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18 Settembre 2022Oggi è di moda rivendicare la qualifica di scienza pressoché a qualsiasi ambito dello scibile umano, in particolare alle cosiddette scienze dello spirito (dal tedesco Geisteswissenschaften, espressione introdotta da Wilhelm Dilthey nel 1883) e dunque per la filologia, l’economia politica, il diritto; e magari (perché no?) anche per le cosiddette scienze esoteriche o scienze occulte, come la magia, l’alchimia, l’astrologia, la negromanzia, lo spiritismo e via dicendo. Naturalmente anche gli storici, anzi, gli storici prima e più di tutti gli altri, hanno rivendicato per la loro disciplina questo titolo che, a quanto pare, conferisce automaticamente un attestato di nobiltà, per quanto recente e un po’ dubbia, come nel caso al villan rifatto che si compra a peso d’oro il blasone ed il titolo nobiliare, onde pavoneggiarsene nelle occasioni mondane, accanto agli esponenti della più antica e solida aristocrazia.
E su che cosa, esattamente, si basa la pretesa di molti storici, o meglio ormai di quasi tutti gli storici (gli ultimi originali che non ci tenevano affatto, come Johan Huizinga o Heinrich Wolfflin, o anche, per un altro verso, Victor von Hagen, appartengono a una generazione scomparsa, quasi ad un’altra era geologica) di essere anch’essi, dopotutto, e fatte le debite precisazioni, degli scienziati? A ben guardare la ragione è una sola: che essi studiano i fatti, i nudi fatti; salvo poi, come è ovvio, collegarli e spiegarli con altri fatti, sviluppando idee e ragionamenti, istituendo collegamenti e confronti, infine formulando dei giudizi. Affermando che essi studiano i fatti, gli storici sembrano porsi su un terreno concettualmente simile a quello su cui si muovono il chimico, il fisico o il biologo, dal momento che anche la chimica, la fisica e la biologia si occupano di fatti, cioè di quantità discrete, circoscritte, specifiche, ben individuate o individuabili, che possono essere isolate quanto basta per studiarle senza farsi confondere o distrarre da altri fatti, i quali magari sono contigui e perfino mescolati ad esse, ma che vanno espunti dall’orizzonte della ricerca, in omaggio alla norma fondamentale della scienza moderna: la specializzazione, il rifiuto di estendere indebitamente i confini del proprio oggetto. Anche da ciò si vede come il padre della modernità è Guglielmo di Ockham, col suo celebre "rasoio": non bisogna moltiplicare gli enti senza necessità; come se il reale aspettasse da noi, dal soggetto, di adeguarsi al pensiero, quasi che noi fossimo Dio e sapessimo cosa deve esistere e cosa no.
Dunque, i fatti. Dateci i nudi fatti, dicono gli storici, e noi vi daremo la giusta chiave di lettura delle vicende umane. Ora, a parte che la conoscenza dei fatti è come la realtà dei mattoni, senza i quali non si può costruire la casa, ma che sono solamente la condizione minima indispensabile affinché la casa possa essere costruita, mentre resta da verificare se c’è chi sa come posarli l’uno sull’altro fino a costruire l’edifico completo, rimane da vedere un po’ più da vicino cosa siano questi famosi fatti; se siano proprio così "nudi" come si pretende; se, insomma, siano auto-evidenti e si presentino in maniera tale da venire riconosciuti e interpretati alla stregua delle quantità discrete con le quali si confrontano gli scienziati. Potrebbe accadere, infatti – sorpresa! – che, visti da vicino, i fatti non spicchino entro la cornice del quadro della realtà percepibile in modo così netto da poter essere circoscritti ed isolati, così da fornire i chiarimenti e le spiegazioni dei quali lo storico va alla ricerca, bensì da apparire a loro volta bisognosi di essere interpretarti e chiariti, e in definitiva da non offrire alcuna spiegazione ai problemi coi quali è alle prese lo storico, ma da costituire un problema essi stessi. E che problema! Se i fatti non sono così chiari ed evidenti come si crede, su che cosa poggerà la storia, la storia come conoscenza oggettiva, per non dire della pretesa degli storici di essere equiparati senz’altro agli scienziati?
