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Ancora psicanalizzare Kierkegaard

Abbiamo già visto in un precedente articolo come sia facile, e quanto sia sterile, psicanalizzare un filosofo della statura di Søren Kierkegaard per restringerne la portata e minimizzarne il valore d’insegnamento, riducendolo in buona sostanza alla proporzioni di un caso psicopatologico. Il che dà la misera soddisfazione alle menti piccole di aver non solo capito, ma giudicato e liquidato un pensiero tanto più grande di loro, al quale non sono capaci d’innalzarsi e che perciò segretamente invidiano e detestano.

Scriveva Tito Perlini (1931-2013), già docente di Estetica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, nonché esperto della Scuola di Francoforte e autore di diversi saggi sulla teoria psicanalitica, nel suo saggio Kierkegaard (Roma, Ubaldini Editore, 1968, pp. 64-66):

Il risultato ultimo paradossale cui perviene Kierkegaard è che il singolo, per affermasi assolutamente, si autodistrugge. La protesta contro la speculazione astratta, contro lo spirito obiettivo, contro le tendenze spersonalizzatrici della società contemporanea, contro il compromesso borghese-cristiano, arrestandosi impotente di fronte ad una realtà che può solo subire, si proietta nell’immaginario, cerca una compensazione alla propria frustrazione, in una sorta di terra di nessuno, aggrappandosi ad una religiosità selvatica, intransigente, rigoristica, esasperata. L’individuo, gettato ai margini, incapace di stabilire un rapporto plausibile con una società che non lo riconosce, che tende a far ingiuria alla sua unicità imponendogli schemi astratti di comportamento e modi impersonali di vita, si chiude in s, nell’incognito di una interiorità disancorata dal reale, ipertrofica, esaltata, nello sforzo di assolutizzare il proprio essere irrelato, di sancire metafisicamente i morsi della propria coscienza infelice, di elevarla a modello superemo di vita la propria sofferenza. Ma, nella tensione di far di sé un assoluto l’individuo irrelato non può non entrare in mortale contraddizione con se stesso. Lo sforzo maggiore di Kierkegaard dopo la sua rottura con Regina è stato quello di giustificare la propria solitudine, che egli avvertiva come qualcosa di innaturale e di mostruoso, dotandola di un fondamento assoluto, conferendo ad essa un significato religioso. Tutta la sua aspra e risentita meditazione religiosa ci appare come il disperato tentativo di esaltare le proprie sofferenze per lenirne in qualche modo il morso, di mascherarle in fogge più o meno suggestive per renderle almeno in parte accettabili, per familiarizzarsi con esse. Kiekegaard è come una bestia ferita inseguita dai cani. Le sue astuzie non sono che una tecnica di sopravvivenza. La sua corsa procede necessariamente a zig-.zag. Confessarsi è stato per lui un continuo mascherarsi.

Mascherandosi a sé e al mondo, in una sfida continua, non ha fatto altro che giocare a nascondersi. Il suo orgoglio l’ha spinto a tutto tranne che alla pura e semplice, umile e nuda ammissione della propria debolezza ed impotenza, del suo essere inerme di fronte alla sofferenza. Privo di carità verso se stesso, ma anche della durezza necessaria a contemplare allo specchio il proprio povero volto inerme, Kierkegaard in nome della verità non ha fatto altro che incessantemente mascherare la propria sofferenza. Il suo è stato lo sforzo di "estetizzare la sofferenza", neutralizzandola con una continua messinscena teatrale. Kierkegaard s’è impegnato a neutralizzare la sofferenza con la recita della sofferenza. Il suo continuo, esasperato insistere sui motivi dell’angoscia, della disperazione, del nulla, del dolore, della sofferenza, dello scacco, ci rivela un’astuta e sottile forma di esorcismo. Egli ha mirato a difendersi dalla disperazione nominandola di continuo, insistendoci sopra ossessivamente. Ha finito in tal modo per far di sé un personaggio e per godere della propria capacità di giocare con se steso, della propria fredda abilità nell’assumere maschere sempre nuove , moltiplicando con proteiforme destrezza la propria immagine in un vertiginoso scambio di ruoli, proiettandosi in un virtuosistico gioco di specchi. La sua ambiguità, perseguendo un tale gioco, è diventata labirintica ed egli spesso non Ha saputo evitare di perdercisi dentro, non maneggiando più il proprio gioco stesso da padrone. In nome della soggettività-verità s’è perso. Nei meandri di una ambiguità estrema, giocando senza posa con le possibilità, senza mai realmente scegliere, senza uscire dalla cattiva infinità della non-scelta. «Chi non vuole combattere con la realtà, deve combattere con i fantasmi», egli ha scritto una volta. splendida frase che s’attaglia perfettamente a Kierkegaard stesso che per tutta la vita ha giostrato coni fantasmi, perso nei meandri di una tortuosa, contorta, congestionata interiorità, capace di manifestarsi autenticamente, presa nel vortice di una confessione tesa segretamente a non manifestare, ma a nascondere, a dissimulare ed anche a simulare. Kierkegaard è rimasto — nonostante la sua recisa condanna della vita estetica per tutta la vita un esteta. Non ha mai saputo giungere a quella serietà della vita etica cui aspirava. È rimasto intrappolato nell’estetismo che pensava di aver sconfessato e vinto in sé definitivamente. Le ragioni dell’assessore Guglielmo non hanno in lui mai fatto breccia. Incapace di conciliare il singolo con l’universale egli ha tentato di elevare ilo singolo oltre l’universale, di porlo sopra delle normatività etiche e degli obblighi universali. Il suo superamento della sfera etica in quella religiosa ci appare illusorio. Si è trattato, in realtà, di una regressione dall’etico all’estetico. La sua religiosità — per quanti sforzi egli possa aver compiuti in senso contrario — si presenta come una religiosità estetistica, come una sottile forma di estetismo provvisto del sigillo di una dignità teologica. Il suo ascetismo stesso in fondo è una maschera. Aspirando ad una assoluta autenticità, egli è rimasto preso nella morsa dell’inautentico. Mirando alla santità come traguardo ultimo, è rimasto il buffone della propria sofferenza. combattendo ogni forma di evasione, non ha fatto altro che evadere ininterrottamente da se stesso. Tutta la sua opera è una ansiosa fuga da sé.

