
Omaggio alle chiese natie: Cappuccini via Chiusaforte
16 Agosto 2018
Omaggio alle chiese natie: S. Paolino d’Aquileia
17 Agosto 2018A forza di sentir ripetere che una delle ragioni dell’avvento al potere del movimento fascista è stato il mito della vittoria mutilata, le ultime generazioni di studenti hanno finito per credere che non ci sia stata alcuna vittoria mutilata, e che Mussolini, nella sua astuta perfidia, abbia fabbricato apposta quel mito per fare leva sul risentimento dell’opinione pubblica. Poi gli studenti diventano professori e insegnano ciò a loro volta; e la cosa, ripetuta dagli adulti ai giovani, finisce per diventare verità sacrosanta. In realtà, che la vittoria dell’Italia nella Prima guerra mondiale abbia subito un drastico ridimensionamento da parte dei suoi nuovi alleati (nuovi perché non erano quelli del 1914), i quali, dopo aver promesso mari e monti perché si unisse loro in un momento critico per l’Intesa, a guerra conclusa fecero del proprio meglio, del proprio peggio, nelle persone di Wilson, Clemenceau e Lloyd George, per defraudare l’Italia di quanto legittimamente le spettava, e non solo in termini di territori da annettere: questa è quanto meno un’ipotesi di lavoro che si potrebbe e si dovrebbe seriamente considerare a livello storiografico, trattandola con il pragmatismo di qualsiasi altra questione, e non escludendola a priori in nome di una tautologia prettamente ideologica: il fascismo è stato il Male Assoluto; il fascismo è andato al potere sull’onda della delusione popolare per la vittoria mutilata; dunque la vittoria mutilata è solo un’invenzione dei fascisti per manipolare il popolo italiano. In realtà, se vi fu realmente qualcosa di simile a una "mutilazione" delle giuste aspirazioni italiane, oppure no, ciò richiederebbe una discussione estremamente ampia e complessa, che non è qui il caso di fare. Qui ci preme evidenziare come il principale avversario, in termini diplomatici, che rese amara la vittoria italiana al tavolo della pace, fu il presidente statunitense Woodrow Wilson, e ciò, a nostro parere, per tre ordini di motivi. Primo, era il socio di maggioranza nel club delle potenze vincitrici, e poteva permettersi di trattare con condiscendenza un alleato minore quale, ai suoi occhi, era l’Italia. Secondo, all’epoca della Conferenza di Versailles egli si trovava già sotto la (cattiva) influenza dei rappresentati slavi dei comitati nazionali che volevano succedere all’Impero austro-ungarico: Beneš e Masaryk per la Boemia, divenuta poi, assurdamente, Cecoslovacchi; Trumbić e Šupilo per quella che sarebbe divenuta, ancor più assurdamente, la Jugoslavia, e sotto l’influenza di alcuni suoi collaboratori dei quali si fidava ciecamente, e che avevano stabilito strette relazioni con quei propagandisti slavi, perciò partiva da un pregiudizio anti-italiano circa la questione adriatica. Terzo, era un riformatore religioso mancato, un professore arrogante, convinto possedere la ricetta giusta per salvare il mondo, e che tutti avrebbero dovuto inchinarsi ad essa, se volevano un futuro di prosperità e di pace. Di conseguenza, egli era portato a svalutare sistematicamente le idee altrui, quando divergevano dalle sue, ritenendole frutto di ragionamenti errati o, peggio, di meschini ed egoistici interessi; mentre lui solo, che non aveva, per il proprio Paese, ambizioni territoriali, si sentiva autorizzato a parlare in modo spassionato, onesto e perciò moralmente autorevole. Insomma, lui parlava e gli altri dovevano ascoltare, come tanti scolaretti. Anche sul piano personale, questo grave difetto della sua natura avrebbe caratterizzato tutto il suo comportamento durante la Conferenza della pace. A un certo punto si convinse che Orlando, il capo del governo italiano, non godeva del sostegno del suo popolo ed ebbe l’incredibile rozzezza di rivolgere un appello direttamente all’opinione pubblica italiana, scavalcando la delegazione italiana a Parigi, cosa che umiliò Orlando e Sonnino e li indusse ad abbandonare, ma inutilmente, la conferenza, e segnò il punto di non ritorno nella mortificazione dell’Italia vittoriosa da parte dei suoi "alleati". Un ricordo che peserà per un ventennio e che spingerà l’Italia, insieme a delle considerazioni oggettive, a considerare la sistemazione europea di Versailles come sbagliata e innaturale, inducendo il nostro Paese, formalmente vittorioso, a solidarizzare con le potenze sconfitte, specialmente la Germania e l’Ungheria, nella loro polemica contro le potenze dell’Intesa e contro la Società delle Nazioni, la creatura più cara al cuore di Wilson (fondata il 28 giugno, ma senza la partecipazione americana), che appariva loro come il mero strumento di quelle.
