
Vivere al tempo della Grande Menzogna
6 Ottobre 2018
Perché il vero bene non può essere solo corporale
7 Ottobre 2018È una strada un po’ particolare, via Rivis; anzi, una strada decisamente particolare. È una via di mezzo fra una strada di campagna e una strada cittadina, troppo stretta e troppo lunga per restare sconosciuta, ma così ben rincantucciata in un angolo secondario della città, che sicuramente molti udinesi non ci sono mai stati, o possono contare sulle dita delle mani le volte in cui hanno avuto occasione di passarci. E perché avrebbero dovuto andarci, poi? Nessun negozio, nessun locale pubblico, nessuna attrazione di alcun genere, con la sola eccezione dei cinema teatro San Giorgio, tanto caro alla nostra infanzia, ma situato proprio all’inizio, dal lato di borgo Grazzano. Dal lato di borgo Poscolle, invece, ci si entra come ci si potrebbe tuffare in un vicolo scoperto per caso; e così è capitato anche a noi, ma solo assai più tardi, da adulti, mentre da bambini non ci eravamo mai stati, a parte il cinema San Giorgio, dove il cappellano del Duomo ci portava a vedere i film di Tarzan e di Maciste, nelle belle sere d’estate, in premio per aver servito Messa e aver fatto da chierichetti anche ai Vespri. Entrare in via Rivis, è un po’ come entrare in un mondo a parte; un mondo popolato da pochissimi passanti e quasi nessuna automobile; un mondo così angusto, che dalle finestre dei due lati, in certi punti, si ha l’impressione che ci si potrebbe dare la mano, solo sporgendosi un poco; e così tranquillo e silenzioso che nessun rumore della vita moderna viene a disturbarlo, e le sue vecchie case inframmezzate da qualche infelice condominio moderno, e i suoi muretti di pietra e i suoi cortili pieni d’erba, pare non abbiano voglia di mettersi al passo coi tempi, e se la godano a rannicchiarsi nelle pieghe di una città che non è certo grandissima, però abbastanza grande da accoglierla e quasi nasconderla nel suo seno, per celarla agli sguardi inopportuni di chi non capirebbe. Bisogna essere un po’ filosofi, o forse un po’ poeti, per capire una strada come questa, simile a una fanciulla ritrosa; e bisogna amare le sorprese, perché ad ogni curva ci si aspetta che finisca, magari che finisca davanti a un muro, a un orto, a una rimessa, e invece no, continua, continua, si snoda come un serpente che sonnecchia al sole di primavera, e va sempre avanti, sempre più stretta, sempre più improbabile, come un ottantenne, un novantenne che si mantiene arzillo, passano gli anni e non ha alcuna intenzione di togliere il disturbo; e uno si domanda: Ma com’è che non conoscevo questa via, dal momento che è così lunga? Finché si giunge al termine, e finalmente ci si raccapezza, perché si dubitava quasi di essersi smarriti. Via Rivis collega via Grazzano e via Poscolle, due vie entrambe importanti, ma molto, molto diverse fra loro: la prima è posata e modesta, con case popolari e negozi alla buona, e balconi di legno, e scale di legno e ballatoi rustici, come nei paesi di montagna, e vasi di fiori alle finestre, e tutta un’aria un poco trasognata, come di chi cammini in punta di piedi; la seconda è ampia, trafficata, vivacissima, con le case belle, eleganti, e bei negozi, con belle vetrine. La prima si snoda da piazza Garibaldi fino a piazzale Cella, calma, senza fretta, e non è affatto trafficata; la seconda è una grande arteria che va dall’asse via del Gelso-Via Zanon, dove brulica la vita del mercato permanente, con tutte le sue bancarelle, fino in piazzale XXVI Luglio. La prima somiglia alla via centrale di un grosso paese del Friuli, diciamo com’erano i paesi qualche decennio fa; la seconda è una via cittadina che, pur non essendo centralissima, è tuttavia considerata zona centrale in tutti i sensi, anche dal punto di vista commerciale, direzionale e immobiliare.