Per tentare di trovare una risposta, partiamo da alcune riflessioni dello storico americano Carl Lotus Becker (1873-1945), svolte nel corso di una conferenza del 1926 intitolata Che cosa sono i fatti storici? (titolo originale: What are Historical Facts), pubblicata postuma nel 1955 su Western Political Quarterly (in: C. L. Becker, Storiografia e politica, a cura di Vittorio de Caprariis, Venezia, Neri Pozza Editore, 1962, pp. 133-136):
Quando qualcuno pronuncia la parola "fatti" tutti siamo disposti a fargli credito: quel termine ci dà, infatti, come un senso di stabilità. Sappiamo dove siamo, quando, come usa dire, ci atteniamo ai fatti: ad esempio, quando ci teniamo ai fatti della struttura dell’atomo o all’incredibile movimento dell’elettrone che salta da un’orbita a un’altra. Con la storia accade esattamente la stessa cosa: gli stortici si sentono sicuri solo quando si tengono ai fatti. In effetti, noi parliamo dei "duri fatti", dei "freddi fatti", dell’incapacità a mettere in evidenza i fatti, della necessità di fondare una narrazione su "una solida base di fatti". E, a forza di parlare a questo modo, i fatti della storia finiscono con l’apparire qualcosa di solido, di sostanzioso, come le cose materiali (intendo ciò nel senso abituale del termine, e non nel senso in cui si dice: "una serie di eventi nell’etere"), come qualcosa che possiede una forma definita ed un contorno chiaro e preciso, come i mattoni o le assi, insomma. E ci è agevole, allora, dipingere lo stoico come un uomo che incespica ed urta col piede contro i duri fatti, di cui non sì’è accorto. Naturalmente, questo è affar suo, è un rischio che non può non affrontare, dal momento che il suo mestiere è proprio quello di scavar fuori fati e di ammucchiarli in modo che qualcuno possa usarli. Questo qualcuno può anche essere egli stesso; comunque è suo compito ordinarli in modo tale, che tutti, anche sociologi ed economisti, possano facilmente servirsene per qualche loro lavoro costruttivo.
Questi (magari con un po’ di esagerazione: ma non tanta!) sono i connotati abituali dell’espressione "fatti storici", così come è usata dagli studiosi di storia, e da tanti altri. Orbene, quando noi troviamo una parola che non ci è del tutto familiare, ci sembra utile cercarla nei dizionari, per vedere che significato le hanno attribuito altri. Ma quando ci capita di dover usare frequentemente una parola con cui tutti hanno dimestichezza — prole come "causa", "libertà", "progresso", "governo" — quando ci capita di dover usare parole cosiffatte e che tutti comprendono benissimo, la cosa pi saggia da fare mi sembra di concedesi il beneficio del tempo e di rifletterci su. Il risultato può essere addirittura stupefacente: poiché il più spesso ci si avvede di aver parlato di suoni della voce, invece che di cose reali. Anche l’espressione "fatto storico" rientra in questa categoria: e mi sembra che sarebbe il caso che almeno noi storici ci riflettessimo su, pi di quanto non abbiamo fatto finora. Per il momento, dunque, lascio da parte lo storico che si muove nel passato a far provvista di fatti, e preferisco indagare se il fatto storico è veramente così fermo e stabile come di solito si suppone. E ai fini di tale indagine porrò tre domande, molto semplici, facendo bene attenzione che siano domande a cui posso promettere di dare una risposta. Che cos’è il fatto storico? Deve lo si trova? Quando un fatto è un fatto storico? E consentitemi di richiamare la vostra attenzione su un punto: ho detto È, e non ERA. Assumo, infatti, come pacifico che se siamo interessati, ad esempio, al fatto "Magna Carta", lo siamo per uno scopo nostro, e non per uno scopo di quel fatto; e dal momento che viviamo nel nostro tempo e non nel 1215, dobbiamo, di necessità, essere interessati a ciò che la "Magna Carta" È, e non a ciò che essa ERA.
Innanzi tutto dunque: cos’è un fatto storico? Prendiamo un fatto, il più semplice di quelli che gli storici conoscono: «nell’anno 49 avanti Cristo Cesare attraversò il Rubicone». Questo è un fatto che tutti conoscono e che ha evidentemente qualche importanza, dal momento che è ricordato in tutti i libri sul grande Cesare. Ma è, esso, veramente così semplice come sembra? Ed ha quel contorno chiaro e definito, che attribuiamo di solito ai fatti storici? Quando diciamo che Cesare attraversò il Rubicone, non intendiamo, naturalmente, che lo fece da solo, ma che l’attraversò con tutto il suo esercito. Il Rubicone, poi, è un piccolo fiume, e non so esattamente quanto tempo fu necessario perché l’esercito di Cesare l’attraversasse: è certo, però, che il fatto di attraversarlo fu accompagnato da molti altri fatti, molte parole e molti pensieri di molti uomini. Il che vuol dire che il semplice fatto di Cesare che attraversa il Rubicone si scompone in migliaia di fatti minori: se qualcuno fosse capace di conoscere e riferire tutti questi fatti, ha osservato James Joyce, sarebbe certamente necessario un libro di 794 pagine per raccontare il semplice episodio di Cesare che attraversa il Rubicone. Il fatto semplice, dunque, si rivela tutt’altro che semplice: ciò che è semplice è la formula che adoperiamo, la quale è una formula sintetica che racchiude in sé migliaia di fatti.
