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La città rappresenta l’ideale della vita sociale?

Il tema della contrapposizione psicologica e morale, oltre che economica e culturale, fra città e campagna, è antichissimo; nel caso dell’Italia, lo vediamo documentato in maniera esplicita almeno dall’età romana

Esso oscilla alternativamente fra i due poli della esaltazione e della svalutazione ora dell’una, ora dell’altra. Quel che non si può fare a meno di osservare, è che le lodi della campagna e della vita sana che vi si conduce prevalgono nei periodi di crisi politica e sociale (fine della Repubblica romana e inizi dell’Impero; alto Medioevo; periodo fra le due guerre mondiali; post-modernità), mentre quelle della città si fanno più intense e convinte nelle fasi di espansione produttiva e di ottimismo scientifico e filosofico (età dei Comuni; Umanesimo e Rinascimento; Illuminismo; Positivismo e Belle époque).

Gli scrittori e i poeti sono coloro che più direttamente hanno dato espressione a questa polemica; e, dal momento che sono quasi sempre espressione del mondo urbano, si potrebbe pensare che, in generale, la glorificazione della vita cittadina sia stata prevalente, nel nostro panorama culturale, rispetto a quella della vita agreste: ma non è così, perché gli intellettuali sono spesso l’espressione di un malcontento, di una insoddisfazione generalizzati, per cui molti di essi hanno cercato evasione e rifugio in un mondo bucolico fortemente idealizzato, accentuando, per converso, talora anche al di là del giusto, i difetti e gli inconvenienti della vita in città.

Così, se è un fatto che, a partire dall’Umanesimo, troviamo la satira del contadino e del mondo rurale come un "topos" letterario talmente diffuso, da sfiorare la banalità e la ripetitività – da certe novelle del «Decamerone» di Boccaccio, alla «Nencia da Barberino» di Lorenzo il Magnifico -, è altrettanto vero che, specialmente per influsso della filosofia di Rousseau e del mito del "buon selvaggio", la rappresentazione della vita agreste ha conosciuto punte altrettanto retoriche e, a volte, un po’ ridicole, di acritica e fervorosa esaltazione.

Basti, per tutti, il verso del poeta inglese William Cowper: «God made the country and man made the town» («Dio creò la campagna e l’uomo fece la città»), dove è chiaro l’intento polemico, ma anche lo scarso equilibrio del giudizio, se è vero che la campagna è opera dell’uomo tanto quanto la città, e che il mondo non coltivato dall’uomo è tanto diverso dalla campagna, quanto quest’ultima lo è dalla città (e non c’è dubbio che il primo significato di "country" è proprio "campagna", nel senso di terreno coltivato dall’uomo).

William Cowper (1730-1800) visse nella patria della Rivoluzione industriale e proprio nella fase iniziale di essa, per certi aspetti la più tumultuosa, e quella in cui si poteva ancora fare il confronto, carico di nostalgia, con il mondo pre-industriale, con la bella e verdeggiante campagna inglese, non ancora imbruttita dalle montagne di scorie del carbone e contaminata dai mille fumi e scarichi industriali; il suo sentire, pertanto, è quello di un testimone diretto d’un fenomeno che lo sconvolge e che non riesce a capire, né ad accettare.

Londra, la metropoli, per lui, è il luogo della corruzione per eccellenza; nondimeno, Cowper non è un solitario misantropo; benché afflitto da gravi disturbi nervosi (che lo spingono a tentare il suicidio), ama ed apprezza in sommo grado la vita sociale;:pensa, a differenza di Rousseau, che l’uomo, al di fuori di essa, non sarebbe che un povero disgraziato, quand’anche fosse padrone di un’isola intera e potesse viverci senza alcun nemico: emblematica, in questo senso, è la sua poesia intitolata «Verses supposed to be written by Alexander Selkirk, during his solitary abode in the Island of Juan Fernandez» e ispirata alla celebre vicenda del marinaio scozzese Alexander Selkirk, che fornì il soggetto al più noto romanzo di Daniel Defoe (cfr. il nostro articolo: «Quando la realtà supera la fantasia: la storia del vero Robinson, naufrago dimenticato», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 24/11/2011).

