
Veniamo al sodo
5 Novembre 2018
Stampa: il vizio d’origine c’è, e si vede
6 Novembre 2018Nel 1954 la Nuova Zelanda fu scossa da un omicidio particolarmente raccapricciante: una signora, di nome Honora Rieper, venne assassinata da due ragazzine sedicenni, la sua stessa figlia Pauline Parker e l’amica di questa, Julet Marion Hulme. Il movente dell’omicidio era la volontà della donna di separare le due ragazze, che avevano stretto un’amicizia morbosa e inquietante, forse a sfondo omosessuale, e in particolare impedire che partissero insieme per l’Inghilterra, dove Juliet stava per trasferirsi col padre, un medico e professore universitario, dopo la separazione dei suoi genitori. In considerazione della giovanissima età delle due assassine, la corte fu molto clemente con loro :le condannò a poco più di cinque anni di prigione e ordinò che non si rivedessero mai più. Non si rividero più, infatti; scontata la pena, Juliet si trasferì negli Stati Uniti, poi in Gran Bretagna, e alla fine prese dimora in un paese della Scozia, insieme alla madre. Cambiò nome, assunse il nome d’arte di Anne Perry e con esso firmò una serie impressionante di romanzi gialli — un centinaio in tutto, compresi alcuni per ragazzi – che raggiunsero un vastissimo pubblico, ignaro della vera identità e della storia personale della loro autrice. Nei Paesi anglosassoni Anne Perry è considerata una dei migliori giallisti viventi e, forse, uno dei migliori di ogni tempo. Due personaggi da lei creati, Thomas Pitt e Wiliam Monk, con le rispettive saghe, sono conosciuti da milioni di lettori e hanno raggiunto una notorietà paragonabile a quella dei più famosi investigatori della letteratura poliziesca. Naturalmente, a un certo punto la vera identità dell’Autrice è trapelata e il pubblico ne è rimasto scioccato, però i suoi libri continuano a esser venduti bene e sono tradotti in molte lingue. Non solo: la stessa storia dell’omicidio delle due ragazze è diventata una specie di best-seller e ha ispirato ben due film: uno, francese, del 1971 e un altro neozelandese, del 1994, abbastanza famoso: Creature del cielo, del regista Peter Jackson.
Viene quasi il sospetto che la drammatica vicenda adolescenziale di cui Anne Perry è stata protagonista, assieme alla sua amica Pauline (che non ha più visto anche se ora vivono entrambe in Gran Bretagna) abbia giovato al suo successo di scrittrice, più che metterlo in pericolo. Così come viene il sospetto che l’aver scritto circa cento romanzi, tutti rigorosamente polizieschi, tutti a base di omicidi e di indagini nel mondo del crimine, abbia a che fare con i meccanismi psicologici di una donna che a sedici anni ha commesso un omicidio e poi ha passato la sua vita a cercar di rimuovere quell’avvenimento. Notiamo di sfuggita che anche il ricercato Cesare Battisti, coinvolto, secondo la magistratura italiana, in ben quattro omicidi – di tipo terroristico e non passionali come quello commesso dalle due ragazze – si è dedicato a una carriera di scrittore di romanzi polizieschi, al tempo del suo esilio dorato in Francia, quando era l’idolo della buona società e la stessa moglie del presidente Sarkozy, l’italiana Carla Bruni, ne prendeva pubblicamente le difese. La ricercatrice Dina Lentini ha fatto uno studio sulla vicenda criminale di Anne Perry (consultabile sul sito www.lanaturadellecose.it/), Il caso Anne Perry: l’omicidio nella storia personale e nella finzione letteraria) e riporta che nel 2002, intervistata dal giallista Ian Rankin, la donna elegante e sofisticata che ora porta un nome di diverso dalla ragazzina che si rese responsabile di un atroce delitto, ha risposto con molta calma anche alle domande più scabrose e insistenti, e alla fine ha concluso: Credo di aver pagato. Credo di essere stata dimenticata… E ora non esiste per me. Posso andare avanti ed essere una persona migliore. Inoltre, sia in quella intervista, sia in altre occasioni e nelle sue stesse opere, la Perry esprime sovente l’idea che i criminali meritano pietà e comprensione perché hanno agito spinti da forze che non potevano controllare, e anche perché le conseguenze dei loro atti non possono essere tolte, resta quindi il fatto che devono continuare a vivere e che, per farlo, devono essere accettate e perdonate. Naturalmente le vittime meritano pietà, ma anche gli autori dei crimini ne meritano, perché per le une il discorso è chiuso, per gli altri c’è ancora una vita da vivere. Il che somiglia molto a una tesi auto-giustificatoria che minimizza o banalizza la gravità della colpa.