Da quando, l’8 gennaio, erano stati resi noti i 14 punti di Wilson, gli Stati Uniti, e ancor più il loro presidente, si erano candidati a guidare la politica mondiale del dopoguerra nello spirito della democrazia, e ciò aveva fatto sì che Wilson venisse implicitamente riconosciuto come il massimo leader mondiale sia dalle potenze che si apprestavamo a chiedere la pace (e che poi si sarebbero sentite tradite dalle condizioni della pace stessa), sia dai suoi alleati, consapevoli che, senza il contributo finanziario e militare statunitense, non avrebbero potuto vincere la guerra, o comunque non così presto come in realtà avvenne. La formula fondamentale di Wilson era il principio di autodeterminazione: per lui, ogni popolo doveva liberamente scegliere il proprio destino, e, nei casi di dubbia soluzione, un plebiscito sarebbe stato lo strumento idoneo per accertare la realtà volontà degli abitanti di una determinata regione. Inutile dire che si trattava, e si tratta, di un principio estrinseco e puramente numerico, basato sul conteggio della maggioranza; un principio che era impossibile applicare in maniera soddisfacente nella quasi totalità delle regioni europee abitate da popolazioni miste, che avrebbe lasciato milioni di persone scontente entro i confini di uno Stato non sentito come il proprio, e avrebbe totalmente ignorato le ragioni di ordine strategico, economico e geografico, in base a un criterio esclusivamente etnico (e tale da incoraggiare, di per se stesso, la tentazione delle pulizie etniche: se il destino di una regione dipende dal voto degli abitanti, la cosa più semplice è deportare o costringere ad andarsene quelli delle altre etnie, in modo che restino a esprimere il loro voto solo quelli dell’etnia che in quel momento possiede gli strumenti coercitivi nei confronti delle minoranze. È così che la Romania si impadronì di tutta la Transilvania (con la grossa componente ungherese); la Polonia, dell’Alta Slesia, della Pomerania e del Corridoio di Danzica; mentre la Francia si riprendeva senz’altro l’Alsazia-Lorena. L’Italia, che non ricorse, né prima né dopo, alla politica delle pulizie etniche, ereditò un grosso problema con l’annessione di oltre 200.000 cittadini di lingua e cultura tedesca del Tirolo meridionale, problema che sarebbe drammaticamente riemerso prima e soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale (se avesse fatto come fecero i francesi in Alsazia, non ci sarebbe stata la questione altoatesina). Anche sul confine orientale, che venne stabilito con il trattato di Rapallo direttamente fra Italia e Jugoslavia, perché la Conferenza di Versailles, grazie a Wilson, non lo seppe definire, non avendo trovato una soluzione condivisa dai due Paesi interessati, il fatto che l’Italia non fece mai ricorso a trasferimenti forzati di popolazione, ma si limitò a tentare di italianizzare le minoranze slovene e croate, più che altro a livello linguistico (cosa che poi è stata dipinta dalla storiografia politicamente corretta, tutta animosamente antifascista, come una specie di orrendo crimine, di poco inferiore al genocidio degli armeni o degli ebrei) preparò, paradossalmente, le condizioni perché avesse luogo, da parte jugoslava, una pulizia etnica quando le circostanze l’avessero resa possibile, ciò che sarebbe accaduto fra il 1943 e il 1947, e reso più facile, per i suoi autori, dal terribile monito rappresentato dagli eccidi e dagli infoibamenti a danno della popolazione italiana.
