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Si deve accordare rifugio ai rei di crimini comuni?

Il quotidiano Il Gazzettino di Venezia, il 24 ottobre 2019, ha riferito il caso di un cittadino del Mali, richiedente asilo in Italia per ragioni umanitarie, in quanto se fosse rispedito al suo Paese subirebbe una punizione molto dura per i crimini che ha commesso. Trattandosi di un adultero e di un ladro, la legge del Mali prevede che debba subire cento bastonate per il primo reato, e il taglio della mano per il secondo. Orrore, barbarie!, insorgono le anime belle di casa nostra: come si può consegnare un essere umano a una sorte così dura, così disumana? E infatti la prima richiesta di asilo umanitario del cittadino del Mali era stata accolta dal Tribunale di Venezia, in vista della lacrimevole sorte che avrebbe atteso il poveretto in caso di espulsione dal nostro Paese. Ma poi qualcosa deve essere andata storta e la Corte d’Appello ha deciso di revocargli la concessione dello status di rifugiato internazionale. Al che il brav’uomo ha fatto prontamente ricorso presso la Corte di Cassazione, accedendo al terzo e ultimo grado di giudizio previsto dalla legge italiana: a spese di chi, provate a immaginarlo voi stessi; di certo non a spese sue, dato che il profugo maliano, come tutti gli altri clandestini entrati nel nostro territorio senza autorizzazione, non poteva di sicuro pagare né tre, né due e neppure una richieste di giudizio, di tasca propria. A questo punto la Corte di Cassazione ha ribaltato la sentenza della Corte d’Appello e ha stabilito che la sua richiesta di asilo per ragioni umanitarie merita di essere ripresa in esame dalle autorità competenti, visto il gravissimo rischio che l’uomo correrebbe, qualora gli venisse respinta. Il che è come dire che non lo si può espellere per nessuna ragione, a meno di voler gettare sul nostro Pese l’infamia indelebile di una così crudele decisione. Strana reazione, in verità, visto che ormai da anni ci sentiamo dire e ripetere in tutte le salse che noi europei, dai popoli del Sud della Terra, abbiamo soltanto da imparare; che, viceversa, abbiamo tutto da farci perdonare, il colonialismo, il neocolonialismo, lo sfruttamento finanziario di questi ultimi anni, perfino la distruzione degli ultimi animali selvaggi, l’elefante, il leone, il gorilla, destinati a cadere sotto le fucilate dei ricchi turisti occidentali o sotto il fuoco dei bracconieri locali, che poi rivendono le pelli o l’avorio sul ricco mercato dei collezionisti, sempre occidentali. Benissimo; le società africane sono il Paradiso in terra, l’apoteosi del Buon Selvaggio. Per non parlare di quella amazzonica, che, complice il Sinodo voluto da "papa" Francesco, sono assurte addirittura a modello virtuoso degno di lode e imitazione da parte del mondo intero: anche se in essi si praticano l’infanticidio, l’uccisione o il suicidio dei vecchi, e, fino a pochi ani fa, il cannibalismo e il rimpicciolimento delle teste da appendere come trofeo nella capanna dell’uccisore (come presso i Jivaros della Selva peruviana). E allora, se le società del Sud del mondo, e specialmente quelle primitive, sono pure e innocenti, e se noi da esse abbiamo tutto da imparare e nulla da insegnare, al punto che il vescovo Erwin Kräutler, personaggio chiave del Sinodo per l’Amazzonia, si è pubblicamente vantato di non aver mai convertito e battezzato neppure un indio, in una vita intera trascorsa in Brasile.