Da queste parole e da questi concetti vorremmo partire per una breve riflessione sul tema di quel particolare genere di perdono che è l’auto-perdono. La domanda è la seguente: è giusto rielaborare il proprio vissuto in maniera tale da auto-perdonarsi, nel caso si sia responsabili di un’azione molto grave, e da rimuoverne il ricordo, come se non fosse mai avvenuto? Si può dire: ho pagato il mio debito con gli uomini, ora volto pagina, cambio nome e non ci voglio pensare più? È giusto dire: quella persona, che ha commesso quella tale azione, non c’è più; io non ha nulla a che fare con essa; se avete qualcosa da domandarle circa quei fatti, chiedetelo a lei, ma non rivolgetevi a me, perché io non ne so niente? Ammesso, beninteso, che ciò sia realmente possibile. Non è causale, forse, il fatto che nei romanzi polizieschi di Anne Perry ritorni con insistenza il tema dell’amnesia: l’ispettore Monk, per esempio, ha perso la memoria a causa di un incidente, ma tiene celato agli altri questo fatto, e specialmente ai suoi superiori; ed è in quelle condizioni che deve cercar di dipanare la matassa dei casi di omicidio che gli vengono affidati. Questa perdita di memoria riflette un desiderio, un bisogno dell’Autrice, che dice di non essere più quella di un tempo, di esser cambiata, di essere un’altra, però, di fatto, non riesce a dimenticare, per quanto cerchi di trasferire sulla carta i suoi sentimenti contradditori, come se sperasse di poter alleggerire la propria tensione interiore? Ad ogni modo, che ci riesca o no, ella dice di aver pagato il suo conto e di voler girare pagina completamente; dice che la ragazza che spezzò una vita umana è una persona diversa da lei, e che lei non vuol più ricordare. Allo stesso tempo, pretende di essere diventata una persona migliore: ma migliore rispetto a cosa, se la ragazza assassina non ha più niente a che vedere con lei, se lei è una persona "nuova"?
Incominciamo da una precisazione linguistica. Pare che persone di questo tipo pretendano che sia giusto dimenticare il male da loro commesso: dicono di voler dimenticare e non di voler dimenticarsi di averlo fatto. Evidentemente, almeno a livello subconscio, si rendono conto che nessuno può dimenticare di aver ammazzato qualcun altro; al massimo, può sforzarsi di dimenticarlo, cioè di non pensarci. Ma non può impedire al ricordo di affiorare in qualsiasi momento, perché la forza di volontà non esercita alcuna signoria sui ricordi involontari, che sono tanto più prepotenti quanto più sono ricordi di eventi drammatici. Ai traumi non si comanda, e nemmeno alle loro conseguenze: specialmente se sono dovuti a qualcosa di sbagliato e di malvagio che noi sessi abbiamo fatto. Seconda osservazione: perdonare e dimenticare sono due cose diverse. Si può perdonare, agli altri o anche a se stessi; ma dimenticare non lo si può volere, è un fatto spontaneo. Immaginiamo che qualcuno uccida la persona a noi più cara: possiamo immaginare di perdonarle l’assassino, e sia pure con un enorme sforzo della volontà (e, per chi è credente, con l’aiuto soprannaturale della grazia); ma possiamo anche decidere di non pensarci più? No, questo non possiamo deciderlo, perché non dipende dalla nostra volontà, né dalla nostra parte cosciente: dipende da qualcosa su cui non abbiamo la piena signoria; una parte di noi che non ci appartiene del tutto. Sarebbe come se pretendessimo di garantire il pagamento di un debito non solo da parte nostra, ma anche da parte di un nostro amico, il quale, però, non ne sa nulla, e forse non sarà affatto d’accordo. Come impedirci di ripensare alla persona scomparsa, che abbiamo tanto amato? E, pensandoci, come impedirci di ricordare anche le circostanze della sua morte? Terza osservazione: viviamo in un momento culturale in cui la società sembra d’accordo sul fatto che tutti hanno diritto a una seconda e anche a una terza occasione di rimediare ai loro errori; e che non c’è peggior torto che una persona possa fare a se stessa, di quella di non perdonarsi. La società dei nostri giorni detesta i sensi di colpa e proclama il diritto di ciascuno di vivere a pieno la propria vita, indipendentemente dai suoi contenuti morali; proclama che bisogna assecondare gli istinti, soddisfare gli impulsi, nella maggiore misura possibile. In altre parole, oggi pare che il vero delitto non sia quello di commettere azioni malvagie, ma quello di reprimersi; un delitto contro se stessi. Scetticismo, relativismo etico, edonismo, narcisismo, ultra-individualismo e una bella dose di psicanalisi mal digerita, hanno prodotto questo risultato: che molte persone guardano con maggiore riprovazione il fatto di rinunciare a soddisfare un desiderio, anche immorale, che non il contrario. Noi tutti siamo figli della mentalità moderna: per Dante, Paolo e Francesca sono colpevoli e subiscono un giusto castigo all’Inferno – anche se meritevoli di compassione — perché