Così l’ambasciatore Luigi Aldrovandi Marescotti, che fu collaboratore e segretario del ministro degli Esteri Sidney Sonnino, riportava il discorso tenuto dal presidente Wilson a Vittorio Emanuele Orlando, che gli aveva illustrato la posizione italiana sulla questione adriatica: o il Patto di Londra con qualche concessione alla Jugoslavia, più Fiume, o, in alternativa, il Patto di Londra intergale, il 26 maggio 1919, nelle sue memorie dal titolo Guerra diplomatica. Ricordi e frammenti di diario, 1914-1919 (Milano, Mondadori, 1938, pp. 417-420):
Siamo in pericolo, credo, di cadere in un "cul-de-sac": "a blind alley". Desidero esporre molto seriamente al mio collega italiano come la situazione mi si presenta nel suo insieme. Non possiamo andare in due opposte direzioni. Il Trattato di Londra è stato fatto in circostanze oltrepassate. Oggi esiste una società del mondo. Oggi esiste una opinione pubblica sulle basi della pace. Quando il Trattato di Londra fu concluso vi era soltanto una società limitata a tre o quattro grandi potenze: Francia, Russia, Gran Bretagna; contro Germania, Austria e Turchia. I soci volontari erano Francia, Russia e Gran Bretagna (poiché Serbia e Belgio erano stato coistretti alla guerra dall’invasione del loro territorio). Le tre Potenze volontarie vollero indurre l’Italia ad entrare in guerra, e per questa ragione conclusero il Patto di Londra. A quel tempo il mondo non si era reso conto che la guerra è un interesse generale. Lo so, perché il mio stesso popolo vi entrò. Ciò implicò non solo le forze, ma lo sviluppo politico di tutto il mondo. Sorse l’idea dell’indipendenza politica del mondo. Quando ciò fu realizzato, in America venne il pensiero che ci dovevamo essere tutti, ad entrare in guerra. Vi entrarono altre Potenze, che non erano interessate in questioni territoriali di carattere europeo. Vi entrarono col punto di vista che dovevano eliminare una dominazione politica che le minacciava. Quindi nuove idee sorsero nella mente dei popoli. Non si trattava solo della difesa dei piccoli Stati, ma di quella delle minoranze. La luce si allargò nella coscienza che un accordo generale e finale era sul divenire. A quel punto io feci un discorso al Congresso sui risultati della guerra. Credo che tale discorso sia stato tenuto tre giorni dopo quello pronunciato dal signor Lloyd George al Parlamento britannico. L’unica differenza fu che io riassunsi il mio in quattordici punti. Ambedue i discorsi, il mio e quello del Primo ministro britannico, contenevano la stessa linea di principi e di idee. Ponemmo nei nostri discorsi ciò che stava entrando nella coscienza del mondo. Quando venne la questione dell’Armistizio, le mie dichiarazioni furono accettate, non solo come base per concludere la vittoria, ma per mantenere la pace. Queste idee erano divenute dominio comune di tutto il mondo, Anche l’Oriente cominciava a condividerle. Indi apparve una cosa pratica quella Lega delle Nazioni che era stata considerata sino allora con un puro interesse accademico. Le Nazioni del mondo desiderarono concludere la pace su quelle basi. Quando vennero a Parigi esisteva già l’intera piattaforma della Pace. Questa piattaforma non ha relazione con le idee che appartenevano all’antica politica europea, che aveva condotto al Trattato di Londra; e cioè che le Potenze più forti potessero dettar leggi alle più deboli, e distribuire territori a loro libito. Queste idee erano state spazzate via. La nuova concezione non le ammetteva. Se gli antichi principi fossero stati ammessi, essi avrebbero violato i nuovi.
