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6 Ottobre 2022Le idee di Hegel sui cattolicesimo sono sparse in numerose opere e discorsi; ma, se si vuole avere un riassunto e un concentrato fatto da lui stesso, che ha anche il maggior valore in quanto risale alla piena maturità intellettuale ed educativa del celebre professore di Berlino – che gli studenti correvano ad ascoltare da ogni parte della Germania e anche fuori, vedendolo non solo come un grande filosofo, ma come un maestro e in un certo senso un riformatore religioso – bisogna leggersi il discorso da lui tenuti all’ateneo della capitale prussiana l’anno prima della morte, e che dunque si può ritenere anche come una sorta di testamento spirituale. Nel 1830, infatti, nel trecentesimo anniversario della Confessione Augustana, pubblicata il 25 giugno 1530, Hegel in qualità di rettore dell’Università di Berlino fu chiamato a tenere un solenne discorso commemorativo, del quale come al solito profittò per ribadire e diffondere la sua concezione di una "superiore unità" cui deve giungere il cristianesimo, al presente diviso al suo interno, grazie a un’interpretazione filosofica di esso (e della quale lui medesimo era, guarda caso, il profeta), tale da condurlo ad un più elevato livello di autocoscienza
Il contenuto di quel discorsoè stato sintetizzato nella celebrativa Vita di Hegel scritta dal suo discepolo — che potremmo definire "centrista", allorché la scuola del maestro, dopo la sua morte, si scisse in una destra e una sinistra — Karl Rosenkranz, a sua volta noto filosofo e pedagogista, docente nelle università di Halle e Königsberg (titolo originale: Georg Wilhelm Friedrich Hegel’s Lieben beschrieben durch Karl Rosenkranz, 1844; traduzione di Remo Bodei, Milano, Mondadori, 1974, pp. 426-428):
Come relatore ufficiale Hegel si trovava nella felice condizione di essere fin dalla giovinezza un luterano convinto: questo lo ebbe a dichiarare in molte occasioni assai chiaramente — persino dalla cattedra — in rapporto soprattutto all’Ultima Cena. (…)
Malgrado l’interiorità luterana profondamente radicata in lui a causa della sua educazione, Hegel evitò nel suo discorso tutto quello che avrebbe potuto mettere in risalto gli elementi specifici del luteranesimo o gettare la minima ombra sulla professione di fede o sull’organizzazione ecclesiastica dei riformati. Come avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che dagli inizi del secolo egli vedeva sia nel protestantesimo che nel cattolicesimo, quali si erano presentati fino ad allora, solo forme unilaterali del cristianesimo, che per mezzo della filosofia avrebbero potuto sollevarsi ad una superiore unità, in modo che l’intuizione oggettiva del cattolicesimo si fondesse nell’assoluta libertà dell’autocoscienza, con l’interiorità soggettiva ed il carattere nostalgico del protestantesimo?
Sottolineò invece con grande enfasi il rapporto fra Riforma e chiesa di Roma.In contrapposizione al Pelagianesimo ipocrita di quest’ultima, esaltò la Confessione augustana come MAGNA CHARTA DEL PROTESTANTESIMO per il suo "sola fides justificat". Descrisse la corruzione della chiesa, provocata dal cattolicesimo papista, nel quindicesimo e nel sedicesimo secolo e la TIRANNIA con la quale essa aveva umiliato la scienza e recato pregiudizio alle coscienze nel campo della libertà confessionale. Descrisse la dilagante immoralità della vita provocata dalla DISTRUZIONE DELLA FAMIGLIA tramite il celibato, la DISTRUZIONE DELL’ATTIVITÀ OPEROSA tramite l’esaltazione della povertà, dell’ozio e della stupida bacchettoneria, della DISTRUZIONE DEL SENSO DI RESPONSABILITÀ tramite un’obbedienza ottusa, che trattava tutti gli uomini come minorenni e nel suo vuoto mentale affidava ai preti la responsabilità delle altrui azioni, ed infine dalla DISTRUZIONE DELLO STATO non solo tramite il disprezzo e la condanna del matrimonio, della proprietà e della autonomia della coscienza e del pensiero, ma anche tramite il non riconoscimento del principe. Con entusiasmo magnificò invece il protestantesimo restauratore dell’eticità della vita familiare, dell’onestà civile, del senso di responsabilità, della libertà di coscienza, dell’unità del divino e dell’umano (quest’ultima conquista si esprimeva secondo lui in forma particolare anche nel fatto che il PRINCIPE di uno Stato protestante è nello stesso tempo il VESCOVO SUPREMO della sua chiesa). Respinse con energia la sciagurata opinione per cui sarebbe errato credere di poter costituire uno Stato stabile senza trasformare in sua intima verità la fede in Dio, come il più consustanziale principio di ogni pensare, di ogni agire e di ogni modo di condursi.
