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La verità esiste, è accessibile, è irrinunciabile

La questione della verità non è una questione filosofica, ma è la questione filosofica: senza la verità cade la filosofia, almeno se per filosofia s’intende la ricerca razionale del vero. Ma se il vero non c’è, non si dà, non è umanamente raggiungibile? Chi pensa questo, dovrebbe rinunciare alla filosofia: e di fatto gran parte della sedicente letteratura filosofica della modernità è viziata da questa aporia di fondo: pretende di essere ciò che non è, perché non crede alla verità, o giudica che la verità non sia accessibile all’uomo.

Ma che cos’è il vero, se non cogliere la realtà per quella che è, e formulare un giudizio eguale al dato di fatto del reale? Se un fiore è rosso, io colgo il vero, e dico la verità, affermando che è rosso; mentre non colgo il vero e non dico la verità se affermo che è verde, giallo o di qualsiasi altro colore. Dunque il vero è la realtà dell’essere, e la verità è la piena concordanza fra l’essere e il giudizio che noi formuliamo si di esso. Ne consegue che la verità non solo è possibile, ma è un fatto, e i fatti esistono per definizione: non hanno bisogno che noi li approviamo né, tantomeno, che noi li giudichiamo possibili o impossibili. E la verità è un fatto perché il vero è la realtà dell’essere; sta a noi cogliere, attraverso un retto giudizio, il vero come vero, e affermare che la cosa è come è, e che non è come non è. Possiamo fare questo? Certo che lo possiamo, purché adoperiamo la logica, preferibilmente la logica aletica: perché mentre la logica classica ci dice solo se una cosa è vera o falsa, la logica aletica prende in considerazione anche la categoria della possibilità, e ci aiuta a capire e a chiarire in che modo una cosa è vera o non è vera: ossia come essa è necessariamente vera oppure come è possibilmente vera; e inoltre purché sappiamo servirci del principio d’identità e del principio di non contraddizione.

Se io dico, per esempio, che un mela non è una mela, ma una banana, non dico la verità, ma una menzogna: se dico che sul tavolo potrebbe esserci una mela oppure una banana, allora dico una verità, e più precisamente una verità possibile, vale a dire una verità che va ulteriormente verificata, perché ora come ora non dispongo degli elementi sufficienti e necessari per stabilire come la cosa realmente è. Si capisce allora che tutta o quasi tutta la cultura moderna non è che una guerra incessante contro la verità; non è che un tentativo di cancellare la verità e di sostituire la verità con la sospensione sistematica del giudizio o con l’ammissione di numerose verità che si contraddicono a vicenda, cosa di per sé contraddittoria e quindi intrinsecamente falsa. Alla cultura del nichilismo, la negazione della verità, e del relativismo, l’affermazione di tante verità soggettive, bisogna pertanto sostituire la cultura della verità certa, determinata, precisa, che l’uomo può conoscere perché lo strumento della ragione gli è dato proprio per questo, e non per lamentare l’impossibilità di giungere al vero. Ciò sarebbe intrinsecamente contraddittorio: lo strumento è dato a colui che lo utilizza per compiere l’opera nella quale è impegnato, non per renderla impossibile: e immaginare che la ragione serva soltanto a provare e dimostrare che la verità è impossibile, o irraggiungibile, o che esistono solo delle verità relative e soggettive, equivale a dire che lo strumento della ragione ci è dato non per svolgere la propria funzione, ma per svolgere la funzione opposta a quella che la ragione stessa presuppone: giungere alla comprensione del vero ed escludere mediante il giudizio ciò che è falso.

Tale è la funzione della ragione: per cui bisogna vedere nel cosiddetto pensiero debole, e più in generale nelle filosofia soggettiviste e relativiste della modernità, da Cartesio e da Kant in poi, il trionfo dell’irrazionalità, poiché esse negano in radice, assieme alla metafisica, la possibilità di giungere alla verità oggettiva e si imitano alla verità soggettiva, anzi alle verità soggettive (cogito ergo sum) e a quella fenomenica (il fenomeno invece del noumeno), che è come dire che rinunciano all’idea della verità e introducono la pazzia di un mondo nel quale ogni verità particolare pretende riconoscimenti ed omaggi come se ciascuna di esse rappresentasse un assoluto, il che è una contraddizione in termini.

