Due opposte filosofie per ristabilire la salute
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25 Agosto 2019Il 18 settembre 2017, a Finale Emilia, due marocchini diciannovenni suonarono alla porta di una signora di settantanove anni, Mirella Ansaloni, che conosceva uno dei due come vicino di casa, con la scusa di domandarle un bicchier d’acqua; poi, mentre uno faceva da palo, l’altro metteva in opera il piano di rapinarla; davanti alla resistenza della donna, la colpiva violentemente a bottigliate sulla testa e l’uccideva. Consumato l’omicidio, i due si sono allontanati dopo aver rubato una catenina d’orto, poi rivenduta a un Compro Oro per 400 euro, e contanti per soli 30 euro. I due sono figli di operai immigrati e incensurati residenti da anni in quel paese emiliano. Al processo, l’accusa aveva chiesto pene oltremodo miti, 12 anni all’assassino e 8 anni al "palo", con la motivazione di volerne favorire il reinserimento sociale. Il tribunale di Modena, più severo del pubblico ministero — caso quanto mai raro -, lo scorso aprile ha erogati rispettivamente 16 anni e 6 mesi all’uno, e 12 anni e 8 mesi all’altro. Sempre pochi, tuttavia, a nostro credere: troppo, troppo pochi. Anche se non siamo esperti di diritto penale, ci sembra che nel delitto della povera signora di quasi ottant’anni ci siano tutte, ma proprio tute, le aggravanti possibili: la premeditazione, evidenziata dalla divisione dei ruoli fra i due complici e dalle modalità della loro azione; la viltà del delitto, perpetrato ai danni di una donna anziana e sola, che conosceva il suo assassino e che gli ha aperto la porta per puro buon cuore; la crudeltà, per il modo in cui l’anziana è stata massacrata e lasciata a terra in una pozza di sangue (il suo corpo è stato ritrovato solo molto tempo dopo e, all’inizio, si era ipotizzata una caduta accidentale); la futilità, vista l’estrema esiguità della refurtiva che ha motivato la soppressione di una vita umana; e perfino la calunnia, perché l’assassino ha cercato di scaricare la responsabilità dell’omicidio sul complice. A quanto pare, né la minorata difesa dell’anziana, che viveva tutta sola, né la premeditazione, né l’assoluta mancanza di pentimento dei colpevoli, hanno indotto il pubblico ministero, Claudia Ferretti, a lasciar cadere le attenuanti generiche: la giovane età e il fatto che i due non avessero precedenti penali. Per l’omicidio volontario, si parte da una pena di ventuno anni, che viene ridotta di un terzo, come in questo caso, con il rito abbreviato; ma al magistrato ciò non è sembrato ancora abbastanza, bisognava evitare che ai due assassini venisse preclusa la possibilità del reinserimento sociale con una pena detentiva troppo lunga. L’eventuale buona condotta e la possibilità di chiedere, dopo aver scontato metà della pena, l’uscita dal carcere nelle ore diurne, fanno sì che individui come i due marocchini che hanno ucciso spietatamente e a sangue freddo la signora Ansaloni se ne vadano in giro per la strada solo pochi anni dopo aver commesso crimini di tale gravità. Dopo aver udito le richieste del pubblico ministero, il figlio della vittima, che all’epoca dei fatti si trovava all’estero per motivi di lavoro, ha commentato amaramente: Mi vergogno di essere italiano. È una riflessione alla quale ci associamo: anche noi, in circostanze di questo genere, ci vergogniamo di essere italiani e ci sentiamo figli, anzi figliastri, di un’Italia matrigna che non ci vuole bene, che non ci rispetta né ci tutela.