Fin dai banchi del liceo i professori ci hanno atto una testa così per inculcarci la sacra e indiscutibile verità che G. W. F. Hegel è stato un sommo filosofo, uno dei massimi della storia universale del pensiero; che, dopo Kant, nessuno lo eguagliato; che tutto ciò che d’importante ha prodotto la filosofia dopo di lui, come il marxismo, proviene da lui; che, priva della sua luce intellettuale, l’Europa e il mondo sarebbero immersi nelle tenebre dell’oscurantismo e dell’ignoranza; e via di questo passo. Sicché lo studente di filosofia alle prime armi ha l’impressione, ovunque volga lo sguardo, di scorgere onnipresente l’ombra di Hegel, proprio come il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di marte morto, e le stoppie riarse della piana di Catania, nella novella La roba di Giovanni Verga, a forza di sentirsi dire che quei vigneti sterminati erano di Mazzarò, quelle fattorie coi granai enormi erano di Mazzarò, che quegli uliveti folti come un bosco erano di Mazzarò, finiva per credere che ogni cosa fosse di Mazzarò, che tutta la Terra e perfino il Sole che tramontava fossero roba di Mazzarò.
Eppure, nel discorso più solenne pronunciato da Hegel davanti agli studenti dell’Università di Berlino, quando la Germania, in larga misura proprio per la celebrità del suo nome, godeva della universale ammirazione in campo filosofico, e dall’alto della saggezza e dell’esperienza accumulate nel corso di una vita intera di studi, riflessioni, viaggi e insegnamento, invano si cercherebbe, non diciamo una scintilla di genialità, ma neppure una forma anche modesta di originalità e di profondità. Le sue osservazioni acri, la sua implacabile requisitoria contro il cattolicesimo non si elevano di una centimetro al di sopra del livello più banale, anzi diciamo pure del più triviale, che avrebbe potuto assumere una discussione da osteria, da parte di un avventore qualsiasi, che non avesse mai letto una sola pagina di argomento filosofico ma che fosse, in compenso, ben sazio di vino o di birra. Gli argomenti dei quali si fa forte sono esattamente quelli che potevano incontrare l’approvazione di un uditorio rozzo e semianalfabeta; quelli che toccavano le corde più profonde del viscerale anticattolicesimo luterano, i più adatti a rinfocolare antichi e invincibili pregiudizi, a far leva — come si direbbe oggi — sulla pancia e non certo sull’intelligenza del pubblico. E questo da parte di un uomo, di un professore, di un pubblico funzionario, il quale sa bene che in quella città, in quell’ateneo, in quello Stato, vi è una non disprezzabile minoranza cattolica; la quale poi non è più minoranza, bensì maggioranza, nella Germania meridionale ove egli stesso è nato (a Stoccarda, nel Baden-Württemberg).
E infatti persino un ammiratore totalmente acritico, come Karl Rosenkranz, non trova nulla da chiosare, nulla su cui ricamane per esaltarne l’originalità o la profondità, e si deve limitare a esporre i contenuti di quel discorso demagogico e brutale, così, sciorinandoli piattamente, tali e quali, perché anche con la miglior buona volontà non c’è nulla da aggiungere, nulla che permetta di coglierne dei sensi riposti di una qualche sottigliezza. Il cristianesimo, sempre inteso in sostanza come pratica o come vaga aspirazione dell’anima, e non come una precisa verità alla quale il fedele aderisce con la ragione (logico, dato che Hegel non si è mai preso la briga di studiare san Tommaso d’Aquino) è dipinto in due soli colori, il bianco e il nero. Bianco il protestantesimo — e tutte le sue attenzioni sono rivolte a non urtare la sensibilità dei riformati non luterani, mentre di quella di eventuali studenti cattolici nulla gl’importa -, nel quale vede una nobile aspirazione verso le pure vette dello Spirito assoluto, pur se nelle forme ancora rozze della religione, che non giunge alla chiarezza dell’auto-comprensione propria della filosofia; nero il cattolicesimo, vero e proprio concentrato di vizi e anacronismi, quasi una testa di turco sulla quale rovesciare ogni critica, ogni accusa, anche la più gratuita.
E adesso entriamo nel merito del discorso.
Abbiamo già visto che se Hegel ha evitato nel suo discorso tutto quello che avrebbe potuto mettere in risalto gli elementi specifici del luteranesimo non lo ha fatto minimamente per una qualche forma di riguardo o di delicatezza nei confronti dei cattolici, ma per non urtare la sensibilità dei riformati non luterani, ad esempio dei calvinisti, in nome di una superiore unità del protestantesimo e sempre, si capisce, in funzione anti-cattolica.
Nella Chiesa cattolica nel XV e XVI secolo, ossia al tempo di Lutero, il suo sguardi non vede altro che una tirannia che opprime la scienza: pensando, evidentemente, a Galilei ( il cui processo peraltro si svolse nel XVII secolo) e facendo di un singolo episodio, determinato da circostanze particolari, un atteggiamento generale, cioè negando il dato di fatto che la Chiesa diede al contrario un grande contributo al progresso delle scienze, tanto è vero che molti scienziati di valore furono dei religiosi; e si pensi solo alla riforma del calendario solare promossa dal papa Gregorio XIII, che la introdusse con la bolla Inter gravissimas del 4 ottobre 1582.
