
La verità è ciò che resta dopo aver tolto l’errore
5 Novembre 2018
È giusto dimenticare il male commesso?
6 Novembre 2018Da giovani si è impazienti perché non si sa quasi nulla della vita, e quel poco che si crede di sapere è sbagliato: come bambini viziati, si vuole tutto e subito. Da vecchi si diventa impazienti perché si è capito che il tempo è prezioso: non nel senso volgare che il tempo è denaro e quindi bisogna far tante cose, ma nel senso che il tempo sprecato non tornerà indietro, e la nostra vita è fatta di tempo. Tempo che ci è dato per capire e per fare, non per cincischiarci o per declamare belle formule. Sono perciò due specie completamente diverse d’impazienza, quasi due sentimenti diversi. Il giovane è impaziente perché è ancora immaturo, il vecchio è impaziente perché si sta avvicinando al traguardo e sa che non ha ancora capito, né messo in pratica, l’essenziale. Capire e mettere in pratica sono due facce della stessa medaglia, ma questo il giovane non lo sa: crede che capire sia la chiave di tutto, e che basti aver capito per risolvere qualsiasi problema. Il ’68 è stato il trionfo dei giovani, la loro vacanza, la loro festa: parlavano, parlavano, non la finivano più di dissertare, credevano di aver capito tutto, e non concludevano nulla. Logico: per concludere, bisogna sapere quel che si vuole; ma loro non lo sapevano. Sapevamo solo, figli di una generazione bruciata, quello che non volevano. Non volevano essere giudicati (Caterina Caselli); non volevano sentirsi dire di no dai genitori (Moravia, Dacia Maraini e gli psicanalisti); non volevano rispettare le regole borghesi (Marx, Lenin, ecc.); non volevano essere guastati dalla società brutta e cattiva (Rousseau); non volevano riconoscere un Dio che sta Lui al centro (svolta antropologica della teologia); non volevano lavorare (hippies); non volevano essere interrogati dai professori (sei politico) e tanto meno essere bocciati (don Milani); non volevano i manicomi, né ammettere che esiste la malattia mentale (Foucault, Basaglia e, qualche anno dopo, Qualcuno volò sul nido del cuculo); non volevano religione, stato, famiglia (Imagine di John Lennon); non volevano e basta (Montale). I loro maestri erano Caterina Caselli, Alberto Moravia (anche se poi lo fischiavano), la Maraini, Freud, Marx, Lenin, Che Guevara, Karl Rahner, Jack Kerouac e Bob Dylan, don Milani, Foucault, Basaglia, John Lennon e i Beatles (e, tramite loro, Aleister Crowley col suo Fa’ ciò che vuoi), Sartre e gli esistenzialisti e tutti i poeti tristi e piagnoni, purché di sinistra (Ezra Pound?, un fascista: che altro?). Insomma, la sagra del velleitarismo, il carnevale dell’inconcludenza e il trionfo della chiacchiera più sfrenata. Raccoglieva più applausi chi le sparava più grosse; e ciascuno faceva a gomitate per superare gli altri. A sinistra, si capisce.
Un’altra differenza fra l’impazienza dei giovani e quella dei vecchi è che la prima non ha un oggetto determinato, o, se lo ha, viene presto a noia e viene rimpiazzato da un altro, perché l’importante non è il cosa, ma l’atto in se stesso, naturalmente l’atto del rifiuto: il rifiuto dei padri, della tradizione, ecc.; perché l’atto in positivo richiede che si sappia quel che si vuole, e i giovani raramente lo sanno. Invece quella dei vecchi è dovuta al fastidio di vedere dilungarsi il raggiungimento della meta: che per loro è un oggetto ben definito, raggiungibile, e che sta a noi raggiungere. L’impazienza dei giovani nasce dalla noia, dal bisogno di fare qualcosa, qualsiasi cosa, magari il contrario di quel che si faceva e si diceva ieri; quella dei vecchi nasce dalla paura di non riuscire a fare quel che si deve, a raggiungere la meta che comincia a mostrarsi. Stiamo parlando, sia chiaro, dei giovani moderni, che sono una categoria particolare dell’uomo moderno: una categoria nella quale appaiono con più evidenza i tratti costitutivi della modernità e specialmente gli sfregi e le devastazioni che il modo di vivere moderno ha recato alla struttura antropologica. Il parlare a vanvera dei giovani dà fastidio ai vecchi, perché quel parlare serve solo a mascherare l’assenza di idee, il disimpegno sostanziale mascherato da impegno politico, sociale, ecc.; il loro agitarsi li fa sorridere o li rattrista, perché somiglia a un marciare sul posto, a un camminare in circolo. Non c’è progresso, in compenso c’è un grande, debordante narcisismo: la malattia dell’io che sovrasta ogni cosa, che blocca ogni evoluzione.