hanno assecondato una passione illecita; per Boccaccio (vedi la novella di Nastagio degli Onesti) la vera colpa di cui ci si può macchiare in vita non è mai quella di amare, bensì quella di resistere al richiamo dell’amore, e sia pure un amore disordinato, per esempio adultero. Pertanto siamo i nipotini dell’umanista Boccaccio, non del cristiano Dante. In questa cornice culturale e psicologica, è senza dubbio più facile concedersi il perdono e anche l’oblio, di quanto non lo fosse nella società cristiana di un tempo, fondata sul quotidiano esame di coscienza. Anzi, si può sospettare che perdonarsi sia divenuto perfino troppo facile. Personaggi del mondo dello spettacolo e anche persone comuni vanno ogni giorno alla televisione a esibire i loro fatti privati, a lavare i panni sporchi in pubblico, a mostrarsi nella loro intimità più frivola e più stupida, con una vanità, con un narcisismo sconcertanti: si gloriano, direbbe san Paolo, ciò di cui dovrebbero vergognarsi. Persone anormali si pavoneggiano davanti alle telecamere, convinte che sia perfettamente logico che milioni di telespettatori seguano le loro smorfie, i loro sbadigli, i loro squallidi battibecchi, perfino le operazioni della loro pulizia personale: lavarsi i denti, pettinarsi, ecc. La coscienza della colpa sembra essere scomparsa dall’orizzonte morale e psicologico degli uomini d’oggi, insieme al pudore e alla discrezione. Uno che si affliggesse a lungo per aver commesso una cattiva azione, verrebbe compatito, forse schernito, e schiere di psicologi verrebbero a spiegargli che si deve perdonare, che si deve voler bene, che deve incominciare un capitolo nuovo della sua vita. Senza pentimento, senza contrizione, senza espiazione.
Quel che colpisce, nei discorsi di Anne Perry, è l’assenza di pentimento e soprattutto la mancanza di consapevolezza del male che ha fatto, non solo alla persona a cui ha tolto la vita, ma anche ad altre persone, che soffriranno per tutta la vita a causa del suo atto. Si confronti questo atteggiamento con la vicenda di Carino Pietro da Balsamo, l’assassino di San Pietro Martire, detto San Pietro da Verona, nel XIII secolo. Dopo aver commesso l’omicidio, Carino ebbe una sincera e profonda conversione, divenne converso domenicano, e trascorse quarant’anni della sua vita, fino alla morte, in umiltà, penitenza e preghiera, tanto che la Chiesa lo ha proclamato Beato. Quarant’anni di penitenza e preghiera, da una parte; cinque anni di casa di correzione per minorenni e poi un secco: ho pagato il mio debito, e una vita elegante, fra salotti e case editrici, dall’altra. Dov’è il pentimento di Anne Perry? A quel che si può giudicare dall’esterno, da nessuna parte. A dispetto dei nostri banali cliché sul "buio" Medioevo, forgiati da mâitres-à-penser come Umberto Eco, forse l’età buia è la nostra, che ha obliato il valore redentivo del pentimento e della metanoia, della conversione. La conversione di Carino da Balsamo era sotto gli occhi di tutti ed era di edificazione a tutti: dov’è la conversione di Anne Perry, che continua a giustificarsi e a chiedere la comprensione della società? Oppure si prenda Delitto e castigo di Dostoevskij: anche lì assistiamo a una storia di peccato e redenzione. La redenzione di Raskolnikov, che ha ucciso due donne, c’è, e la si vede: passa attraverso la confessione della colpa e la volontà di espiazione. Ma l’uomo contemporaneo, ebbro di orgoglio e incapace di inginocchiarsi davanti a Dio, si è auto-convinto che si può superare il passato senza fare veramente i conti con esso; che si può voltar pagina, anche dopo i peggiori delitti, come se nulla fosse; che si può dimenticare il male commesso. Anche ammettendo che ciò sia possibile, resta un problema irrisolvibile: la colpa rimane, ed è una piaga dell’anima che, non medicata, s’infetta e va in cancrena. Quante anime in cancrena, putrefatte, moribonde, se ne vanno a spasso per il mondo, appese a dei corpi forse ancora giovani e belli, curati e palestrati, vestiti con abiti costosi e atteggiandosi in maniera sensuale? Il fatto è che l’uomo non può perdonarsi da solo: per perdonarsi, deve essere perdonato; e per essere perdonato, deve chiedere perdono. L’uomo che ha fatto il male non può chiedere perdono a se stesso. Può chiedere perdono alla sua vittima, o ai parenti e agli amici della sua vittima; ma non è detto che lo riceva. No: c’è bisogno d’un terzo. E chi potrà perdonarlo, anche per i peggiori delitti, se non Colui che è l’Amore, e che conosce la sincerità del pentimento, perché conosce ogni cosa? Ecco, allora, che l’uomo moderno, privandosi di Dio, e credendo con ciò di aver conquistato la libertà, si è inflitto il castigo peggiore: l’impossibilità di ricevere perdono. E che altro è una vita senza alcuna speranza di ricevere perdono, se non l’inferno?
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Tingey Injury Law Firm su Unsplash