Quanto a noi, da bambini, non avevamo mai avuto motivo di spingerci più in là del cinema parrocchiale San Giorgio. Quella era già una zona, ai nostri occhi, suburbana, "di confine": oggi c’è una vasta area adibita a parcheggi, con spazi liberi risultanti dalla demolizione di vecchie case, una specie di cantiere a cielo aperto, che lascia intuire come doveva essere questo rione mezzo secolo fa: uno dei più vecchi e caratteristici dell’intera città, che arrivava sino all’anello esterno, costituito dal doppio viale di circonvallazione di viale Marangoni e viale Duodo. Probabilmente i vicoletti sulla sinistra di via Grazzano possono dare un’idea di come doveva essere quel rione, alle spalle del cinema teatro. Sta di fatto che, quando abbiamo scoperto via Rivis, con la relativa chiesetta, ciò è accaduto moltissimi anni dopo, quando siamo tornati in città, e l’abbiamo imboccata dal lato opposto, quello di via Poscolle. L’ultima laterale di sinistra di via Poscolle è appunto via Rivis; l’ultima prima del vasto slargo di Piazzale XXVI Luglio e dei viali che vi s’irradiano, specialmente viale Venezia. L’abbiamo imboccata con un misto di sorpresa e di curiosità: mai vista prima; e sì che avevamo percorso tante volte via Poscolle, per andare al Tempio Ossario, ad esempio, o per recarci a trovare qualche amico lungo il viale Venezia. Era strano scoprire una via "sconosciuta" proprio lì, in quel punto della città; per quanto ne sapevamo, avrebbe anche potuto non esserci niente fino al piazzale. E invece c’era quella via così caratteristica, stretta e quasi soffocata tra due file di muri, di case, di giardini: ci aspettavamo che finisse da un momento all’altro, non immaginavamo che sboccasse proprio all’altezza della chiesa di san Giorgio, cioè in un luogo della città che conoscevamo molto bene. Questo ci ha insegnato che vivere in una città, e magari esserci nati, non significa affatto conoscerla veramente, neanche dal punto di vista più semplice, quello del riconoscimento immediato della sua tipografia; figuriamoci dal punto di vista storico, o artistico. E ci è venuto in mente un romanzo di Jorge Amado, Terre del finimondo, del 1943, nel quale si descrive come una foresta vergine del Brasile era stata attaccata da due squadre di taglialegna, che si erano mosse da due opposte direzioni e che, dopo molti giorni di lavoro nel buio e nel silenzio della selva, alla fine si sono udite reciprocamente, e si sono incontrare, e tagliando a metà quella foresta inesplorata, hanno vinto l’alone di mistero reverenziale della sua impenetrabilità. Senza dubbio si tratta di un paragone esagerato, che non può non far sorridere; e tuttavia ci è sorto spontaneo pensando a come, partendo da due punti noti della città, anche per noi quella via era rimasta un mondo a parte, finché non l’abbiamo percorsa sino in fondo, con lo stupore di che si addentra in un territorio del tutto sconosciuto, e abbiamo scoperto, partendo da via Poscolle, che andava a finire proprio in via Grazzano.
Ed ecco, circa a metà di essa, sulla destra, una chiesa, e neanche tanto piccola: una chiesa dalla facciata a capanna, molto semplice, la vernice alquanto screpolata, il portone aperto, un bel rosone quadripartito, il timpano, e due balconate ai lati, con le colonnine delle rispettive terrazze a due terzi dell’altezza della facciata, e la porta del convento sulla destra, con un lunotto al di sopra e un piccolo dipinto della Madonna col Bambino. Nessuna decorazione, tranne un gioco di sottili arcate appena rilevate sulla superficie e dipinte in una tinta leggermente più chiara, e nessuna indicazione storico-turistica; solo, lungo tutta la facciata, al di sopra del portone, l’iscrizione: D.O.M. in honorem Beatae Mariae Virginis Immaculatae a Sacro Numismate. Quella dicitura è anche una rivelazione: è un chiaro riferimento alla Medaglia miracolosa della Madonna apparsa in Rue du Bac, a Parigi, nel 1830, e infatti Catherine Labouré, la giovane suora che ebbe la visione celestiale, poi proclamata santa da Pio XII, nel 1947, era una novizia delle Figlie della Carità. Questa, dunque, è la chiesa delle Figlie della Carità, la congregazione che deriva dalle Dame della Carità, fondate da san Vincenzo de’ Paoli nel 1617, con la specifica vocazione del servizio ai poveri e agli ammalati; e il loro convento è lì accanto. Oggi esse hanno numerose case e conventi sparsi per tutto il Friuli; a Udine, nella sede di via Rivis, gestiscono attualmente due distinte attività: una casa per anziane e un centro di ascolto, da un lato, e, dall’altro, una Casa Famiglia. Sono molto attive e apprezzate nel settore dell’assistenza ai poveri e ai senzatetto. La porta sempre aperta della chiesa è il riflesso dell’atteggiamento aperto di queste suore; quanto a noi, ne abbiamo approfittato per entrare a dire una preghiera in quella chiesa di cui ignoravamo perfino l’esistenza, e che è stata una sorpresa nella sorpresa di quella lunga e stretta via che pare, a tratti, quasi una strada di campagna. Ma c’era un’altra cosa che ci aveva colpito, quando ci siamo imbattuti nella chiesa della Beata Vergine Immacolata della Medaglia miracolosa: pur non avendola mai