Ha osservato Hervé Carrier nei suoi «Saggi di sociologia religiosa» (in: Hervé Carrier ed Émile Pin, «Essais de sociologie religieuse», Paris, Spes, 1967; traduzione dal francese Gianni Comitini, Roma, Veritas Editrice, 1967, pp. 108-10):

«Ci pare molto significativo notare che il primo sociologo urbano, l’italiano Giovanni Botero (1546-1617), definisce la città per mezzo del suo scopo essenziale cioè la felicità. Botero scrive all’inizio del suo libro: "Le cause della grandezza e della magnificenza delle città":

"Si chiama città una riunione di uomini adunati per vivere felici. E si chiama grandezza di una città, non la dimensione del luogo o la circonferenza delle mura, ma lo moltitudine degli abitanti e la loro potenza".

L’ottimismo urbano di Botero non si spiega soltanto con l’inclinazione naturale degli Italiani verso le gradi città culturali, commerciali e amministrative, che formano in questo paese una rete urbana così caratteristica fra le varie nazioni. Il suo amore per la città non è spiegato dal fatto che sia stato gesuita, e neppure da questo antico paragone fra gli ordini religiosi, secondo cui i figli di san Bernardo preferirebbero le vallate, i figli di san benedetto le montagne, i figli di san Francesco le colline e i figli di sant’Ignazio le grandi città.

"Bernardus valles, monte Benedictus amabat; / Franciscus colles, magnas Ignatius urbes."

Botero era prima di tutto un uomo del Rinascimenti e si unisce esplicitamente ai filosofi sociali di Atene e Roma che vedevano nella "urbs" e nella "polis" la soma della civiltà e del progresso culturale. È ciò che pensavano e che scrivevano i due più prestigiosi scrittori politici dell’antichità greco romana: Aristotele e Cicerone.

Nel primo libro della "Politica"; Aristotele affermava che la città è stata creata in primo luogo per rendere gli uomini veramente uomini; che la città sussiste per renderli felici. L’uomo che trova nella famiglia l’inizio del suo perfezionamento, trova nella città la sua maturità; l’uomo dunque è un animale politico.

Cicerone ragionava allo stesso modo: nei tempi antichi gli uomini vivevano come barbari, disseminati nelle campagne e la loro vita non si distingueva molto da quella delle bestie. A poco a poco essi scoprirono l’arte della vita comunitaria e crearono le prime città, dove appresero le maniere civili e coltivarono le arti liberali. I Romani forse furono i primi a rendersi conto delle "grandi città" e ad esprimere a questo proposito un vero senso della "grandeur". L’ammirazione e la devozione di un Romano per la sua città sono molto bene espresse nel verso di Marziale:

"Terrarum dea gentium, Roma, / Cui par est nihil et nihil secundum" (Ep., XII, 8, 1-2).

Roma è per essi l’idealizzazione stessa della città, con il suo ideale morale di devozione e di virtù antiche; Roma è il prototipo della vita urbanizzata che i Romani vorranno riprodurre su tutte le coste del bacino Mediterraneo.

In altri termini, la città rappresenta l’ideale della vita sociale. I motivi che adducino sono piuttosto di ordine morale, di ordine culturale e di sicurezza; e possiamo aggiungere di ordine religioso, poiché la città antica era propriamente una creazione culturale attorno agli dèi dell’"urbis" e della "polis". Quest’ultimo punto è stato perfettamente messo in luce da Fustel de Coulanges nel suo classico studio "La cité antique" (Parigi, 1864). Fustel de Coulanges scriveva: "Si fondava la città perché fosse il santuario del culto comune. La fondazione della città era dunque sempre un atto religioso".

Lo stesso sentimento di venerazione per la città si ritrova nelle analisi moderne di un Mumford e dei suoi discepoli. Qui, alle considerazioni morali se ne aggiungono altre più esplicitamente sociologiche. "La città, scrive Mumford, è il luogo di concentrazione suprema della potenza e della cultura di una civiltà". La differenza tra il villaggio e la città, egli dice, non è soltanto di ordine fisico (densità, dimensioni), ma d’ordine sociale, cioè risiede nell’intensità delle relazioni, delle comunicazioni e della cooperazione.

La città è il simbolo di una volontà collettiva, di un consenso sociale. La città forma lo spirito dell’uomo ed è a sua volta formata dallo spirito dell’uomo. "La città resta, con il linguaggio, la più grande opera d’arte dell’uomo ("With the language itself, it remain the man’s greatest work of art").

Nelle opere di Mumford non mancano le critiche della città industriale, a volte egli non esita a qualificarla come "Necropolis" o "Tirannopolis". Tuttavia per profonda inclinazione egli considera la città come il luogo per eccellenza della cultura e della felicità collettiva.