In questo caso, come in tantissimi altri del medesimo genere, quel che la gente non capisce e che non capirà mai, è l’eccesso di buonismo, di garantismo, di umanitarismo, nei confronti di soggetti che si possono qualificare in una maniera soltanto: giovani mostri. Persone così non dovrebbero esistere; se esistono, dovrebbero essere segregate dalla società per tutta la vita. La loro pericolosità sociale è altissima: rimandarle libere dopo qualche anno di carcere equivale a mettere a rischio la sicurezza e la vita di altre persone innocenti ed inermi, come la povera signora Ansaloni. Una vera e propria distorsione del senso morale fa sì che nella cultura giuridica italiana, da troppo tempo, i diritti, le garanzie, le chance di recupero e di riscatto accordate ai criminali sorpassino di gran lunga la giustizia dovuta alle vittime e ai loro parenti, e la protezione dovuta all’intero corpo sociale. Condannare a pene relativamente miti individui come gli assassini di Finale Emilia significa sia offendere la memoria delle vittime, sia infliggere una nuova ferita ai loro congiunti, sia esporre a gravissimi rischi l’intera comunità dei cittadini onesti, pacifici e inermi, facili prede di questi sciacalli e di questo avvoltoi. In breve, significa sia calpestare il senso della giustizia degli italiani, sia rimettere in circolazione delle mine vaganti, delle mele marce che infetteranno tutto il cesto. E tutto questo per un pregiudizio di matrice ideologica pseudo proletaria e antiborghese. È dai tempi di don Milani che ci sentiamo ripetere che gli studenti bocciati a scuola hanno la sola colpa di essere figli di umili lavoratori, ed è dai tempi di Franco Basaglia che ci sentiamo dire che la malattia mentale è solo un prodotto della società ingiusta, egoista e sfruttatrice. Tutto questo pattume ideologico viene da Rousseau e da Marx: l’uomo è buono, la società cattiva; il povero ha sempre ragione contro il ricco. Solo che la signora Ansaloni era una modesta pensionata e forse i suoi assassini, figli di gente con un lavoro, se la passavano meglio di lei: dal che si vede come l’ideologia buonista, già pessima e sballata in se stessa, se viene recepita da gente dalla testa limitata e incapace di calare la teoria nella realtà concreta della vita, diventa addirittura micidiale. Non c’è nulla di più deleterio della persona poco intelligente che, occupando un ruolo istituzionale, ha voglia di sentirsi buona e comprensiva ed è smaniosa di giocare il gioco del perdono facile, a spese degli altri e a rischio della comunità. Poveri ragazzi: così giovani, così sbandati! Ma sì: diamo loro un’altra possibilità; non teniamoli troppo in carcere, potrebbero incattivirsi e perdere la fiducia nel proprio riscatto. No, molto meglio rimetterli in libertà nel tempo più breve possibile, in modo che possano tornare a occupare un ruolo utile nella società. Oppure in modo che possano spaccare la testa a un’altra donna anziana e indifesa, per rubarle quattro spiccioli Fare i generosi con la pelle degli altri e calpestando il senso della giustizia che appartiene a tutti: che meraviglia; è il massimo dell’auto-gratificazione morale, con il minimo del rischio per se stessi, anche se con il massimo del rischio per gli altri. Ma questo è un dettaglio che non turba i sonni dei buonisti nostrani e giammai li indurrà a un ripensamento, a una riflessione autocritica.
Come si è arrivati a questa situazione? Come è stato possibile che, nel corso degli anni e dei decenni, si facesse strada un simile capovolgimento del senso della legge e del senso morale? Per quali meccanismi, con quali tortuosità psicologiche e sociologiche si è giunti a considerare prioritari i diritti dei criminali rispetto alla tutela del corpo sociale? Le cronache ci dicono che molto spesso i criminali usciti anzitempo dal carcere tornano a delinquere; le forze dell’ordine fermano e arrestano continuamente persone che hanno già dei conti aperti con la giustizia, anche per reati gravi, e che hanno assurdamente usufruito della comprensione di certi magistrati, o sfruttato i colpevoli vuoti giuridici che consentono a individui altamente pericolosi, specialmente clandestini, di evitare l’arresto e di evitare l’espulsione, e di eclissarsi a loro piacere anche dopo essere stati identificati e aver ricevuto il provvedimento di espulsione. Ci sono gruppi sociali che sfruttano abilmente ogni scappatoia legale del troppo generoso sistema penale italiano, ad esempio i rom che addestrano al furto e alla rapina bambini e bambine, oppure le donne che simulano la gravidanza, per sottrarsi all’arresto e reiterare all’infinito i loro crimini. Nelle periferie delle città, gradi e piccole, le forze dell’ordine e i vigili urbani non si avvicinano neppure alle prostitute più giovani: in quanto minorenni, se le arrestassero scatterebbe l’onere della loro presa in carico a spese del comune, che, in teoria, dovrebbe trovar loro una sistemazione in qualche casa famiglia o in qualche centro di accoglienza per minorenni problematici: una spesa che i comuni, già sull’orlo del fallimento, non possono certo assumersi a cuor leggero. E così il giro della prostituzione prosegue indisturbato, e i criminali sfruttatori possono dormire sonni beati. Non stiamo rimettendo in discussione il criterio di offrire una possibilità di reinserimento sociale per chi ha violato la legge e scontato la sua pena; stiamo affermando che tale possibilità non va offerta a tutti, indistintamente, ma che va sempre valutata con ponderazione, tenendo conto dei pro e dei contro. Ci sono reati che non pregiudicano la possibilità di un onesto reinserimento, come il furto dettato da un reale stato di necessità; e ce ne sono altri, come l’omicidio premeditato a scopo di rapina, e aggravato da ulteriori circostanze, che devono farlo escludere. Come si fa con le mele marce. Se il marcio ha aggredito solo una parte della mela, si può asportarlo e rimettere il frutto, così mondato, nel cesto; ma se si è diffuso oltre un ceto limite, intaccando quasi tutta la polpa, allora bisogna gettarla via, senza esitazioni, se non altro per non compromettere le altre mele. Don Luigi Ciotti, tipico prete politicizzato (a sinistra) nonché tipico esponete della cultura buonista uscita dalla stessa matrice che ha prodotto don Milani, ha intitolato provocatoriamente uno dei suoi libri autocelebrativi: Chi ha paura delle mele marce? Noi, rispondiamo: noi tutti dovremmo aver paura di esse; o meglio, non paura (ecco l’arma sottile del ricatto, giocando sul significato delle parole), ma una giusta valutazione del grave e sicuro pericolo che esse rappresentano per tutte le altre mele. Chi non vuol gettare una mela marcia, quand’essa è irrecuperabile, espone tutte le altre a farle marcire. È giusto? Ne valeva la pena? In nome di che cosa, di quale principio, di quale valore o istanza d’ordine superiore?