vista prima, ci era tuttavia familiare. E la ragione ci si è affacciata alla mente, ad un tratto: la sua facciata, la sua struttura, i due balconi laterali con le colonnine di marmo, tutto era uguale a un’altra chiesa poco nota della città, quella del collegio Tomadini, all’altro capo del centro storico: quella, situata nell’angolo nord-orientale, in una laterale di borgo Pracchiuso, questa, invece, nell’angolo sud-occidentale, nel triangolo formato da via Poscolle, via Rivis e viale Marangoni, e che prosegue, con una serie di spazi interni, di cortili e giardini, di edifici privati e palazzine, nella proprietà contigua della chiesa di San Vincenzo de’ Paoli, cui si accede appunto da via Marangoni. Siamo pronti a scommettere che lo stesso architetto ha progettato le due chiese e che esse sono state costruite negli stessi anni, nella prima metà del XIX secolo: si somigliano quasi come due gocce d’acqua. Sono entrambe modeste, senza pretese, realizzate in economia; ma hanno quella semplicità francescana, quella grazia spirituale senza fronzoli, che piace, perché fa venir voglia di fermarsi, di entrare, di cercare la presenza del Signore fra quelle mura sobrie, in quella penombra densa di silenzio, come si addice alle adiacenze di un convento; e ci s’immagina facilmente quante volte le suore si sono inginocchiate su questi banchi e hanno rivolto gli occhi verso questo altare., contemplando l’ineffabile mistero del Santissimo, con la mediazione della Vergine Maria. Nello stesso tempo, non potevamo fare a memo di stupirci per la scoperta inattesa; fra l’altro, avevamo sempre saputo che la zona delle chiese, dei conventi e degli istituti religiosi è quella orientale della città, a est del Giardino Grande; ora scoprivamo che anche la zona occidentale ne ha parecchi, fra cui la chiesa delle Zitelle, in via Zanon, annessa al convento delle suore della Presentazione di Maria al Tempio, e la chiesa di San Vincenzo de’ Paoli, lungo il viale Marangoni.
Più tardi, abbiamo cercato notizie storiche o artistiche, sulle guide della città e su internet: ma niente, assolutamente niente. Nemmeno una parola sulla chiesa, e solo pochissime informazioni sulle suore della Carità di Udine. È vero, non si tratta di una chiesa che possieda un qualche valore artistico o che conservi una qualche memoria storica; ma perché un silenzio così totale? Poi ci siamo detti: meglio così. In un certo senso, è e deve restare un segreto fra lei e i pochi che la conoscono; non è il caso di far sapere a tutti che esiste. E poi, chi l’apprezzerebbe, se non le poche persone che amano le chiese raccolte, le atmosfere un po’ mistiche, dove più facilmente l’anima si distacca dalle cose materiali e si raccoglie tutta in se stessa, per ascoltare la sola voce che conta, quella di Dio? E ci è venuto anche un altro pensiero, di portata molto più generale. Questo, forse, è il momento in cui i cattolici devono imparare a tacere e ad ascoltare; si sono mescolati anche troppo ai rumori e alle voci del mondo. Invece di essere un modello per gli altri, hanno preso gli altri a modello, con il grande malinteso del dialogo e dell’ecumenismo. Quali altri? Ma tutti, purché non fossero cattolici: i protestanti, i giudei, gli islamici, gli atei. Se proprio dovevano essere cattolici, che almeno fossero dei cattolici critici verso la Chiesa, verso la Tradizione, verso il cattolicesimo stesso. Le loro voci disarmoniche, petulanti, stridenti, sono suonate come musica agli orecchi di tutti quelli che smaniavano per le novità, per il cambiamento: dimenticando che è impossibile, per un cattolico, essere critico verso la Tradizione, perché la Tradizione viene da Dio, è espressione della sua diretta ispirazione. Voler riformare la Tradizione, volerne abolire una parte, quella che non piace, e tenere solo un’altra parte, quella che piace, o quella che si pensa di poter più facilmente "aggiornare", equivale, puramente e semplicemente, a voler falsificare il cattolicesimo, a voler prendere in giro Dio. Meglio, molto meglio, uscire dalla Chiesa, e dire francamente che non si vuole aver più nulla a che fare con il Vangelo di Gesù, piuttosto che rimanere nella Chiesa, ma con la subdola intenzione di sovvertire il dogma. Perché il dogma è la garanzia della Verità, e la Chiesa senza dogma non è che una frasca al vento, una costruzione puramente umana, non solo fragilissima, ma anche menzognera e blasfema, perché pretende di essere quel che era e non è più: non una chiesa qualsiasi, ma la Sposa di Cristo, da Lui istituita per la salvezza delle anime. La salvezza delle anime risiede nella Verità; per il cattolico, non ci sono più verità, ma Una sola: quella di Cristo. Io sono la via, la verità e la vita, ha detto Lui stesso. E che altro vogliamo? Vogliamo il signore argentino, che ora, dopo aver sovvertito ogni cosa — liturgia, pastorale, dottrina — e aver cambiato il Magistero, il catechismo, le parole del Padre nostro, pretende anche di sostituire il Crocefisso con un simbolo ambiguo, brutto, dall’aria sinistra e malefica: un "pastorale" cornuto attraversato da un chiodo, quasi per abituare i cattolici a privarsi anche del segno della santa Croce?