Quando si arriva a una certa età, diciamo verso i sessanta, si comincia finalmente a pensare in modo concreto. Alcuni lo fanno già prima, ma sono pochi; di solito si diventa concreti all’età in cui si potrebbe diventare nonni. E questo è particolarmente vero nella società moderna, che, essendo improntata ad una pseudo pedagogia buonista e permissiva, tende a ritardare oltre misura l’assunzione di responsabilità da parte degli individui. In pratica, oggi si comincia a sviluppare significativamente la propria maturità dopo i trent’anni, o magari anche più tardi, intorno ai quaranta; fino a due generazioni fa, ciò accadeva intorno ai venti. E parliamo di responsabilità in modo generico, ma estremamente concreto: saper stare al mondo; sapersela sbrogliare da soli; non scaricare sugli altri la colpa dei propri insuccessi; e, soprattutto, la cosa più importante di tutte: imparare dai propri errori, dalle proprie disattenzioni, dai propri peccati. Oggi la regola è quella della totale impermeabilità alle esperienze significative, specialmente se di segno negativo: vengono vissute come fatalità, come eventi imponderabili, scorrono via e non insegnano nulla. Non insegnano la prudenza, né la saggezza, né il senso della misura. Non insegnano a essere realistici, a non fare il passo più lungo della gamba, a non tentare il destino, a non scherzare con la sorte. Colui che ha fatto un incidente con l’automobile perché guidava in stato di ebbrezza, non smette di bere e non smette di mettersi al volante in condizioni precarie: tanto, le sanzioni sono talmente lievi… E colui che è stato salvato mentre stava per annegare, non impara a prendere certe precauzioni quando si tuffa, a evitare di farlo dopo aver mangiato, o quando il mare è mosso, o quando è troppo freddo, ecc.; e colui che si è rotto una gamba, o l’ha rotta qualcun altro, perché faceva lo spiritoso a sciare fuori pista, non desiste dalla sua cattiva abitudine e rinnova le proprie prodezze ogni volta che ne ha l’occasione. Ciascuno tira la corda del destino, ciascuno si espone a situazioni di rischio che potrebbe evitare. Il fumatore cronico che ha l’enfisema polmonare non smette di fumare, e il diabetico non smette di mangiare dolci, e il cardiopatico non smette di imitare i giovanotti nel fare sforzi fisici o nel fare all’amore. La gente non impara più niente, sia perché è troppo concentrata sul telefonino, sul computer, sulla televisione, e praticamente vive in un altrove virtuale, dove non contano le condizioni concrete del qui e ora; sia perché trova sempre il paracadute aperto, il papà o la mamma o la maestra o il prete o l’amico o l’assistente sociale o il poliziotto o il magistrato, che lo tolgono dai guai nei quali s’è cacciato per sua colpa e imbecillità. I genitori avevano sconsigliato la loro figlia dal fidanzarsi con quel ragazzo violento, che già un paio di volte le aveva fatto un occhio nero; ma lei niente: ha voluto andarci a vivere insieme, e un bel giorno chiama disperata i carabinieri perché lui vuole ammazzarla di botte. E magari non fa in tempo a chiamarli, perché lui l’ammazza per davvero. È stata una disgrazia? Niente affatto: è stata una tragedia annunciata e, in un certo senso, voluta. Più un suicidio che una disgrazia. Oppure i genitori avevano sconsigliato a quell’altra di sposare un islamico proveniente da una famiglia molto rigida, ma lei niente: poi, però, si accorge di essere in prigione, deve portare il velo, non può uscire, né vedere le amiche, deve solo tacere e obbedire, e un giorno scopre che i bambini, andati col papà a trovare i nonni nel Pakistan, non tornano più a casa, perché lui ha deciso così. Allora viene mobilitata la stampa, la magistratura, l’ambasciata e il ministero degli Esteri, forse anche le Nazioni Unite; allora bisogna che il mondo intero si faccia carico del suo problema. Ma il suo problema, quella ragazza, se l’è cercato e se l’è voluto: era stata messa in guardia, ma ha disprezzato i consigli. Perché? Perché la gente non impara più nulla, crede di sapere già tutto, di non aver bisogno di niente e di nessuno. La gente vuol fare da sola, rivendica la propria libertà, il proprio diritto all’autonomia. Benissimo. Poi, però, se le cose si mettono male, ben pochi hanno la dignità di sbrigarsela da soli, con le loro forze: vorrebbero che tutti quanti gli altri si facessero carico del loro problema. Colui che si è costruito la casa abusiva a pochi metri dalla sponda del fiume, se viene l’alluvione e si porta via la casa, e magari anche la sua famiglia, poi pretende che lo Stato o aiuti, che la regione lo aiuti, che il Comune lo aiuti; è pronto a fare causa in tribunale, vorrebbe denunciare questo e quest’altro. Paradossale: li denuncia perché gli hanno lasciato costruire la casa abusiva, perché non gliel’hanno buttata giù con le ruspe. E se non riesce a ottenere "giustizia", cioè un congruo risarcimento che lo sistemi per tutta la vita, è pronto ad andare alla televisione, a spiegare a milioni di telespettatori come e perché gli è stato fatto un torto gravissimo, ha subito un’ingiustizia imperdonabile. E via di questo passo.
