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L’Editto di Rotari nella concezione storiografica di Pasquale Villari

L’editto di Rotari venne promulgato a mezzanotte del 22 novembre 643 ed è una organica raccolta di leggi del popolo longobardo, secondo la tradizione germanica, benché riveli chiaramente anche influssi del diritto romano.

Rotari, nato a Brescia nel 606, membro della stirpe degli Arodingi e duca ariano della sua città, salì al trono nel 636, alla morte del re Arioaldo, di cui sposò la vedova Gundeperga, cattolica e appartenente alla nobilissima famiglia dei Letingi, essendo figlia della regina Teodolinda (moglie di Autari e, rimasta vedova, di Agilulfo, da cui, appunto, era nata Gundepergam, oltre ad Adaloaldo, che fu re dal 616 al 626).

Nel complesso, l’editto di Rotari si può considerare come un insieme di codici aventi lo scopo di sostituire alla faida, ossia la vendetta del sangue, il guidrigildo, ossia l’indennità pecuniaria dovuta alla parte lesa, o ai suoi parenti, in caso di vertenze a carattere privato, in conseguenza di furto, percosse, ferimento, omicidio. Rispetto alla pratica della faida, si trattava di un notevole progresso sulla via della composizione pacifica dei conflitti tra diversi soggetti e i loro "clan" familiari; anche se, per molti aspetti, appare come una legislazione ancora assai rozza e approssimativa. Se la parte che veniva sanzionata con l’istituto del guidrigildo non era in grado di pagare la somma stabilita — che, in certi casi, come per l’uccisione della moglie da parte del marito, era fissata in una cifra volutamente esorbitante — l’offensore veniva ridotto praticamente in schiavitù, il che era l’equivalente di una condanna all’ergastolo.

Si è molto discusso, fra gli storici, se l’editto di Rotari fosse valido per l’intera popolazione del Regno longobardo, ossia anche per gli Italiani, oppure se si applicasse alla sola componente longobarda; oggi è comunemente ammesso da quasi tutti che l’editto riguardasse solo i Longobardi, mentre per gli Italiani restava in vigore il Codice di Giustiniano del 533: ossia che l’editto avesse il carattere della personalità della legge e non un carattere di territorialità. Per gli Stati moderni, la legge ha carattere territoriale: tutti coloro che vivono nel territorio dello stato, cittadini e non, sono soggetti alle sue leggi; e questo vale anche per le acque territoriali e per le navi battenti la bandiera di quel determinato stato. Per i Regni romano-barbarici, le cose stavano altrimenti: la legge aveva carattere personale, cioè veniva applicata solo ai membri del popolo germanico; per gli altri, ossia per le popolazioni romane, o romanizzate, preesistenti, valeva il diritto romano.

Ora, siccome nell’editto di Rotari il re longobardo parla dei suoi sudditi senza fare distinzione apparente tra essi, ma vantandosi di aver compilato le leggi per amore della giustizia e dei sudditi, alcuni studiosi, specialmente in passato, hanno pensato che ciò equivalga ad una estensione in senso territoriale, e non personale, dell’editto medesimo; pur ammettendo che, se il diritto romano — tanto più antico e prestigioso, e riguardante, dopotutto, la grande maggioranza della popolazione del regno — fosse stato abolito, e sostituito da quello germanico, la cosa non sarebbe stata data per sottintesa, ma esplicitamente e solennemente affermata.

Fra tali studiosi va annoverato un grande storico del XIX secolo, il siciliano Michele Amari (nato a Palermo il 7 luglio 1806 e morto a Firenze il 16 luglio 1889), celebre, soprattutto, per la sua monumentale «Storia dei musulmani di Sicilia», pubblicata in tre volumi fra il 1854 e il 1872 dall’editore Le Monnier di Firenze, modello universalmente riconosciuto per tutti gli studi successivi sul medesimo argomento (seguita dalla «Biblioteca arabo-sicula», 1857-87, e dalle «Epigrafi arabiche in Sicilia», 1875-85), che fu anche Ministro della Pubblica istruzione dal 1862 al 1864. Patriota, mazziniano, anticlericale, fautore dell’Anticoncilio di Napoli del 1869 (tenutosi in esplicita polemica con il Concilio Vaticano I di Pio X) e fervido massone (era Gran Maestro della Massoneria di rito scozzese), Amari era uno studioso della più rigida osservanza positivista e razionalista e non concedeva alcuno spazio, né aveva alcuna sensibilità, per gli aspetti spirituali e religiosi della storia; come, poi, potesse comprendere l’anima della civiltà medievale, partendo da siffatti pregiudizi, uno storco del Medioevo, quale egli era, è cosa che, per quanto ci riguarda, appare piuttosto misteriosa.