Vi sarebbe una reazione fra le piccole Nazioni, se queste vedessero altre Nazioni oppresse. Se parte della Jugoslavia venisse data all”Italia, esse direbbero: Verrà il nostro turno. Una delle maggiori ragioni per cui il popolo americano entrò in guerra, si fu perché gli fu detto che le antiche concezioni erano sparite. Quindi, se l’Italia insiste per il Trattato di Londra, essa insiste per un principio non corrispondente al nuovo ordine. Come membro della Società delle Nazioni, gli Stati Uniti sarebbero richiesti di garantire il Trattato di Londra. Se l’Italia insiste sul Trattato di Londra la questione non è suscettibile di soluzione, come ha rilevato il signor Clemenceau. Non potremmo chiedere alla Jugoslavia di ridurre il suo esercito sotto il punto necessario per mantenere la sua sicurezza contro l’Italia. La Jugoslavia non lo farà mai. Sarebbe impossibile usar la forza contro un popolo che avendo avuto il territorio violato dalla guerra causò lo scoppio del conflitto mondiale. Non può ripetersi il processo della guerra, per soddisfare i desideri che l’Italia ha n vista. Se io debbo continuare ad essere la guida, ed il rappresentante spirituale del mio popolo, non posso assolutamente consentire che alcun popolo sia sottomesso ad una sovranità che non vuole. Invece io posso consentire che qualunque popolo vada sotto la sovranità che vuole. Io sono d’accordo che l’Italia possa avere qualunque parte della penisola istriana, anche ad oriente della cima delle Alpi, se ivi un plebiscito proverà che quella parte vuole essere unita all’Italia. Ma io non consentirò che nessuna popolazione sia annessa, se essa non voterà in tal senso. Desidero far notare al signor Orlando che Gran Bretagna e Francia non possono dare nessuna parte dell’Istria all’Italia se non per i principi della pace. Questo Trattato di Pace non avrò forza, sinché non l’abbiamo firmato, cioè a dire solo nell’evento che tutte le Parti siano d’accordo. Non possiamo essere nella posizione che tre Potenze facciano quello che una non fa. Viene sempre ripetuto nella stampa italiana e da esponenti italiani, che essi non vogliono abbandonare i loro fratelli del’altra sponda adriatica. Non è possibile lasciar giudice di ciò un plebiscito? Non vi sarebbe rischio per l’Italia, se il plebiscito si effettua sotto il controllo della Lega delle Nazioni. L’Italia è parte della Lega delle Nazioni e non vi è possibilità che essa ne sia trattata ingiustamente. Se non faremo così stabiliremo un nemico all’Italia nell’altra parte dell’Adriatico. Così si rinnoverebbero i mali che sorsero nei Balcani per il passato. Entro i confini italiani i sarebbero Jugoslavi, volti coi loro occhi alle popolazioni assoggettate all’Italia dalle potenze occidentali. È impossibile per l’Italia adottare due principi. Deve andare in una direzione o nell’altra. O deve abbandonare interamente i nuovi metodi, o deve interamente abbandonare gli antichi, ed entrare nel mondo con i nuovi metodi e sotto condizioni che diano speranza di pace maggiore di quelle che siano mai esistite dapprima.
