
Di notte, le forze del male camminano su piedi umani
3 Dicembre 2018
Ci serve una medicina che guarisca oltre che curare
4 Dicembre 2018C’è un malinteso dal quale occorre liberarsi: che la ricerca del vero sia cosa del tutto slegata e indipendente dalla ricerca del bene. Il vero e il bene sono due facce della stessa medaglia: sono le due facce dell’essere. È vero ciò che è bene ed è bene ciò che è vero. Si faccia attenzione a non confondere questa affermazione con il motto di Hegel (e di Croce): tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale. C’è una profonda differenza. Qui non diciamo né "razionale", né "reale"; ma diciamo: ciò che è vero e ciò che è bene. Ora, se il vero è bene, la ricerca del vero non può essere male, a meno che sia erroneamente impostata: ed è il caso di quasi tutta la filosofia moderna.
Il pensiero moderno nasce da una concezione erronea della verità: ritiene che essa sia slegata dal bene, che essa sia, per così dire, neutra. Solo così si spiegano l’indifferenza e l’impassibilità con le quali i pensatori moderni hanno seminato ovunque tristezza, angoscia, disperazione, affermando che la verità non esiste, o che è inconoscibile, o che essa sfocia in una desolante scoperta: che nulla ha un senso, che tutto è inutile, folle o doloroso, e che nessuna meta è destinata agli uomini, tranne il morire e scomparire nel nulla. Perciò il pensiero moderno è, in gran parte, un cattivo pensiero, e la filosofia moderna si è trasformata da strumento per cercare la verità in strumento per spingere gli uomini nell’abisso della desolazione; in un esercizio speculativo disumano, diretto contro la vita, la speranza e la fiducia nel domani. Non meraviglia perciò che gli uomini moderni (o meglio, i figli della civiltà moderna, vale a dire gli occidentali) siano attanagliati e paralizzati da un orrore nichilista nei confronti della vita; che nelle società occidentali sia in atto un crollo demografico; che in esse prosperino e si diffondano sempre più degli stili di vita che vanno nella direzione contraria al bene, sia inteso in senso individuale che collettivo. Ma se se la ricerca del vero non sfocia nel bene, che senso ha? Il bene non è mai nemico del bene: mai. Se le analisi cliniche, ad esempio, rivelano la presenza di un tumore nell’organismo, ciò è senz’altro un bene, perché consente a quell’individuo di sottoporsi a delle terapie. E se è ormai troppo tardi, perché le analisi sono state tardive – se la ricerca del vero non si è svolta come avrebbe dovuto — ciò è ancora e sempre un bene, perché darà a quell’individuo la possibilità di porsi nella giusta disposizione di spirito, e di lasciare le disposizioni necessarie anche sul versante della vita pratica, ad esempio stabilendo l’eredità destinata ai suoi cari ed evitando che possano sorgere incomprensioni e contese fra di loro. Invece gli scrittori, i pensatori e gli artisti moderni hanno seguito un’altra strada: hanno dipinto la realtà come brutta e la vita come un male, dopo di che si sono guardati bene dal fornire indicazioni positive, si son lavati le mani davanti alle conseguenze delle loro affermazioni. È come se avessero pensato: Se la gente piomberà nella disperazione leggendo le nostre opere o ascoltando i nostri discorsi, ciò non ci riguarda, non è affar nostro; anzi, dovrebbero ringraziarci, perché abbiamo mostrato loro come stanno in realtà le cose.