Mumford rappresenta una scuola molto particolare fra gli specialisti della città. Il suo modo di vedere umanista e filosofico si avvicina all’antica sociologia urbana dei classici greco-romani. Il tipo di città ideale che egli considera, può essere criticato e non è certamente l’immagine più frequente che i sociologi moderni s fanno della città; tuttavia molti riconoscono oggi la necessità di ritornare ad una concezione non soltanto descrittiva, ma ugualmente normativa della città, se si vogliono comprendere i nuovi fenomeni dell’urbanesimo, e affrontare la sconcertante dispersione delle città che si osserva da alcuni anni.»

Se è vero, come pensava Mumford, che la città è il simbolo d’una volontà collettiva e d’un consenso sociale, è chiaro che la città è il luogo designato della democrazia e di ogni possibile manifestazione della mentalità democratica; e così, se è vero che la democrazia si è ormai imposta non come una ideologia politica fra le altre, ma come la sola compatibile con il progresso e con la dignità dell’uomo (e poco importa che ciò non sia una verità oggettiva, ma l’immagine mitizzata che ella ha elaborato di se stessa, e che vuole esportare in ogni angolo del globo terracqueo, con le buone o con le cattive), ne deriva che solo la città è destinata ad avere un futuro, mentre la campagna, o quel che resta di essa, è destinata, inevitabilmente, a retrocedere al rango di non-luogo, ossia a vedersi retrocessa alla funzione di discarica e di purgatorio designato per tutto quello che non è la città, o di tutto quello che la città, per una ragione o per un’altra, tende a rifiutare.

D’altra parte, abbiamo detto che la campagna non è il contrario della città, ma che entrambe sono l’espressione di un "ecumene" fortemente antropizzato; il contrario di esse, per quello che ancora ne rimane, è la "wilderness", la natura selvaggia, popolata ancora di animali selvatici e ammantata da una vegetazione spontanea. Inutile dire che, in Europa, la "wildeness" è quasi scomparsa: sopravvive in alcuni luoghi remoti della Scandinavia e della Russia settentrionale, mentre le foreste "protette" degli altri Paesi non sono più, per definizione, natura "selvaggia", ma opera dell’uomo, mediante piani di rimboschimento, di reintroduzione di specie animali protette (e precedentemente scomparse, o gravemente minacciate di estinzione), eccetera.

Di "wilderness" si può ancora parlare solo per gli altri continenti e per gli oceani, esclusi i mari interni (Mediterraneo compreso): tenendo conto, però, che perfino il continente "selvaggio" per definizione, l’Antartide, è ormai divenuto meta di frequenti viaggi turistici organizzati, e dunque di inquinamento e squilibrio ecologico; e che perfino l’immensità degli oceani è minacciata dalla plastica e da altri elementi inquinanti ad un livello tale, che forse ha già superato la soglia del non ritorno (cfr. il nostro articolo: «Quel continente di rifiuti in plastica alla deriva nelle acque del Pacifico», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» in data 02/706/2015); senza contare gli effetti del riscaldamento globale e del "buco" nella sfera di ozono, che sono di natura globale e che non fanno alcuna distinzione fra paesi antropizzati e "wilderness".

Il punto, quindi, non è sapere se la città possa continuare a rappresentare l’ideale della vita sociale, ma se la si debba considerare come l’unico luogo ad essa consono e deputato, svalutando tutti gli altri e caricando l’ambiente metropolitano di una specie di responsabilità esclusiva quanto ai valori e alle funzioni della civiltà umana. A partire dalla Rivoluzione industriale, la città ha già rivendicato per se stessa un tale ruolo, non solo trainante, ma unico ed esclusivo: e la fuga dalle campagne, il crescente inurbamento a livello mondiale, misurabile e quantificabile in maniera precisa (basta osservare la crescita demografica esponenziale di alcune megalopoli del Sud della Terra, negli ultimi 100 anni) indicano chiaramente che l’umanità attuale vede la città come il luogo privilegiato e necessario, e la campagna come il non-luogo al quale bisogna sottrarsi, pena la povertà e l’arretratezza. E anche se, negli ultimissimi anni, si è innescato anche un movimento di segno contrario, di spostamento dalla città verso la campagna, non si tratta di un fenomeno che possa controbilanciare l’altro. Quanto agli intellettuali, abituati a suonare il piffero per il vincitore di turno, non si può certo dire che abbiano brillato per originalità o coraggio. E allora, che si può fare?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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