Ci domandiamo: è cambiata la ragione sociale della Chiesa cattolica? Perché si dà il caso che un certo Gesù Cristo abbia così istruito i suoi Apostoli (Marco, 16, 15-16): Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura.  Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E che la loro risposta sia stata questa (idem, 16, 20): Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano. Non ci risulta che san Pietro e san Paolo abbiano portato a spalla le divinità pagane dentro, né che si siano gettati carponi, col culo in aria, ad adorare i demoni del paganesimo; e a voi? Ma ecco che ci è scappata fuori di bocca una parola che dopo il Concilio e l’introduzione dell’ecumenismo è diventata antipatica ed è caduta in disuso: la parola paganesimo. Come dice ottimamente padre Paulo Suess, stretto collaboratore di Kräutler, rispondendo a chi gli chiedeva un chiarimento sulle cerimonie pagane che hanno accompagnato il Sinodo: E con questo? Anche se fosse stato un rito pagano, è comunque un culto in onore di Dio. Un rito ha sempre qualcosa a che fare con il culto di Dio. Non si può liquidare il culto pagano come nulla fosse. Che cos’è pagano? Nelle grandi nostre città non siamo meno pagani di quelli della giungla. Si dovrebbe riflettere su questo. E suor Inés Azucena Zambrano Jara, alla conferenza stampa del 25 ottobre, ha sostenuto che Bergoglio, facendosi benedire (?) da due stregoni amazzonici, ha compiuto un gesto di evangelizzazione. Evidentemente, un Dio vale l’altro e tutto fa brodo. In fondo, è quel che ha messo nero su bianco il signor Bergoglio con il grande imam ad Abu Dhabi; è Dio stesso che vuole l’esistenza delle diverse religioni. Ora, se le società europee sono migliori di quella europea, e se i popoli tribali sono migliori di quelli civilizzati, perché mai bisognerebbe preservare i loro figli dalle leggi ei rispettivi Paesi; perché mai bisognerebbe tenerli in Italia, invece di rimandarli donde sono venuti, quando appare evidente che si tratta solo di rei di crimini comuni, e lasciare che vadano presso i loro connazionali, a rendere conto delle loro azioni e a sottoporsi al giudizio dei loro tribunali? Non è questo un segno di presunzione etnocentrica, una manifestazione di razzismo, in quanto basata sul presupposto che le nostre leggi sono più umane, e quindi più giuste e civili, di quelle dei Paesi da cui tali soggetti provengono?

Nel caso del gentiluomo maliano adultero e ladro, la legge alla quale non lo si vuole consegnare è la Sahri’a, la legge islamica adottata quale legge civile oltre che religiosa. Eppure, da anni i nostri progressisti e i nostri intellettuali di sinistra, per non parlare dei preti fautori del dialogo a tutto campo e del clero inclusivo e accogliente, votato alla causa della legittimazione dell’immigrazione selvaggia, sono impegnati a spiegarci che l’Islam è una religione di pace; che il terrorismo islamico, addirittura, non esiste (parola di Bergoglio, l’indomani dello sgozzamento di un prete francese in una chiesa della Normandia, durante la Messa, al momento dell’elevazione per mano di due giovani islamici); che l’accoglienza dei migranti islamici è un alto fattore di civiltà anche per noi, che ci avvantaggeremo dalla convivenza con persone dall’educazione così raffinata e dalle idee così larghe e pacifiche in fatto di tolleranza religiosa e civile. Infatti, è notizia di due giorni fa che ventisette cristiani libanesi, sorpresi a pregare (non a celebrare la Messa: a pregare!) in una casa privata, sono stati arrestati dalla polizia politica del Regno saudita, tradotti in carcere come delinquenti e immediatamente espulsi dal Paese, nel quale non è ammessa alcun’altra religione che l’islamica. Pertanto, non voler rimandare al suo Pese quel gentiluomo maliano, entrato abusivamente in Italia, equivale a un atto di disprezzo e di superiorità da parte nostra: è l’equivalente di uno schiaffo in pieno viso a tutti i governanti e allo stesso popolo del Mali, e di tanti altri Stati islamici dell’Africa e dell’Asia. Infatti, la legge italiana prevede che non si possa estradare un cittadino straniero se, facendolo, lo si espone alla morte o alla violazione dei diritti fondamentali della persona. In particolare la Corte d’Appello di Milano, Quinta Sezione Penale, con sentenza del 18 febbraio 2019, ha negato l’estradizione di un cittadino cinese, accusato nel suo Paese di corruzione, e più precisamente di essersi appropriato indebitamente di fondi universitari (figuriamoci se noi dovessimo condannare a morte tutti i nostri connazionali che commettono il reato di corruzione…), stabilendo che

per poter concedere l’estradizione quando il fatto è punibile con la pena di morte secondo la legge dello Stato estero, è necessario che "l’autorità giudiziaria accerti che è stata adottata una decisione irrevocabile che irroga una pena diversa dalla pena di more o, se questa è stata inflitta, è stata commutata in una pena diversa", fermo restando il rispetto dei diritti fondamentali della persona.

In altre parole, un delinquente condannato a morte nel suo Paesi di provenienza può essere estradato solo se le autorità giudiziarie di quel Paese si impegnano a non eseguire la sentenza, modificando la pena di morte in un’altra pena, fosse pure quella dell’ergastolo. Il che è quanto mai velleitario, per non dire utopistico. Qualcuno s’immagina un tribunale cinese, o iraniano, o statunitense, dire al nostro tribunale di competenza: Cari giudici italiani, avete assolutamente ragione voi: la pena di morte è una barbarie e quindi noi siamo dei barbari, e vi riconosciamo come assai più avanzati e civili di noi, tanto da prendervi a maestri e modelli. Perciò vi promettiamo solennemente che, se ci restituite il delinquente di cui stiamo parlando, non lo faremo giustiziare, ma c’impegniamo a tenerlo in vita, infiggendogli una pena diversa da quella capitale.