Eppure, su quali basi essi hanno affermato che il reale è brutto e che la vita è un male? Su basi puramente emotive, come nel caso di Leopardi, o di una logica fallace, come in quello di Schopenhauer. A cominciare dalla pretesa di negare la verità come principio universale del conoscere: pretesa assai curiosa, dal momento che prevede, chi sa per quale ragione, una vistosa eccezione: quella di colui che afferma una cosa del genere. È come se costui dicesse: La verità non esiste; io, però, che vi dico una tal cosa, sto dicendo il vero. Perché mai si dovrebbe credere a un simile negatore della verità? Per quale ragione dovremmo fargli credito di essere veritiero, dopo che lui stesso ci ha assicurati che la verità non esiste, e dunque che non si può mai sapere se ci si trova in presenza del vero o del falso? Allo stesso modo, il pensiero moderno si è sprecato nel ripetere, fino all’ossessione, che il vero è brutto, che la vita non merita di essere vissuta, che non esiste alcuno scopo, alcun fine, né nella natura, né nell’esistenza dell’uomo. Ma in tal caso, che cosa pensare di questi araldi della distruzione? Se il vero è brutto, come mai vi indugiano tanto volentieri? Se la vita non ha uno scopo, come mai si pongono lo scopo di denunciarne l’inutilità? Se tutto è privo di significato, che cosa li stimola a darsi tanto da fare per convincere il pubblico che nulla ha senso? I casi sono due: o li solletica la vanità di essere comunque al centro dell’attenzione, magari dicendo cose scandalose e traumatizzanti; oppure godono intensamente, come i masochisti, di evocare scenari da incubo e di sguazzare nella palude di un mondo orribile, in piena decomposizione. Metà masochisti e metà necrofili; ma sempre con una punta, e anche più di una punta, di sottile civetteria. È la malattia del romanticismo, dalla quale la modernità non è mai guarita, anzi, che l’ha sempre contrassegnata: da Petrarca a Shakespeare, da Foscolo a Corazzini, da Heidegger a Eco (ci si perdoni l’accostamento di nomi di non pari valore intellettuale), non si esce dal cerchio stregato: Guardatemi come sono bello e quanto soffro; guardate come sono bello perché soffro; e sto soffrendo perché il mondo è male, la vita fa schifo e voi tutti non siete nulla, non valete nulla; io solo ha capito ogni cosa. Dunque, applauditemi.
In che modo, poi, il pensiero moderno sia riuscito a legare fra loro questi due elementi di per sé eterogenei, per non dire inconciliabili: un estremo pessimismo intellettuale e un radicale nichilismo esistenziale, con un altrettanto smodato ottimismo scientista e un ostinato, per non dire cieco, affidamento alle meraviglie del progresso, specie tecnologico, è un’altra questione, che meriterebbe un discorso a parte. Ma il fatto è quello: nella modernità convivono due anime, contrarie eppure complementari: il disprezzo del vero e la fede irrazionale in una scienza che dovrebbe risolvere tutti i problemi dell’esistenza, una scienza materialista e meccanicista, senz’anima perché totalmente incapace di compassione. E infatti è incapace di compassione perché pensa che il vero sia distaccato dal bene, perciò non si cura del male che produce, dal momento che lo ritiene il giusto "prezzo" da pagare per il progredire della conoscenza, e quindi anche delle possibilità umane. Sempre intese in un significato puramente materiale: poter fare più cose in meno tempo; poter viaggiare più in fretta; poter comunicare con più persone e sempre più rapidamente e agevolmente (non importa se non si ha nulla da dire: ciò è solo un dettaglio insignificante); poter avere dei figli oltre l’età e oltre i modi voluti dalla natura; poter colonizzare altri pianeti, dopo che avremo reso del tutto inabitabile il nostro.