Che dire? Tutto è spiacevole, tutto è sbagliato in questo modo di accostarsi al pensiero di un filosofo. Sulla curiosità di capire prevale la presunzione di aver già capito, e, quel che è peggio, di poter ridurre quel pensiero al gioco delle reazioni psicologiche di un’anima offensa, insomma di sciogliere la complessità, la ricchezza e la profondità abissale di un’autentica speculazione filosofica nei residui compositi lasciati da un’anima ultraromantica, pur se formalmente ostile al Romanticismo, patologicamente in lotta con se stessa. Dispiace la petulanza e dispiace la sicumera con cui si tranciano giudizi netti e inappellabili, si diagnosticano debolezze e contraddizioni, insomma si pretende di veder chiaro nell’anima di un altro essere umano, quando è già così difficile farlo con la propria.

Il bello è che il volume fa parte di una collana di monografie filosofiche intitolata Che cosa ha veramente detto; ma qui pare che la domanda non sia che cosa ha veramente detto Kierkegaard, ma perché, per quali turbe interiori, per quali complessi e frustrazioni lo ha detto: il che non ci sembra precisamente la stessa cosa.

Ma che cosa rimprovera, il nostro autore, a Kierkegaard, nella sua implacabile requisitoria?

Le accuse sono assai pesanti, delle stroncature senza margini di recupero.

Primo: di aver voluto affermare il singolo in maniera assoluta, col risultato di condurlo ad una auto-distruzione.

Secondo, di aver condotto una rivolta immaginaria allo spirito filisteo, alla società di massa, alla Chiesa conformista e alle filosofie dell’universale, come l’hegelismo, perché, rifiutandole in blocco, non ha potuto fare altro che rifugiarsi in una "terra di nessuno" e, novello eremita, esacerbato da una solitudine che non si confà allo spirito moderno, di aver abbracciato una religiosità aspra, polemica, "estremista".

Terzo, di aver fabbricato artificialmente per l’individuo irrelato, che rifiuta e si sente rifiutato dalle forme della vita moderna, inautentiche e spersonalizzanti, una sorta di realtà parallela e fittizia, nella quale egli campeggia, eroico e assoluto, invitto e invincibile, forte del proprio soffrire e intrepido nella ferma volontà di non piegarsi, di non venire a compromessi. Insomma, di non aver prospettato alcuna soluzione, ma solo una fuga.

Quarto, di aver giocato con gli pseudonimi e con altre forme di travestimento per mascherare il suo vero io, per non far vedere la propria debolezza e la propria sofferenza: e tutto questo solo per orgoglio, finendo per cadere vittima del suo stesso gioco e per smarrire le propri autentiche coordinate interiori.

Quinto, di aver abusato dell’ambiguità per nascondere la propria mancanza di risposte e di soluzioni, fino a perdersi a combattere coi fantasmi.

Sesto, di aver finto di volersi confessare al solo scopo di nascondersi meglio.

Settimo, di essere sempre stato, e rimasto, un esteta, e di non aver mai raggiunto quella serietà di vita alla quale aspirava.

Ottavo, di aver scambiato lui stesso, e fatto scambiare a noi, il suo estetismo esasperato per un salto nella dimensione religiosa, che, invece, non ci sarebbe mai stato.