Dopo questo inizio poco felice e poco generoso, il discorso del grande filosofo prende l’abbrivo e inanella tutta una serie di drastiche accuse contro la Chiesa: prima delle quali l’aver recato pregiudizio alle coscienze nel campo della libertà confessionale. Evidentemente, secondo Hegel, nei principati tedeschi, nei regni scandinavi e nei cantoni svizzeri passati al protestantesimo, la libertà di coscienza dei cattolici era pienamente rispettata; né sembra che egli abbia mai inteso parlare del principio giuridico cuius regio, eius religio («di chi è il regno, di lui sia anche la religione»), sancito dalla Pace di Augusta del 1555 e che, per quanto possa ripugnare alla nostra coscienza moderna, tuttavia ebbe, se non altro, il merito di ridurre le persecuzioni indiscriminate di una parte contro l’altra. Eppure anche le persone di media cultura sanno che, a Ginevra, Calvino non esitò a mandare sul rogo Michele Serveto a causa delle sue idee sulla Trinità: fatto che distrusse per sempre il mito dei Paesi riformati come terre di libertà, pronti ad accogliere a braccia aperte chiunque fosse perseguitato per motivi religiosi.
La terza accusa, dopo la repressione contro la scienza e la violazione della libertà di coscienza, è aver mirato alla distruzione della famiglia tramite la pratica del celibato ecclesiastico. Nientemeno. Come si può ribattere, parlando seriamente, a un’accusa così poco seria? Come spiegare a chi abbia la mente ingombra di pregiudizi che l’esaltazione del celibato ecclesiastico non si ripercuote negativamente, di per se stessa, sulla famiglia e quindi sulla capacità procreativa della società, ché anzi proprio le famiglie numerose erano quelle — e tale situazione rimase, specie nelle aree periferiche italiane, spagnole, portoghesi, ecc., fino circa alla metà del XX secolo — che recavano alla Chiesa il maggior numero di vocazioni religiose, sia maschili che femminili? E che quei preti, quei monaci e quelle monache, appunto per l’ambiente familiare nel quale erano cresciuti, portavano poi nella loro vita consacrata il massimo rispetto e la più delicata sensibilità circa le questioni della vita familiare? E che in essi vi era, sì, coerentemente con l’insegnamento di sempre, la convinzione della eccellenza della vita consacrata, ma niente affatto una qualche forma di disdegno o disprezzo per la santità del matrimonio e l’importanza della cura e dell’educazione morale e religiosa della prole?
La quarta accusa è quella di aver distrutto il senso del lavoro tramite «l’esaltazione della povertà, dell’ozio e della stupida bacchettoneria». Questa è la conferma del fatto che il protestantesimo nasce in gran parte come reazione del capitalismo nascente contro ciò che la Chiesa rappresentava nel campo sociale: un limite, una barriera contro l’avidità degli usurai e dei ricchi mercanti, lo sforzo di sostenere i ceti più vulnerabili, di proteggerne i diritti, di assicurar loro delle forme di tutela, sia direttamente sul terreno sociale (corporazioni di mestiere, confraternite) che, indirettamente, con il costante richiamo all’ideale evangelico della povertà quale mezzo per avvicinarsi a Dio.
La quinta accusa era di aver distrutto il senso di responsabilità tramite un’obbedienza ottusa, che trattava tutti gli uomini come minorenni e nel suo vuoto mentale affidava ai preti la responsabilità delle altrui azioni. Questa è una doppia stoccata: contro i limiti posti dalla teologia alla ragione dalla sua stessa natura (come in S. Tommaso) e contro l’idea del sacerdozio quale tramite necessario fra l’uomo e Dio. Perciò via il senso del limite della ragione, ma sì a una ragione libera e spregiudicata, strumentale e calcolante (Kant); e via il sacerdozio come sacramento, perché siamo tutti sacerdoti. Anche se poi i sovrani degli Stati protestanti, come si compisce di osservare alla fine della sua allocuzione, pur non essendo consacrati, sono dei super-sacerdoti: dei vescovi supremi, addirittura.
La sesta accusa è quella di voler distruggere lo Stato, sia minando le basi della società (ma la Chiesa non ha mia condannato né il matrimonio, né la proprietà: qui Hegel vaneggia), sia negando obbedienza al principe. Come se, storicamente, non fossero stati principi tedeschi a ribellarsi, armi in pugno (con la Lega di Smalcalda), contro l’imperatore Carlo V, che era rimasto cattolico. Dal che si vede che la ribellione al sovrano ve bene quando il sovrano è cattolico, è male se si tratta di un principe protestante.
Francamente, da un grande filosofo che si rivolge in circostanze solenni alla gioventù studentesca, sarebbe lecito aspettarsi qualche cosa di meglio.
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