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Perché il vero bene non può essere solo corporale

Avete mai provato a leggere san Tommaso d’Aquino? Avete sentito dire che è pesante, che è noioso, che è difficile. Be’: non fidatevi dei sentito dire; fate voi stessi la prova. Ma non sapete nulla di filosofia, tanto meno di teologia, perciò non osate, non vi sentite all’altezza. Niente affatto: vi assicuriamo che basta una testa capace di pensare, perché il pensiero di san Tommaso è talmente lineare, talmente consequenziale, talmente limpido, che lo può seguire, beninteso con la dovuta concentrazione, qualsiasi persona normalmente dotata d’intelligenza. Dunque, prendete in mano la Summa Teologica, e apritela a caso. Qualsiasi pagina, qualsiasi punto. Sì, avete capito bene: non occorre che iniziate la lettura dal principio; potete aprire i volumi a caso, potete leggere la prima frase che vi troverete sotto gli occhi. Vi assicuriamo che, se leggerete quella frase con un po’ di attenzione, vi troverete un tesoro d’inestimabile valore: non solo la risposta a un determinato quesito, ma qualcosa di assai più grande: una finestra spalancata sull’infinito. Questo è il pensiero di san Tommaso d’Aquino: una finestra spalancata sull’infinito, sull’assoluto; proprio come la musica di Bach. Come la musica di Bach, come le fughe e le toccate per organo del grande compositore tedesco, nel pensiero di san Tommaso si trova contemporaneamente la soddisfazione della mente e il piacere estetico: perché la Summa Teologica, come l’Arte della fuga di Bach, è un monumento, un capolavoro, una immensa cattedrale della razionalità e della sensibilità, nel medesimo tempo. Tutto vi è linearità, proporzione, armonia; non una sola parola in più: denso come il pensiero di Machiavelli, ma senza quel velo di amarezza, senza quella tristezza di fondo, né quell’amoralismo che rende a volte insopportabile la lettura del Segretario fiorentino. In san Tommaso si trova, legato con amore in un volume, come direbbe Dante, tutto ciò che costituisce il godimento intellettuale, unito a quello estetico: perché è sempre un piacere, anche un piacere estetico, vedere come la mente possa muoversi agilmente, e come, partendo da qualche semplice pietra, può costruire un edificio enorme, coeso, compatto, proporzionato, armonioso, dove tutto si tiene, tutto rifulge di gloria e di bellezza, e tutto innalza l’anima verso Dio. Questa, poi, è la cosa più importante. Vi possiamo assicurare che, dopo aver letto anche una sola pagina di san Tommaso, si sentirete immensamente sollevati, immensamente rischiarati, immensamente gratificati: sentirete entrarvi nell’anima qualche cosa di simile a una pace divina. Una pace che non è più solamente umana, ma proviene anche dalla dimensione superiore, quella soprannaturale. Perché san Tommaso è così: grande pensatore, grande mente razionale, grandissimo discepolo della lezione di Aristotele, ma anche grandissimo uomo di fede. Quando la ragione non era sufficiente a fargli comprendere, lui cercava le risposte in Dio: posava la penna sul tavolo della scriptorium, scendeva nella cappella del convento e s’inginocchiava davanti al tabernacolo del Santissimo, pregava, supplicava, piangeva e vegliava anche tutta la notte, se necessario, lo abbracciava perfino, e non se ne andava fino a quando Dio, accogliendo le sue umili suppliche, non faceva la grazia di aprirgli la mente e di aiutarlo a innalzarsi al di sopra delle sue possibilità meramente umane.

Ora, in questi tempi di materialismo trionfante, di edonismo esasperato e diretto esclusivamente al godimento individuale, c’è una domanda che ricorre continuamente: se il bene delle persone si possa considerare esaurito ed eventualmente, soddisfatto, dai beni fisici e materiali, dal bene e dal piacere che il corpo può ottenere, in una maniera o in un’altra. Perché, se così fosse, a che scopo rendersi difficile la vita, inseguendo il vano fantasma di un bene ulteriore, soprannaturale, che forse non esiste? E allora, prendiamo in mano la Summa Teologica e proviamo a leggere quel che dice san Tommaso: Seconda parte, Questione 2, articolo 5, dedicata al quesito: Utrum beatitudo hominis consistat in aliquo corporis bono, cioè se la beatitudine dell’uomo consista in qualche bene del corpo (la traduzione è nostra; segnaliamo, comunque fra le altre, l’edizione spagnola a cura di p. Francisco Barbado, Madrid, La Editorial Catolica, 1954, vol. 4, pp. 14-141):

(…) Rispondiamo dicendo che è impossibile che l’umana beatitudine consista nei beni de corpo, per due ragioni: primo, perché è impossibile che il fine ultimo di una cosa che è ordinata ad altro, sia la conservazione del suo essere. Per esempio, il pilota non si propone come fine ultimo la conservazione della nave posta sotto la sua guida, perché la nave ha come fine una cosa diversa, ossia la navigazione. E così come la nave si affida al pilota perché la diriga, così l’uomo è affidato alla sua volontà e alla sua ragione, come dice l’Ecclesiastico (15, 14): "Al principio Dio creò l’uomo e lo lasciò in potere del suo proprio volere". È evidente che l’uomo è ordinato ad altro, come suo fine, infatti l’uomo non è il suo sommo bene. Perciò è impossibile che il fine ultimo della ragione e della volontà sia la conservazione dell’essere umano.