Un pensatore che, non a caso, è stato tagliato fuori dal grande circuito della cultura dominante, sempre politicamente corretta nel suo inossidabile progressismo modernizzatore, è quella di Giuseppe Giacomo Nastri, dal cui notevole volume Corruzione della filosofia. Il pensiero moderno come anti-religione riportiamo il seguente passaggio (Roma, Armando Editore, 2006, pp. 363-366):
Ci sono stati dei filosofi per negare tutto, o quasi: la realtà esterna (Schopenhauer), la realtà del soggetto (Kant), la morale (Freud), la libertà (di nuovo Schopenhauer), la validità oggettiva della stessa conoscenza (Kant). Forse la sola cosa che non si è negata è la conoscenza almeno come rappresentazione (soggettiva?, fenomenica?). Bisogna però dubitare a tutti i costi dell’argomento troppo spesso invocato in favore dell’uno o dell’altro filosofo: "Era un grande!". Ma di quale grandezza si tratta? Di Heidegger, per esempio, si può lodare il carattere evasivo, magnetico, intellettualistico, inafferrabile, ambiguo, che ha tanto affascinato Hannah Arendt, e forse anche una certa insincerità. (…) Anna Freud vanta l’invenzione della psicanalisi anche se il prezzo è stato il mancato riconoscimento di una sofferenza reale. E che poeta fu Nietzsche s’intende dire, che nitidezza in Schopenhauer, nell’esprimere la forza del vitalismo istintivo! Che originalità e che potenza nella logica hegeliana della negazione! Che profondità nel soggettivismo sia pure incompleto di Kant e di Cartesio, e che energia nella rivolta liberatoria di Lutero! Alcuni filosofi ebbero del talento letterario, altri manifestarono con carisma le loro idee, altri riuscirono a legare concetti in una cascata di contrasti, altri infine furono efficaci nel suscitare lo spirito di rivolta, spesso contro la Chiesa cattolica o almeno contro una buona logica. (…)
Certo, per giungere dove si è giunti, sono occorsi i toni saggi, pacati, soffusi, se non melliflui, d’una moralità che conserva ancora molto di ciò che è umanamente proponibile nella religione cristiana. Infatti, tenendo conto del terreno culturale europeo, profondamente segnato dal cristianesimo, sono stati adottati i modi più adatti per giungere a misconoscere i doni di Dio. La rivolta è un fatto del cuore, ma passa attraverso l’intelligenza che nega o’essere, la sua bontà fondamentale e la stessa logica. (…)
Certe etiche dell’autonomia, ponendo l’accento sulla noia, la routine, la sofferenza, la disperazione e tutti ciò che di deprimente o di spaventoso fa inevitabilmente parte del destino umano, giungano insidiosamente a svuotare del loro senso i buoni sentimenti e ad esasperare i meno buoni. Anche chi ha la viva coscienza del male nel mondo, non può concepirlo come tale se non in quanto esso coarta e colpisce ciò che è bello e buono… sennò che male sarebbe? Un pensiero deviato aggrava la devastazione e colpisce la vita ad un secondo grado, per così dire, facendo della sofferenza un argomento per negare all’esistenza ogni senso, valore e verità; anzi per negare addirittura l’esistenza, in un tripudio nichilista di rinvii, di riduzioni e di disperazione. L’azione più efficace contro la religione non sta dunque nelle persecuzioni o vessazioni, ma nel colpire la credibilità degli stessi dogmi della fede. Gli argomenti utilizzati non sono tuttavia dei più solidi. Ed è proprio il nichilismo, a cui approda questa filosofia anticristiana, l’argomento più convincente per respingerla, con il ribadire la naturale positività dell’essere sino al suo fondamento, Dio che, in quanto Trinità, è Amore. La testimonianza che il buon Dio ci chiede oggi è proprio quella della fedeltà de piccolo numero, in un contesto intellettuale informativo di grandissima confusione. È chiaro e noto a tutti che la teologia, tanto nella Chiesa greca che latina, ha ampiamente utilizzato gli apporti del pensiero antico battezzandolo, se così si può dire: si veda il caso del platonismo e dell’aristotelismo, quali che ne siano per altro verso i limiti rispettivi. La teologia ortodossa ha saputo mantenere i due poli della grazia e della ragione, mentre la cultura che ha le sue radici nella Riforma ha abbandonato ogni metafisica, ogni argomento naturale in materia di religione e di morale per assumere un tono mistico