Scrive san Tommaso d’Aquino nel De Veritate (a.1; traduzione italiana di M. Mamiani, Padova, Editrice Liviana, 1970):

L’anima, poi, esercita la potenza conoscitiva e appetitiva. Ora, il termine "bene" esprime la convenienza di un ente con l’appetito, come vien detto all’inizio dell’"Etica": «Il bene è ciò a cui tutte le cose appetiscono». Mentre il termine "vero" esprime la convenienza di un ente all’intelletto. Ogni conoscenza, pi, si compie per assimilazione del conoscente alla cosa conosciuta, cosicché l’assimilazione è detta causa della conoscenza. Allo stesso modo, la vista conosce i colori, perché si modifica secondo la specie del colore.

Dunque la prima comparazione di un ente all’intelletto è questa: che quell’ente corrisponda all’intelletto. Tale corrispondenza, in cui è determinata formalmente la nozione di vero, viene chiamata "adeguazione della cosa e dell’intelletto". È questo, dunque, ciò che il vero aggiunge all’ente ossia la conformità, o l’adeguazione, della cosa e dell’intelletto. Come si è detto, la conoscenza di una cosa è una conseguenza di questa conformità: in tal modo, dunque, l’entità della cosa precede la nozione della verità, ma la conoscenza è un ceto effetto della verità.

In accordo a quanto detto, quindi, si sono trovate tre definizioni della verità e del vero.

La prima concerne ciò che precede la nozione della verità, e su cui il vero si fonda. Proprio questa è la definizione di Agostino nei "Soliloqui": «il vero è ciò che è»; e di Avicenna nell’undicesimo libro della "Metafisica": «La verità di ciascuna cosa è la proprietà di quell’atto di esistere ("esse"), che è stato assegnato alla cosa"; e di altri così: «La verità è l’indivisione dell’atto di esistere ("esse") e di ciò che è».

La seconda definizione concerne ciò che determina formalmente la nozione di vero. Così Isaac dice che «la verità è l’adeguazione della cosa e dell’intelletto»; e Anselmo nel libro "De Veritate": «La verità è la rettitudine percettibile della sola mente». Questa rettitudine, infatti, significa una certa adeguazione, e concorda con quanto dice il Filosofo nel quarto libro della "Metafisica": definiamo il vero, quando diciamo che è ciò che è, o che non è ciò che non è.

La terza definizione del vero concerne l’effetto che ne consegue. Tale è la definizione di Ilario: «Il vero è ciò che manifesta e dichiara l’esistenza», e di Agostino nel libro "De vera religione": «La verità è ciò per cui si mostra quel che è»; e nello stesso libro: «La verità è ciò quanto a cui giudichiamo riguardo alle cose inferiori».

Splendida, ammirevole chiarezza e trasparenza del pensiero del Dottore angelico, a sua volta modellata sulla logica impeccabile del Maestro di color che sanno: non c’è un enunciato che non sia rigorosamente soppesato e giustificato, non c’è una parola di troppo, un’espressione che sia ridondante o retorica o puramente decorativa. Questa è filosofia: asciutta, limpida, persuasiva, perché perfettamente in accordo con la logica aletica, con il principio d’identità ed il principio di non contraddizione.

Dunque, ricapitolando,

1) il vero è ciò che è;

2) la verità è l’adeguazione, o se si preferisce un vocabolo più semplice la corrispondenza della cosa e dell’intelletto (adaequatio rei et intellectus);

3) la verità consiste nel giudicare conforme alla realtà delle cose: ciò che è, per come è, e ciò che non è, così come non è.

E invece quanti compromessi penosi, quante ipocrisie, quante mezze verità dominano la cultura moderna e il cosiddetto pensiero moderno; quante capriole e doppi e tripli salti mortali per dire e non dire ciò che non si ha il coraggio di esprimere pienamente, e per tacere ciò di cui non si ha il coraggio di parlare. Si direbbe che il pensiero moderno sia preso in ostaggio da mille e mille rimorsi e sensi di colpa, da mille e mille tabù e zone vietate, di fronte alle quali bisogna solamente inchinarsi, perché così vuole la cultura dominante, anche se si tratta di menzogne belle e buone, incredibilmente e spudoratamente spacciate per altrettante verità. E viceversa, quante verità sacrosante restano nella lingua e nella penna, inespresse, perché non si il coraggio di dirle, temendo la reazione delle masse, a loro volta istupidite e manipolate dall’ideologia del politicamente corretto.