Ma quel galantuomo del Mali, obietterà qualcuno, non rischia, se viene rimandato nel suo Paese, la pena di morte; rischia "solo" le cento bastonate e il taglio della mano destra. Appunto. Perciò, se la legge italiana decidesse di estendere benefici della protezione internazionale non solo a quanti rischiano la pena di morte, ma a tutti coloro i quali rischiano una pena particolarmente severa, allora non solo migliaia e migliaia di assassini, stupratori e bancarottieri fraudolenti, ma anche milioni di ladri, adulteri e spacciatori vedrebbero nel nostro Paese il porto di salvezza e, senza dubbio, anche un nuovo campo di attività, più accogliente e meno rischioso, e cercherebbero in ogni modo di raggiungerlo per stabilirvisi; con quali conseguenze, sia materiali che morali, non crediamo sia cosa troppo ardua da immaginare. La cosa è doppiamente assurda. Da un lato si proclama che la nostra società è brutta e cattiva e moralmente inferiore, quindi non autorizzata ad impartire lezioni agli altri popoli, ma poi si pretende, di fatto, che essa sia alquanto superiore, più illuminata e civile, al punto da poter sostituire le proprie leggi a quelle africane o asiatiche, per la tutela dei cittadini africani e asiatici; dall’altro si spalancano le porte e si invitano a venire tutti i delinquenti, effettivi e potenziali, i quali, trattenuti dal commettere crimini nei loro Paesi, sanno che in Italia riceveranno un trattamento più clemente anche nel caso che vengano sorpresi, arrestati e processati. E questo senza porre limiti di sorta: perché, se passa il principio che chiunque delinque all’estero, e rischia la pena di morte o un trattamento "inumano" a causa dei suoi delitti, ha diritto a essere accolto in Italia, evidentemente non si può fare una selezione, stabilire una quota, limitare gli arrivi. I principi, specie quelli di matrice illuminista, hanno questo di terribile: che non tengono conto della realtà. Quanti sono i ladri, gli adulteri, gli assassini della Nigeria, del Ghana, del Senegal, della Costa d’Avorio, del Camerun, del Gabon, ecc., nonché quelli del Pakistan, del Bangla Desh, dell’Arabia Saudita, dell’Afghanistan, ecc. che avrebbero il diritto di essere accolti un Italia per ragioni umanitarie? E quanti sono quelli che non hanno ancora commesso tali crimini nei loro Paesi, perché trattenuti dalla paura dei castighi, ma che saranno invogliati a venire sotto il mite cielo italiano, quando si sarà pienamente affermato il principio stabilito per quel cittadino del Mali dalla nostra Corte di Cassazione? Semplicemente, non sarà possibile contarli, e non avrà neppure alcun senso il tentare di farlo: il numero diverrà una variabile insignificante, quel che conta sarà sempre e solo il principio: che, per sua stessa natura, esige di essere applicato. In nome dei sacri principi umanitari, faremo salire sulla nave dieci, venti volte più persone di quante ce ne possono stare: e la faremo affondare, provocando la morte di tutti, anche di quelli che non avevano alcuna colpa, se non quella di viaggiare, legittimamente, pagando il biglietto e rispettando l’autorità degli ufficiali, sulla nave sbagliata.

Immaginiamo le obiezioni al nostro ragionamento: ragioni di umanità, di carità, di solidarietà, chiedono, esgono, impongono che non si chiudano gli occhi e gli orecchi, e soprattutto le porte e (e il portafogli), davanti a degli esseri umani che sono esposti a una sorte così terribile. Ma, a parte la pratica impossibilità di spalancare le porte a milioni d’individui, i peggiori di tutti, offrendo loro protezione come un tempo si faceva per i delinquenti nelle chiese e nei conventi (una pratica, se non andiamo errati, esecrata specialmente dalla cultura progressista che ora preme per fare dell’Italia un immenso convento internazionale), chi siamo noi per affermare che le leggi del Mali, o del Gabon, o del Pakistan, sono incivili e che quei Paesi non hanno il diritto di stabilire da se stessi in che modo punire i criminali in casa propria? Il giorno in cui la pubblica opinione e la coscienza morale di quei popoli insorgerà contro certe usanze, saranno i loro parlamenti e i loro governi a modificare la legislazione penale. Il fatto è che i progressisti pensano che se le leggi di un Paese vanno loro strette basta prendere l’aereo e spostarsi in un altro per fare i propri comodi. Lo sanno le coppie omofile che vanno all’estero per comprare un bambino sul mercato dell’utero in affitto e portarselo in Italia, beffando le nostre leggi. A ben guardare tale arroganza nasce dal più squallido dei motivi: il denaro. E visto che i criminali stranieri non hanno denaro, a pagare il loro conto saranno i cittadini italiani…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Tingey Injury Law Firm su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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