o profetico. Non soltanto non è più dato all’uomo di dimostrare l’esistenza di Dio e di discutere in favore della religione, ma la stessa etica non può più basarsi sulla conoscenza della natura, dell’uomo o di Dio. Per questo non è possibile recuperare la filosofia moderna in teologia, come invece è avvenuto per l’antica. Bisogna allora concludere che la filosofia moderna rappresenta un’inutile intemperanza, un definitivo fallimento? Certamente, sì, se ci si ferma alla chiusura suo soggetto, alla rottura del rapporto tra la morale e la conoscenza, alla costruzione del dubbio, alla rivolta contro la buona logica. No, invece, se essa costituisce una ricerca, visto che, tante volte, dobbiamo affrontare la traversata del deserto per liberarci dai fantasmi che ci tormentano. Non vale però concludere la vita auspicando ulteriori studi, ma occorrerebbe poter dire: "Abbiamo amato non la verità in astratto, ma gli uomini e il creato, in quel Dio che dà ogni vita e ogni senso". Sarebbe del resto ingiusto dichiarare che la filosofia moderna ha avuto uno scopo generalmente distruttivo; anzi questo sarebbe in contrasto con il nostro punto di vista. Infatti, tutti aspirano alla VERITÀ, anche chi dichiara che la verità non esiste pensa di dire il vero. Ogni costruzione intellettuale è proponibile per quel tanto di verità che ci si può trovare, sennò nessuno la prenderebbe in considerazione. Il problema si presenta quando il vero è sapientemente assortito con il falso. Un aspetto penoso della filosofia moderna e della sua ricezione nella cultura contemporanea sta nella scissione tra i due estremi: da un lato l’elevazione della scienza ad un vertice così alto da non aver più bisogno di Dio, dall’altro la valutazione di tutto attraverso la sensibilità nel senso più materiale. Tanto nel caso della verità, quanto nel caso dell’etica, il problema sta nella seduzione dei valori parziali.
Mescolare il vero e il falso, la verità e l’errore: questa, in effetti, è l’ultima e più raffinata seduzione della modernità, che ha in sé qualcosa di diabolico. Ne vediamo un tipico esempio nella deriva dottrinale e pastorale che sta trascinando da tempo la Chiesa cattolica – che è stata, fino a cinquant’anni fa, l’ultimo baluardo di una concezione trascendete fondata sul Vero – verso i lidi sempre mutevoli e inafferrabili del relativismo. Non è vero quel che è vero, ma è vero quel che stabliscono, di volta in volta, in base ai loro progressi, gli studi filologici. Perfino le millenarie parole del Padre Nostro vengono cambiate, in omaggio all’ideologia del progresso. Che vi sia in ciò una vera e propria profanazione, a quanto pare sfugge alla maggioranza dei fedeli: è come se l’attuale inquilino del Vaticano pretendesse di correggere Gesù Cristo, che quelle parole ha insegnato agli Apostoli. Ma no, insorgeranno i suoi sostenitori, egli non pretende di fare una cosa simile: si limita a prendere atto che i filologi sono giunti alla conclusione che quelle parole nascevano da una cattiva traduzione del testo greco del Vangelo. Benissimo: vorrà dire che, d’ora in poi, bisognerà domandare il permesso ai filologi per ogni atto o parola della sacra liturgia. Del resto, è logico: la Tradizione, essendo orale, non conta più nulla, visto che a quei tempi non c’erano i registratori; e quanto alla Scrittura, andiamoci piano, bisogna vedere cosa disse e fece realmente Gesù Cristo: lasciamo che a fare chiarezza siamo gli esperti, i tecnici, cioè i filologi. Cosa volete che ne sappia il popolino: quello, poveretto, ha solo la fede. La vecchietta che ha sempre recitato il Padre Nostro, nel Rosario, con le parole: e non c’indurre in tentazione, va compatita, perché – scherzi dell’ignoranza – si è fidata di quel che le hanno insegnato da bambina. Ma ora bisogna diventare adulti, bisogna crescere; il terzo millennio non vuole più dei fedeli fideisti, vuole dei fedeli adulti e consapevoli, aggiornati e aperti al dialogo e alle novità del mondo moderno. Già; appunto. Come disse Domenico Giuliotti: o i cristiani proclameranno Cristo contro il mondo, oppure il mondo li porterà dietro a sé, contro Cristo. Ed è esattamente quel che sta accadendo ai nostri giorni, sotto i nostri occhi…
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