Comunque, Cesare varcò il Rubicone. Ma che vorrà dire ciò? Tanti altri hanno attraversato quel fiume! Perché dare tanto credito a Cesare? Perché per duemila anni il mondo ha fatto tesoro di quel semplice fatto che nel 49 avanti Cristo Cesare varcò il Rubicone?Se io, come storico, non ho niente da dare a voi se non questo fatto preso per sé, col suo contorno ben definito, senza frange e connessioni, devo anche aggiungere, se sono una persona onesta, per quale ragione non v’è nulla da dire intorno ad esso. La verità, tuttavia, è che quel semplice fatto HA le sue connessioni, ed è per questo che l’umanità ne ha fatto tesoro per duemila anni. Esso è legato da questi nessi ad innumerevoli altri fatti, cosicché acquista qualche significato solo quando perde il suo contorno ben definito, quando è considerato nel complesso contesto di circostanze che l’hanno fatto esistere.
Queste osservazioni ci sembrano condivisibili, e a ciò si aggiunga che l’Autore ha scelto, a titolo di esempio, un fatto veramente "nudo" e semplicissimo (almeno in apparenza): l’attraversamento del Rubicone da parte di Giulio Cesare. Ma lo storico, di solito, ha a che fare con fatti molto, ma molto più complessi; e inoltre non lavora solo coi fatti, ma con situazioni complessive ed estremamente articolate, che richiedono addirittura una chiave di lettura molteplice e pluridisciplinare: non solo storica in senso stretto, ma anche filosofica, economica, scientifica, religiosa, artistica. Si pensi a eventi come la Rivoluzione scientifica del XVII secolo, o la Rivoluzione industriale del XVIII e XIX secolo; oppure al tramonto del paganesimo e all’ascesa del cristianesimo nel tardo Impero Romano; oppure alle grandi scoperte geografiche del XV e XVI secolo; o ancora al mutamento del gusto letterario e dello stile architettonico avvenuto nel corso della tarda antichità e agli albori dell’età di mezzo.
Un altro tipo di situazione è quando lo storico si trova di fronte a quello che, secondo i criteri e il giudizio della storiografia moderna, è stato un grande evento, un evento di svolta addirittura epocale; ma che, all’esame spassionato delle fonti, risulta essere "passato" pressoché inosservato dai contemporanei, i quali non avevano la prospettiva sufficiente a rendersi conto della sua reale portata. Tale è stata, ad esempio, la fine dell’Impero Romano di Occidente: quella che è stata chiamata la caduta senza rumore. Ora, l’Impero romano non era solo un impero; era, nel mondo antico – beninteso all’interno dei confini del mondo allora conosciuto dagli occidentali – quasi tutto il mondo. La sua caduta, pertanto, non segnava solamente la fine di una entità statale fra le altre, ma la fine della civiltà stessa, la fine di qualunque prospettiva intelligibile di civiltà; impossibile anche solo immaginare che la civiltà potesse sopravvivere prendendo altre strade. Al tempo stesso, la deposizione di Romolo Augusto, nel 476, da parte del barbaro Odoacre, non seguita dall’elezione di un atro imperatore fantoccio, ma anzi dalla restituzione delle insegne imperiali al sovrano d’Oriente, Zenone, a significare che un solo imperatore d’ora in poi era sufficiente, non fece particolare impressione sulla gente. Ne avevano fatta molto di più i tre "sacchi" di Roma, benché questa da tempo non fosse più la capitale politica: quello dei Visigoti di Alarico nel 410, quello dei Vandali di Genserico nel 455 e quello dell’esercito di Ricimero, un generale nominalmente romano insorto contro Antemio, l’imperatore legittimo, nel 472. Ma quando il giovane Romolo, chiamato per dileggio augustolo, cioè «il piccolo Augusto», venne deposto, e Odoacre fu così generoso, o così politicamente astuto, da risparmiargli la vita, la gente praticamente non se ne accorse o, se lo fece, risolse la cosa con un’alzata di spalle. Tanto, quel fatto in se stesso non cambiava proprio niente nella sua vita di tutti i giorni, che nel complesso era e restava quanto mai difficile e incerta per tutti.