La seconda ragione è che, anche supponendo che il fine della ragione e della volontà umana sia la conservazione dell’essere umano, non si potrebbe tuttavia affermare che il fine dell’uomo sia un bene corporale. L’essere dell’uomo consiste dell’anima e del corpo, e mentre il bene del corpo dipende dall’anima, il bene di questa non dipende dal corpo, come sopra abbiamo dimostrato (I q. 75 a. 2; q. 76 a. 1 ad 5.6; q. 90 a. 2 ad 2); poiché il corpo è, per l’anima, la stessa cosa della materia per la forma, e lo strumento per il motore, per il fatto che esegue le sue azioni. Pertanto risulta impossibile che nei beni corporali consista la beatitudine, che è il fine ultimo dell’uomo.

Abbiamo scelto, praticamente a caso, questo breve brano di prosa, in cui san Tommaso trae le somme del precedente ragionamento dialettico, basato sul pro e il contro, sulla tesi e sull’antitesi (qualche secolo prima di Hegel, e assai meglio di lui, cioè restando padrone del pensiero e non già facendosene adoratore, cioè divinizzandolo), come esempio della discorsività e chiarezza, ma, nello stesso tempo, del rigore logico e metodologico dell’Aquinate. Altro che Karl Rahner, Walter Kasper ed… Enzo Bianchi: qui abbiamo una mente solida, razionale, robusta, che nondimeno procede nel solco della Rivelazione e che si serve della Scrittura per mantenersi nella retta via, per non smarrirsi, come il pilota della nave si serve dei fari per orientarsi nella navigazione notturna; mentre quelli non esistano a manipolare il senso della Scrittura nella folle pretesa di forzarne il senso per condurlo là dove hanno deciso di andare a parare, cioè verso un cristianesimo che essi chiamano "adulto", "maturo" e "moderno", mentre è solo una contraffazione modernista, ossia eretica, del vero cristianesimo. Nello stesso tempo, si sarà notato che tutto il ragionamento di san Tommaso prende le mosse da una prospettiva finalista, secondo il modello di Aristotele. Questo è un punto decisivo: il cristiano parte dall’assunto che le cose hanno un senso, e perciò sono dirette ad un fine, e non, al contrario, che bisogna prima dimostrare che esse hanno un senso, perché non si sa quale fine abbiano. Ed è qui che si vede la differenza fra una sana teologia, orientata nella giusta prospettiva, perché parte da Dio e a Dio riconduce l’intelligenza umana, e una teologia patologica, aberrante, come quella della tanto strombazzata "svolta antropologica", la quale parte dall’uomo e pretende di ritornare all’uomo, quasi toccando Dio per accidente. In effetti, quel che è in gioco è l’idea stessa di cosa sia la teologia. Per san Tommaso, come per millenovecento anni di pensiero cristiano, da san Paolo a Romano Amerio e a Cornelio Fabro, la teologia è la via razionale che affianca il cammino della fede, e che prende per mano la ragione e la guida fino a Dio, sempre sorretta e illuminata dalla grazia; per i signori della teologia postconciliare, la teologia è la palestra di una ragione libera e spregiudicata, che non esita a porre in dubbio tutti i pilastri della fede e a rigettare tutto ciò che non è dimostrabile in maniera autonoma dalla sola ragione umana, come si evince già dai titoli di siffatti personaggi. Esemplare, in tal senso, è il caso dell’eretico teologo ex cattolico Hans Küng, il quale nondimeno va per la maggiore e manca poco che venga richiamato con tutti gli onori, e magari beatificato, per aver pervicacemente contrastato il Magistero e sparso il dubbio circa la fede, a piene mani, nelle anime dei credenti; così come già l’eretico Enzo Bianchi viene portato in sommo onore dalla neochiesa del signore argentino, e addirittura invitato a tenere gli esercizi spirituali mondiali per il clero, proprio lui che non crede alle verità di base della fede cattolica e non sa neppure cosa voglia dire procedere in un ragionamento di ordine teologico per via argomentativa e dialettica, come sempre hanno fatto i buoni teologi.