Tutto ciò deriva dal fatto che la società moderna insegna e imbottisce la testa della gente coi diritti, ma non parla quasi mai dei doveri, e pochissimo delle responsabilità. È sempre il proibito proibire di sessantottesca memoria che imperversa, e continua a fare disastri: disastri ai quali devono cercar di rimediare, per una vera e propria nemesi, quei genitori, oggi settantenni, che allora, ragazzi di venti, gridavano per le strade e nelle aule universitarie. Comunque, la conseguenza più grave di tutta questa situazione è lo scollamento dalla realtà, la pretesa di risolvere i problemi della vita a forza di parole, di slogan, di formule, di citazioni, di petizioni di principio. Abbiamo creato una sotto cultura parolaia dove la gente, soddisfatta delle parole, smette di rimboccarsi le maniche per affrontare, e possibilmente risolvere, i problemi veri. La gente ha troppe parole in testa, ha troppe idee astratte, troppe velleità ideologiche. Crede che l’uomo sia fondamentalmente buono e vorrebbe abolire il carcere, la pena di morte, le forze armate e la guerra. Così, d’ufficio. Ma chi ha raggiunto una certa età, si rende conto che questo atteggiamento è sterile e anche intellettualmente disonesto, perché, in ultima analisi, scarica sempre l’essenza della questione su qualcun altro. L’essenza della questione è capire quel che si deve fare nella vita, come la si deve vivere, a quali valori e principi bisogna ispirarsi. Tutte le vuote chiacchiere sul pluralismo, sul relativismo, sullo scetticismo, sono solo servite a ritardare la maturazione della società, come l’iper-protezione dei genitori serve solo a ritardare la maturazione dei figli. A una generazione di adulti-bambini corrisponde una società bambina, o bambinesca, dove nessuno si prende le sue responsabilità, perché nessuno osa dare torto ai postulati edonisti e iper-individualisti sui quali si regge il nostro stile di vita. Non abbiamo più il coraggio di guardarci allo specchio e riconoscere che gran parte delle nostre disgrazie ce le siamo tirate addosso. Il destino non c’entra niente: dipende sempre dall’uomo il modo in cui decide di affrontare i problemi che si presentano. Da quelle scelte scaturiscono diversi effetti: che certe cose siano inevitabili non lo si può dire, se non dopo essersi impegnati al massimo per farle andare così come dovrebbero andare, secondo ragione e secondo giustizia. Non si può bluffare con la vita, né si può raccogliere più di quel che si è seminato. Se si è dato venti, non si può ricevere cento: questa è la legge della vita, e non fa sconti a nessuno. Se pare che li faccia, prima o poi arriverà il conto da pagare, e sarà salatissimo, perché ci saranno dentro tutti gli arretrati, fino all’ultimo centesimo. Fra parentesi, questa è la ragione per cui il sistema economico che abbiamo costruito, basato sullo strapotere della finanza, è un sistema assurdo, malato, che ci porterà fatalmente al disastro: perché la speculazione si basa appunto sulla pretesa di guadagnare molto, ma molto più di ciò che si è investito.
In buona sostanza, il compito che la vita ci assegna è quello di realizzare le nostre potenzialità superiori, cioè di realizzare il meglio di cui è suscettibile un essere umano in quanto tale, ossia dotato di ragione, volontà e sentimenti, non in quanto membro della famiglia animale. E per realizzarlo, bisogna cercare instancabilmente la verità e bisogna cercarla in maniera onesta, umile, paziente e tenace. Se si pretende di saper già tutto, non s’impara mai nulla. Se non s’impara mai dai propri errori, si è condannati a ripeterli, restando fermi sempre allo stesso punto. Se non ci si prende le proprie responsabilità, si rimane degli eterni bambocci. E se si predica il relativismo, non ci si deve poi meravigliare d’incontrare qualcuno che ci calpesta, che ci sfrutta, che si sevizia: perché il relativismo insegna che tutte le verità si equivalgono, e allora perché la verità del prepotente o del sadico dovrebbero valere meno di quella di chiunque altro? Se nostro figlio di otto anni viene brutalizzato da un orco, con quali argomenti sosterremo che la verità del mostro, sfogare i suoi istinti perversi sulla prima creatura che gli capita a tiro, non ha diritto di cittadinanza? Quanta ipocrisia, quale chilometrica coda di paglia nasconde la cultura progressista, che parla sempre e solo dei diritti di questo e di quello, ma si rifiuta di stabilire i corrispettivi doveri e di sanzionare con severità i trasgressori della civile convivenza. L’altro giorno, a Treviso, un sedicente profugo nigeriano è stato beccato con un grosso quantitativo di droga: era lui a rifornire i piccoli spacciatori. Il magistrato non ha ritenuto di tenerlo in prigione neanche per una notte, e ha deciso che il denaro confiscato gli venisse restituito, perché non è provato che quel denaro venisse dalle sue attività illecite. Ecco: questa è la cultura del permissivismo; questi sono i frutti del relativismo. Liberi tutti: che bello. E allora veniamo al sodo: la vita è una cosa seria; basta ciance: è tempo di essere adulti…
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