Così, dunque, si esprimeva Pasquale Villari a proposito dell’Editto di Rotari, promulgato dal re longobardo alla mezzanotte fra il 22 e il 23 novembre del 643 (P. Villari, «L’editto di Rotari», cit. in Pietro Silva, «I secoli e le genti», Milano, Principato, 1947, pp. 42-43):

«Fra le compilazioni di leggi barbariche, l’Editto di Rotari è certo una delle migliori. Ciò si deve al fatto che gli altri barbari scrissero le loro leggi o consuetudini poco dopo entrati nell’Impero, ed i Longobardi assai più tardi. Sebbene questi poi non se ne avvedessero, è tuttavia per noi visibile nelle loro leggi l’azione indiretta del diritto romano, che apparisce non solo nella stessa lingua latina in cui sono scritte, ma anche in alcune frasi affatto giustinianee, in un ordinamento già fin dal principio alquanto sistematico, e in alcune disposizioni che evidentemente non possono essere di origine germanica. L’Editto è diviso in 388 capitoli, di cui gli ultimi dodici sembrano aggiunti più tardi. Si comincia con i delitti contro lo Stato e le persone; si prosegue col diritto ereditario, l’ordine delle famiglie e della proprietà. Di diritto pubblico vi è poco o nulla.

Si è moto disputato per sapere se questo Editto si applicava solo ai Longobardi o anche ai Romani. Generalmente le leggi barbariche avevano un carattere personale, erano cioè esclusivamente del popolo che le aveva scritte e che le portava seco ovunque andava. Quelle dei Longobardi però, e non solamente di essi, avevano anche un carattere territoriale perché si applicavano a tutti i popoli venuti con loro in Italia. Prova ne sarebbe il fatto che i Sassoni, i quali volevano vivere con le loro leggi e le proprie istituzioni, dovettero andar via. Rotari dice nel suo Editto che egli lo ha compilato per la giustizia e per amore dei suoi sudditi, senza far tra essi distinzione alcuna, il che farebbe credere all’applicazione della legge longobarda anche ai Romani. Certo è però che più di una volta l’Editto accenna all’esistenza di altre legislazioni diverse dalla longobarda; e non pare credibile che, se la legge romana fosse stata annullata del tutto, di una cosa di così grande importanza non si facesse chiaramente menzione neppure una volta. Né si può concepire come i Longobardi, anche volendo, avrebbero potuto distruggere un diritto che aveva messo radici secolari, creando fra i vinti Italiani una quantità di relazioni giuridiche, molte delle quali erano ai loro vincitori sconosciute in modo che per esse la loro legge non provvedeva e non poteva provvedere nulla addirittura. Non si capirebbe poi come, ammessa una volta l’assoluta distruzione del diritto romano nell’Italia longobarda, questo si trovasse più tardi in vigore, senza che del suo sparire e del suo riapparire si facesse nei documenti o nelle cronache cenno alcuno. La conclusione più probabile cui bisogna, secondo noi, arrivare è che sebbene la legge romana non venisse ufficialmente riconosciuta, pure in molte delle relazioni private che correvano da antico fra gl’Italiani, essa fosse lasciata vivere sotto forma per lo meno di consuetudine.

La legislazione longobarda è certo un prodotto sostanzialmente germanico e manifesta costantemente questo suo carattere fondamentale, sebbene in alcuni punti apparisca alquanto alterato dalle condizioni speciali in cui essa venne formulata. È anzitutto la legislazione di un popolo in armi, ma di un popolo di agricoltori sparsi per la campagna, in case separate, con siepi che circondano i campi. Rotari dichiara sin da principio d’esser mosso dall’interesse dei propri sudditi "specialmente rispetto ai continui ravagli dei poveri ed alle esazioni inutili contro i deboli che noi sappiamo aver patito violenza.". Un tale concetto si può in parte attribuire al cristianesimo, ma in parte si deve anche attribuire al fatto che i barbari rivolgevano la loro ostilità soprattutto contro i latifondisti oppressori dei poveri; spogliavano, uccidevano i primi e spesso favorivano i secondi, ai quali nulla potevano togliere. Certo furono verso i poveri meno oppressori dei Bizantini; né si sa che nelle campagne o nelle città li opprimessero al pari dei ricchi.

