto il prossimo e non ha mai invidiato né augurato il male ad alcuno, ci ha confidato, l’altro giorno: La vita è un passaggio. Proprio così: è un transito. Se ci si scorda di ciò, essa diventa incomprensibile e inesplicabile, una specie di orrenda beffa che qualcuno ci ha voluto giocare.
In conclusione: l’essere è perfetto, perciò non contiene alcun male ma solo il bene. Il male esiste, ma non è sostanziale, non è essenziale: esiste perché esiste il grande mistero e il dono ineffabile della libertà. Essere liberi significa avere la possibilità di usare male di se stessi. Tuttavia la libertà non è male, è bene, perché senza di essa non saremmo che dei fantocci. Ma noi non siamo fantocci, siamo qualcosa, qualcosa di grande e di bello: purché non recidiamo il nostro legame con l’essere…
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