Il guaio è che un mondo senza verità è qualcosa di simile a un unico, gigantesco manicomio, o se si preferisce, a una nave dei folli, sulla quale si balla e si canta, mentre la nave va alla deriva e le correnti la trascinano verso gli scogli e l’inevitabile naufragio. Somiglia anche, il mondo moderno, ad un carcere, ad un immenso campo di concentramento, perché dove manca la verità, gli uomini non sono affatto liberi, anche se credono di esserlo e vien fatto loro credere di esserlo, ma sono schiavi, così come ammonisce Gesù Cristo (Gv, 8,31-36):

31 Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; 32 conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». 33 Gli risposero: «Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?». 34 Gesù rispose: «In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. 35 Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre; 36 se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero.

Ecco dunque che quei filosofi che da anni sostengono l’agnosticismo della ragione, ossia che sostengono che la ragione non serve ad affermare o a negare la verità, ma solo ad esprimere degli enunciati che non siano contraddittori, senza entrare nella questione della loro corrispondenza al vero, ci appaiono per quello che realmente sono; dei cattivi maestri che hanno preparato da tempo le catene della nostra schiavitù. Da ultimo, alcuni di essi hanno definitivamente gettato la maschera e si sono realmente mostrati per ciò che sono, anche se il pubblico, disabituato a pensare secondo verità, pare non rendersene conto e non ne trae le debite conclusioni. Quando Umberto Galimberti, ad esempio, afferma con arroganza che la libertà non esiste, ma esiste, semmai, solo una certa idea della libertà, mostra la sua natura di filosofo funzionale a un sistema politico, economico e culturale che detesta la verità, perché vuole tenere nella schiavitù della menzogna i cittadini, retrocessi a gregge bovino, incapace di giudicar da sé e scegliere liberamente il proprio destino. E quando Massimo Cacciari ha un soprassalto di dignità filosofica e dichiara che le imposizioni del governo sono illegittime ed esorbitanti rispetto ai pericoli della situazione reale, ma poi fa prontamente retromarcia e dichiara che il cittadino deve inchinarsi davanti alla legge, anche se si tratta di una legge sbagliata, perché le leggi dello Stato vanno obbedite e non contestate, anch’egli mostra di che pasta è realmente fatto: e si noti che un simile concetto è precisamente quello che lui e la sua parte ideologica hanno sempre duramente criticato contro quanti affermavano, dopo la caduta dei totalitarismi novecenteschi, di non aver fatto nulla di moralmente censurabile allorché si limitavano ad obbedire alle leggi e alle disposizioni dei governi. E incautamente ha citato Socrate, come esempio di filosofo che s’inchina alla legge per quanto essa sia ingiusta, anche quando tale legge lo condanna a morte. Peccato non si sia ricordato dell’Antigone di Sofocle, già che aveva voglia di citare i greci: Antigone che, davanti alla crudeltà di una legge che vieta di dare sepoltura ai morti, sfida la legge per rendere le estreme onoranze al fratello Polinice, morto combattendo sotto le mura della sua città, ma in veste di nemico; e fieramente risponde a Creonte, il quale spietatamente la condanna per ciò che fatto:

Perché io, con le mie mani ho rialzato i corpi, li ho lavati, ho sparso le bevande sulle fosse. Oggi, Polinice, ho seppellito il tuo cadavere: ed ecco il frutto. Doveroso rito, direbbe la ragione; certo avessi avuto in me forza di madre, e figli miei, o fosse sposo mio putrido di morte, non avrei tentato questa prova, sfidando il potente. A che logica obbedisce, e a che diritto, quanto dico? Fosse stato lo sposo, a cadermi, trovavo altri. E altri figli, da diverso uomo, se restavo senza figli. Ma padre e madre, uniti, posano nel profondo Nulla, e rifiorire di fratelli non è dato. Ecco il diritto per cui t’ho scelto, t’ho nobilitato, fratello caro: e Creonte lo giudica colpa, e scatto assurdo.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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