Nono, la sua aspirazione all’ascetismo è stata una farsa anche quella, più o meno consapevole, una ennesima maschera priva di serietà.

Decimo – e qui il tono si fa acre – di essere stato il buffone della propria sofferenza: la quale certamente era autentica, ma non lo erano le forme e i modi in cui egli l’esprimeva e tentava di razionalizzarla.

Da un punto di vista psicoanalitico, qui c’è già tutto e non vi sarebbe quindi nulla da aggiungere, se non lodare la finezza e la perspicacia dell’analisi e commiserare il destino di Kiekegaard il quale, sprovvisto di simili nozioni, ha consumato tutta la vita nel vano sforzo di chiarire autenticamente a se stesso le ragioni della propria angoscia, e ha preteso di farne una misura generale per l’uomo moderno. Solo che, come nel caso del marxismo, emerge qui l’obiezione fondamentale alla psicanalisi, e in specie all’ambizione psicoanalitica di spiegare il pensiero filosofico: essa non è falsificabile, quindi non ha nulla di scientifico. È impossibile dimostrare che le asserzioni di Perlini sono false: messe una dopo l’altra, anzi, filano via che è un piacere: solo, è impossibile confutarle e respingerle, perché sono totalmente auto-referenziali. Hanno in se stese la garanzia della loro veridicità: tanto ti basti, e più non dimandare. Inoltre, riducendo il pensiero di un filosofico al gioco delle sue tensioni, delle sue dinamiche, delle sue nevrosi personali, ci si risparmia la fatica di doversi confrontare seriamente con le sue idee: lo si liquida come un caso umano, un po’ bizzarro, un po’ patetico, e il discorso è chiuso.

Questa è precisamente la tecnica della spersonalizzazione denunciata da Kierkegaard. Sembra che la critica si accentri su di lui come individuo, come singolo: in realtà, quell’individuo è considerato come rappresentante esemplare di un certo tipo umano. Il tipo malinconico, nervoso, sognatore, solitario e ipersensibile, che non sa adattarsi alla realtà e che fantastica, rifugiandosi in dimensioni immaginarie, ma lo fa con tutti gli strumenti della sua notevole forzosa speculativa, per cui riesce ad ingannare benissimo se stesso e anche gli altri. Non è più Kierkegaard, è il tipo Kierkegaard. Ancora. Ridurre l’uso dei sinonimi e degli alter-ego, insomma delle maschere, a un semplice gioco inventato per confondere le acque, è estremamente riduttivo. Vi sono altrettante buone ragioni per avanzare l’interpretazione opposta, e cioè che quel "gioco" fosse la manifestazione logica e necessaria per dare spazio a una sorta di dialogo interno che Kierkegaard intratteneva costantemente con se stesso, oltre con i suoi interlocutori (e avversari) ideali: innumerevoli volte cita Hegel, per smontarlo, a riprova del fatto che non si è mai chiuso in una bolla solipsistica, nella quale aveva ragione sempre lui perché esisteva lui solo.

Infine sostenere che Kierkegaard non si è mai innalzato alla vera religiosità, perché la sua religiosità è sempre stata estetizzante, è un’affermazione gratuita, che non trova riscontro nei testi. Basta leggere i Discorsi edificanti, o i Pensieri che feriscono alle spalle, o gli articoli de L’Ora contro la Chiesa di Danimarca, per rendersi conto che non v’è nulla di estetizzante in essi, ma che sono scritti con la sofferta semplicità e col dolente nitore di un’anima che ha fatto molta strada, inciampando e rialzandosi, sul cammino irto di spine della vita, e che ha una parola buona da rivolgere ai suoi contemporanei.

Quanto al divenire i buffoni della propria sofferenza, andiamoci piano. La stessa cosa si potrebbe dire, muovendo dalle stesse premesse (balorde), che Dio ci perdoni, di Gesù Cristo: il cristiano autentico soffre sempre, sul modello del divino Maestro: come soffre il principe Myskin ne L’idiota di Dostoevskij; e sempre le sue sofferenze, guardate dall’esterno, cioè da un punto di vista non cristiano, hanno qualcosa di ostentato, di masochista, e perciò quasi di tragicomico, di buffo. Si pensi a come si divertiva il popolaccio pagano allo spettacolo dei martiri cristiani tormentati e uccisi nel circo.

È un problema di prospettiva. Vedere una cosa dall’interno e vederla dall’esterno fa dubitare che si tratti sempre di lei: pare un’altra, del tutto diversa.

Ci vuole più umiltà e meno psicoanalisi.

La psicoanalisi è la quintessenza della superbia intellettuale.

Adoperarla come strumento per capire la filosofia, è come voler modellare la fragile struttura di un cristallo a colpi di piccone…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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