Ora, tornando al discorso sul finalismo, prendiamo buona nota che il pensare cristiano è un pensare che presuppone la bontà dell’essere, quindi la bontà delle cose che partecipano all’essere, quindi anche il loro essere dirette ad un fine. In questa visione, l’universo è coeso e armonioso, e ciascun ente ha una funzione da svolgere, una parte da rappresentare: nulla è inutile, tanto meno l’uomo, la più perfetta di tutte le creature, perché fatta a immagine di Dio stesso, e perciò dotata d’intelligenza, volontà e sentimento. È chiaro, infatti, che solo in un universo dotato di senso, le cose sono dirette ad un fine; se l’universo fosse frutto del caso, non avrebbero alcuno scopo, non avrebbero alcun fine e nessuna funzione da svolgere. Se si accetta questo presupposto iniziale, si è cristiani; se no, no. Se lo si accetta, la teologia ha anche il compito di mostrare come tutte le cose procedono verso il loro fine, e come, se ne sono distratte o impedite, soffrono, perché non riescono a realizzare ciò per cui erano destinate: e questo è ciò che si chiama il male morale. Il bene, viceversa, è la realizzazione del fine: nel caso dell’uomo, la beatitudine, perché l’uomo aspira ad essere felice. La domanda, allora, è questa: come fa l’uomo a realizzare la propria beatitudine, cioè il proprio bene? E qui emerge la piena incompatibilità con la prospettiva materialista, secondo la quale non si sa se l’universo abbia un senso, né se le cose siano dirette verso un fine: perché, se si adotta questa prospettiva, ne consegue necessariamente che il bene dell’uomo è curare il proprio bene corporale, l’unico che appaia, quantomeno alle menti non illuminate dalla grazia, un bene positivo, concreto e realizzabile. L’altro bene, infatti, quello di ordine soprannaturale, appare incerto; forse esiste, forse no: e chi mai sarà tanto pazzo da rinunciare a un bene certo, e sia pur limitato, per inseguire la chimera di un bene assoluto, ma incerto, cioè forse illusorio?

La questione è tutta qui; e i neoteologi alla Hans Küng, legittimi padri intellettuali dei porno teologi alla James Martin, non fanno che ronzare come mosche intorno a questo mucchio d’escrementi – pardon, quale imperdonabile mancanza di stile!; che volete, ci è scappato dalla penna -, cioè all’idea che ogni lasciata è persa, e che l’uomo deve "realizzarsi" senza rinunciare a nulla, a nessuna tentazione, a nessun impulso, a nessun piacere, perché ciò equivarrebbe a una disumana "repressione", a un atto di violenza contro se stessi, che certamente, essi dicono, non è gradito a Dio. Miserabili sofismi per far dire a Dio quel che Dio non si è mai sognato di dire. Basti pensare alle parole che Gesù rivolge all’adultera: Vai, e non peccare più; e non certo: Vai, e realizzati liberamente, cioè continua a cornificare tuo marito! Ma loro, i pornoteologi, sono ben decisi ad arrivare proprio qui: e ci stanno infatti arrivando. Stanno portando la Chiesa a farsi garante dei "diritti" della persona, intesi come ricerca del proprio piacere immediato e materiale, e non più, come è sempre stato nella retta prospettiva cristiana, come ricerca del vero bene, del sommo bene, che è la partecipazione alla vita divina. Quando, per esempio, il vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Zenti, organizza un incontro nella sua ex parrocchia, presenti i fedeli, con don Giuliano Costalunga, che si è sposato con un uomo e che è tornato dicendo, trionfante: Auguro a tutti di trovare un amore grande come quello che io ho per mio marito!, e lo abbraccia e gli dice: Segui liberamente la tua strada, ebbene qui siamo in presenza di uno stravolgimento della lettera e del senso del Vangelo, quindi di una falsificazione del cristianesimo. È l’esatto rovesciamento della parabola del padre misericordioso, il quale abbraccia, sì, e perdona, e accoglie con grande festa il figlio prodigo, ma perché questi ha riconosciuto la sua colpa, si è vergognato, si è pentito ed è tornato dicendo di non esser neppure degno di venir più chiamato suo figlio. Il padre misericordioso lo abbraccia e lo perdona perché c’è stata la conversione, perché il figlio perduto è stato toccato dalla grazia: ma quale grazia ha toccato quel prete che, dopo aver rotto le più sacre promesse fatte da Dio e agli uomini se ne torna ostentando il suo modo di agire, se ne gloria, e addirittura pretende di celebrare la santa Messa, come se nulla fosse accaduto? È evidente che, in questo caso come in tanti altri, si stanno raccogliendo gli amari frutti della cattiva seminagione di Rahner, Kasper e Bianchi: ossia l’idea, assolutamente non cristiana, che il bene dell’uomo consiste nel raggiungere il bene corporale (bene, peraltro, apparente e soggettivo, non reale). Eppure, basta leggere il Vangelo: è tutto così chiaro. Forse Gesù ha promesso ai suoi discepoli il raggiungimento del bene corporale? È di questo che ha dato l’esempio, con la sua vita e la sua Passione? Oppure ha detto (Lc 9, 23): Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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