La legislazione longobarda è inoltre la legislazione di un popolo conquistatore, ed è di sua natura essenzialmente contraria allo spirito vero del diritto romano. Quello che vi domina non è il concetto giuridico dello Stato, ma il concetto della forza. La famiglia, primo nucleo e fondamento di una società il cui governo è ancora assai debole, si trova fortemente costituita a propria difesa; ma non apparisce giuridicamente coordinata allo Stato risultando invece unita dai primitivi vincoli del sangue. La donna, come debole, si trova sottoposta a una continua tutela, che si chiama "mundio", da cui non può mai liberarsi. La donna longobarda passa dal mundio del padre a quello del marito, alla morte del quale va sotto il mundio dei parenti di lui e in alcuni casi del proprio figlio, in ultimo della "curtis regia": non essendo capace di portare le armi, essa dev’essere sempre sotto il mundio di qualcuno. La legislazione barbarica non conosceva il regime dotale; ma presso i Longobardi la donna possedeva quello che le veniva dal marito, il quale doveva liberarla dal mundio del padre o dei fratelli pagandone il prezzo; doveva darle la "meta" che è una specie di dote e inoltre il "morgengab", cioè il dono del mattino. Presso di essi la proprietà collettiva germanica era scomparsa quasi del tutto, essendone qua e là sopravvissuta qualche debole traccia.»

Come si sarà facilmente compreso, la questione della estensione, o meno, dell’editto di Rotari anche alla popolazione italiana, rimanda ad un altro grande problema storiografico, cioè quello, di portata assai più ampia, e che attirò anche l’attenzione di Alessandro Manzoni – autore, nel 1822, di un «Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia» (frutto delle ricerche compiute per la stesura della tragedia «Adelchi», composta fra il 1820 e il 1821) – circa il grado effettivo di integrazione e di assimilazione dei Longobardi nel contesto della società italiana fra il VI e l’VIII secolo, ossia fra la loro discesa nella Penisola nel 568, con Alboino, e il crollo del loro regno nel 774, sotto Desiderio (a parte l’appendice del Ducato di Benevento, denominato "Langobardia Minor", che sopravvisse fino al 1053, quando venne conquistato dal normanno Roberto il Guiscardo ed inglobato nei territori della Chiesa).

Nel secondo capitolo di quest’operetta, in cui mostra notevoli attitudini di storico, Manzoni si domanda se, al tempo dell’invasione di Carlo, dei Franchi, i Longobardi e gli Italiani formassero un popolo solo; nel terzo, affronta la questione giuridica, cioè se gli Italiani abbiano conservato le proprie leggi, o se siano stati assoggettati alle leggi dei Longobardi. Alla prima domanda, Manzoni risponde negativamente: i due popoli non si erano fusi, bensì i Longobardi furono sempre e solo degli oppressori per gli Italiani, e i Franchi giunsero non certo in veste di improbabili "liberatori", ma come nuovi e ulteriori oppressori. Al secondo interrogativo, il futuro autore de «I promessi sposi» risponde, testualmente, «che una parte della legge romana cadde da sé; che la parte di legge conservata non esentava coloro che la seguivano da ogni altra giurisdizione del popolo padrone; che la legge stessa rimase sempre sotto l’autorità di questo; e che da esso furono sempre presi i giudici che dovevano applicarla».

Quanto a Michele Amari, le sue osservazioni sono piene di buon senso, e così pure lo è la sua conclusione: ossia, che «sebbene la legge romana non venisse ufficialmente riconosciuta, pure in molte delle relazioni private che correvano da antico fra gl’Italiani, essa fosse lasciata vivere sotto forma per lo meno di consuetudine». Nondimeno, anche le osservazioni di Manzoni lo sono: non è pensabile che i Longobardi, padroni dell’Italia in virtù del diritto di conquista, rinunciassero poi a esercitare il loro diritto di conquistatori, e concedessero ai conquistati delle leggi, e meno ancora dei giudici, diversi dai propri, tranne nei casi in cui ciò non poteva avere, per loro, alcun valore, né sotto il profilo politico, né sotto quello pratico. Possiamo quindi ragionevolmente concludere che il Codice giustinianeo rimase in vigore per i sudditi italiani, ma solo nella misura in cui ciò era indifferente ai dominatori longobardi, o si conciliava con i loro interessi. Di qui la fondamentale debolezza politica dei Longobardi, l’estinzione del loro regno: conobbero il diritto della forza, non la forza del diritto. Vi è un che di angusto nella loro mentalità, nel modo in cui dominarono per due secoli la Penisola: anarchici e violenti, oscillanti fra cattolicesimo e arianesimo, fra amicizia e lotta col vescovo di Roma. Non vollero integrarsi nella civiltà romana, né integrare a sé gli indigeni, come seppero fare i Franchi. Perciò non ebbero un Teodorico, né un Carlo Magno. E scomparvero…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Tingey Injury Law Firm su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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