Dal tono e dai contenuti del discorso di Wilson, che sarebbe più esatto definire "lezione", come se Orlando fosse stato uno scolaretto e non il capo del governo di una nazione alleata e vincitrice, e non delle meno importanti o delle ultime arrivate, come Cina o Brasile, emerge che Wilson, forte del suo principio di auto-determinazione dei popoli, fondato, a sua volta, sul concetto di nazionalità, si sente dalla parte giusta della storia: quella dei "nuovi metodi". Voi italiani, ammonisce l’americano, siete ancorati al Patto di Londra, che è roba vecchia; se volete ostinarvi a chiedere che sia rispettato quel pezzo di carta, vi squalificherete da soli, perché l’opinione pubblica mondale non lo capirebbe, e perché i vostri vicini slavi non lo accetterebbero mai. Colpisce, in quel tono e in quei contenuti, la totale mancanza di umiltà di un americano che non sa nulla dei problemi europei, e particolarmente dei problemi adriatici e balcanici, se non quello che i suoi amicinazionalisti slavi gli hanno detto, ovviamente danno delle richieste italiane; e colpisce il fatto che egli pretenda di fissare non solo quel che l’Italia può ragionevolmente chiedere, ma anche gli argomenti in base ai quali essa può formulare le sue richieste. Insomma, lui fissa sia l’agenda, sia l’oggetto specifico delle questioni che si possono trattare; per le altre (Zara, Sebenico), meglio non dir niente. Eppure, egli non esista a usare due criteri opposti, facendo proprio quello che rimprovera al suo interlocutore. Dice a Orlando che bisogna scegliere fra il Trattato di Londra e il principio di nazionalità, quindi che l’Italia non può chiedere sia la Dalmazia, come vorrebbe Sonnino, sia Fiume, come desidera Orlando; ma, da parte sua, fa proprio la stessa cosa: nega Fiume all’Italia in quanto non prevista dal Patto di Londra, e le nega la Dalmazia in base al principio di nazionalità. Perfino per l’Istria fa il difficile, propone un plebiscito, eppure dovrebbe sapere benissimo che le città sono italiane quasi al cento per cento, le campagne in maggioranza slave: che razza di plebiscito di potrebbe fare, in tali circostanze? In realtà non ha neanche consultato seriamente un atlante: quando parla della cima delle Alpi che passa per l’Istria, vien da chiedersi dove abbia studiato la geografia. La verità è che Wilson si è "pentito" di aver accondisceso alla frontiera del Brennero per l’Italia, avendo scoperto, in ritardo, che più di 200.000 tedeschi abitavano in quella regione, e ora è ben deciso a non cedere di un millimetro sulla questione adriatica, affinché i suoi amici slavi non subiscano l’affronto di vedere 300.000 loro concittadini passare sotto la sovranità italiana (e così saranno 350.000 italiani a doversene andare, nel 1947). Non si rende conto che la Jugoslavia è un’assurdità in se stessa, nonché una patente violazione del principio di nazionalità: è l’annessione della Croazia e della Slovenia da parte della Serbia, mascherata da unione; e, come se non bastasse, essa richiede tutto ciò che i nazionalisti croati e sloveni chiederebbero, a danno dell’Italia, se potessero agire liberamente, e non come sottoposti al governo di Belgrado. Ma è vano aspettarsi coerenza da un uomo come Wilson, che è stato rieletto presidente degli Stati Unti nel 1916, promettendo di tenere il suo Paese fuori dalla guerra mondiale, e che poi, non appena eletto, ha mosso le pedine per entrare in guerra contro la Germania e anche contro l’Austria-Ungheria, che non aveva affondato alcuna nave americana e che quindi era colpevole solo di "opprimere" i sui amici slavi, che, alla corte di Washington, fin dal 1917 brigavano per la dissoluzione dell’Impero asburgico. E siccome l’appetito vien mangiando, già pensavano a ingrandire il più possibile il futuro Stato jugoslavo, sebbene croati e sloveni fossero stati i soldati più fedeli dell’Austria e quelli che più duramente si erano battuti contro l’Italia, benché fosse stata proprio la vittoria italiana del 1918 a render possibile il crollo dell’Austria e la nascita della stessa Jugoslavia. Ma alla conferenza di Parigi il contributo decisivo dell’Italia alla vittoria comune venne deliberatamente sminuito o ignorato. L’Italia, per i suoi alleati, restava quella di Caporetto. Né i nostri plenipotenziari furono abbastanza abili da capire che non era nell’interesse italiano lo smembramento totale dell’Austria-Ungheria. L’errore ulteriore dovuto al contrasto fra Orlando e Sonnino circa le richieste da avanzare – o il Patto di Londra oppure Fiume, ma non entrambe le cose – fu secondario, rispetto a questo…
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