Ha scritto Charles Dufay nel volume L’eredità di Roma (Ginevra, Edizioni Ferni, 1974, pp. 8-9):
È un fatto che mai l’uomo visse in tempi di maggior confusione incertezza, di maggiori contraddizioni e controsensi. Atterriti per lo sfacelo progressivo dell’impero, tremebondi per il sospetto di star vivendo la fine del mondo, quello che gli Stoici chiamavano il "Grande Anno" e i Cristiani il ritorno del Cristo giudicante, questi uomini del V secolo non si accorsero poi che l’Impero, almeno in Occidente, era finito davvero. Il 76, quella data che per noi costituisce un crinale grandioso, un evento fondamentale per intendere e classificare il tempo storico, quella data che segna la fine di una storia millenaria e ne apre un’altra destinata a durare per un altro millennio, non significò assolutamente nulla agli occhi dei contemporanei. La deposizione di Romolo Augustolo e la sua manata sostituzione con un altro imperatore in Occidente passò come un episodio quasi normale, uno dei tanti, e neppure nuovo; un episodio, in ogni caso, transitorio. Roma era in basso, certamente; forse non aveva mai toccato così duramente il fondo da quando era iniziata la sua fatale decadenza. Nessuno, però, pensò che fosse morta. Essa dormiva, per una breve pausa, ma si sarebbe destata presto e forse avrebbe cominciato una nuova ascesa, una grande rinascita.
Quegli uomini stavano vivendo l’evento capitale dell’evo antico, l’evento che avrebbe ispirato amare meditazioni per varo secoli e fatto scorrere, ai nostri moderni studiosi, fiumi d’inchiostro, e non se ne accorgevamo, anch0’essi addormentati e accecati nella luce ancora abbagliante dell’idea di Roma immortale.
In una prospettiva filosofica più specifica, bisogna chiedersi — e fra i moderni è stato Wilhelm Dilthey a chiederselo con maggiore chiarezza e coerenza — quanto dei fatti, in questo caso del passato, appartiene alla realtà oggettiva e quanto, invece, inevitabilmente è un prodotto della nostra mente: perché una netta distinzione tra la sfera oggettiva del conoscere ciò che è esterno alla coscienza, e la sfera, almeno parzialmente soggettiva, del conoscere attraverso la coscienza e perciò al suo interno, è pressoché impossibile. Un po’ come G. B. Vico prima di lui, Dilthey ha visto che una cosa è spiegare (erklären) e un’altra è comprendere (verstehen); che la conoscenza di qualsiasi fatto implica, e di solito segue, il comprendere se stessa da parte della coscienza; e che mentre i fatti naturali sono estranei alla coscienza dell’osservatore e richiedono un metodo di studio puramente intellettuale, quelli umani, e dunque anche quelli storici, presuppongono l’unità del conoscere e della coscienza e si rivelano coinvolgendo tutto l’insieme del soggetto conoscente: intelletto, volontà, intuizione, ricordi, fantasia. Ci manca lo spazio per approfondire questa importante intuizione — ci riserviamo di farlo in altra sede; per intanto, osserviamo che lo sdoppiamento dell’atto conoscitivo in qualcosa di "esterno" e qualcosa d’interiore è tipico della filosofia moderna, in particolare dalla distinzione di Cartesio fra la res cogitans e la res extensa e, più tardi, della distinzione di Locke fra qualità primarie e qualità secondarie delle cose, che ha portato Berkeley a ridurre le cose a idee, e Hume a sciogliere anche le idee, mettendo in dubbio l’esistenza di un io o centro regolatore della coscienza stessa, ridotta a una semplice ipotesi o "abitudine" usata a scopo puramente pratico.
Sia come sia, dovremmo andarci piano quando affermiamo, credendo con ciò di porci su un terreno solidamente oggettivo, che la storia si basa sulla conoscenza dei fatti, dei nudi fatti, dei semplici fatti. Chi decide cosa è un fatto? E quale effettiva conoscenza possiamo avere di un fatto accaduto a qualcun altro, nel passato, e che è giunto sino a noi attraverso la tradizione di altri io, non solo interessati a darci una certa versione di essi, ma oggettivamente impotenti a coglierli nella loro univocità ed essenzialità?
Bisogna dunque ridimensionare le pretese dello storico, non diciamo a equiparasi ad uno scienziato della natura, ma anche solo a conoscere e spiegare il passato in maniera perfettamente oggettiva, o, comunque, sicuramente soddisfacente. E questo non per il gusto di relativizzare ogni cosa, ma per essere cosciente che altro è il mondo, altro è la nostra coscienza: la quale è uno strumento di conoscenza strutturalmente limitato e imperfetto, specie quando si trova alle prese con i fatti del passato. In verità, la coscienza trova difficile anche solo separare un qualsiasi fatto, non solo passato ma anche presente, da tutti gli altri fatti, sia esterni che interni alla coscienza, i quali soltanto lo rendono intelligibile. Perché il fatto in se stesso, esaminato singolarmente (come voleva Husserl nella sua epoché), si rivela misterioso e indecifrabile, come un oggetto osservato tenendolo troppo vicino agli occhi: per riconoscerlo, è necessaria una certa prospettiva, e quindi è indispensabile una distanza adeguata.
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