Qui siamo in presenza di una tremenda confusone d’idee e di piani. L’idea cristiana del perdono giace su un piano di realtà diverso dall’idea della giustizia intesa come realtà umana e sociale, anzi come fondamento e possibilità della vita sociale. Sono due cose distinte, due piani differenti. Gesù raccomanda a san Pietro di perdonare fino a settanta volte sette chi ha peccato contro di lui, cioè di perdonarlo sempre: e questo è il fondamento della vita cristiana. Il giudice non deve perdonare, deve rendere giustizia alle vittime e ai loro congiunti e, nello stesso tempo, deve eliminare i pericoli che incombono sulla comunità dei cittadini. Il perdono delle offese è un atto intimo, e sublime, della coscienza; la giustizia dei tribunali è un fatto etico e sociale. Non vi è contraddizione fra le due cose, proprio perché non interferiscono minimamente l’una con l’altra. Il giudice, se è cristiano, può perdonare in cuor suo l’assassino di sua madre; ma come giudice ha dei doveri verso gli altri, perciò non deve perdonare, ma condannare severamente. Ha dei doveri anche verso l’assassino medesimo. L’assassino condannato a una pena troppo lieve, il delinquente rimesso in libertà con qualche cavillo o scappatoia giuridica, non ricevono un buon servizio da quel giudice eccessivamente pietoso. L’assassino e il delinquente devono prendere coscienza della gravità dei loro atti: altrimenti è difficile, per non dire impossibile, che si pentano. E se non c’è pentimento, di quale mai reinserimento stiamo parlando? Come può reinserirsi nella società un assassino che non sia giunto a odiare quello che ha fatto? E se giunge a odiare quello che ha fatto, come è possibile che lui stesso non chieda di scontare, sino in fondo, una pena commisurata alla gravitò del suo delitto? Se cerca di uscire prima, se cerca di scaricare le sue colpe su altri, se finge pentimento al solo scopo di impietosire i giudici, vuol dire che non ha compreso la gravità del suo atto. E quindi egli è ancora specialmente pericoloso: può fare di nuovo quel che ha già fatto una volta. La mela marcia deve prender coscienza di essere tale: solo allora accetterà la necessaria amputazione, ossia gli anni da passare in carcere per espiare il suo delitto. Nel caso di un delitto gravissimo, come l’omicidio volontario aggravato, non ci sono anni che possano rendere giustizia alla vittima, alla società e allo stesso assassino: deve restare in carcere per sempre. E anche se il signor Bergoglio, alzandosi un mattino, ha cambiato sua sponte il Catechismo della Chiesa cattolica e affermato che la pena di morte è sempre illegittima, noi crediamo che la Chiesa, nella sua saggezza due volte millenaria, avesse ragione affermando che la pena di morte, in certi casi particolarmente gravi, è, al contrario, pienamente legittima, così come è legittima la guerra di difesa di una nazione ingiustamente aggredita. Che la confusione fra il perdono cristiano e la giustizia umana sia partita proprio da uomini di Chiesa, come il citato don Ciotti, è una cosa particolarmente grave. Difficile pensare che questi signori, dopo aver studiato (almeno così dovrebbe essere) la teologia morale per diversi anni, non siano giunti a capire la differenza fra le due cose. È più probabile che la comprendano benissimo, e perciò che stiamo giocando ad un gioco molto sporco.
Quel che distingue gli esseri umani dalle bestie è la pietà. I buonisti non nostrano alcuna pietà per le vittime e la riservano unicamente ai carnefici. Questo è inaccettabile ed è un vero capovolgimento del giusto ordine delle cose. Una giustizia troppo comprensiva verso i delinquenti e poco sensibile verso chi soffre a causa loro, corre verso l’autodistruzione. Il giudice, come il chirurgo, non deve essere troppo pietoso, perché la troppa pietà uccide il paziente. E siccome la pietà non è mai troppa, come non è mai troppo l’amore e non è mai troppo il perdono, allora bisogna riconoscere che qui abbiamo a che fare non già con la troppa pietà, ma con una forma sbagliata e distorta di pietà. Una pietà distorta produce frutti velenosi, dagli effetti esiziali. Abbiamo indicato la radice di tale distorsione in una ben precisa ideologia: è lì la sorgente impura di tante perversioni morali, politiche e sociali della nostra società. Fino a quando abbiamo intenzione di tollerare un simile stato di cose?
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