
Neochiesa e omoeresia: chi va e chi resta
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17 Agosto 2018La storia della chiesa dei Cappuccini di via Chiusaforte ha qualcosa della parabola o dell’apologo; ed è un apologo triste, perché sancisce un doppio fallimento, sul piano religioso e su quello artistico e urbanistico. Rivela scarsa lungimiranza e mediocre capacità di progettazione, molte illusioni, alcune velleità e una buona dose di leggerezza. È un apologo perché se ne può trarre una morale, e forse un insegnamento, non solo per questa città, ma per tutte le città italiane, le quali hanno finito di crescere e i cui amministratori farebbero bene a occuparsi della qualità dello sviluppo urbano, più che della sua estensione. Anche i vertici della Chiesa potrebbero ricavare ampi spunti di riflessione da questa vicenda, se lo volessero. Ma per riflettere ci vuole umiltà, e oggi pare che la neochiesa possieda molte virtù, non tutte cristiane, ma sia sprovvista della necessaria umiltà: al contrario, più la base della Chiesa, cioè la fede, s’indebolisce, si sgretola e si contrae, più si moltiplicano gli atteggiamenti e le scelte del suo vertice, dettati da una superbia quasi folle. Forse, così facendo, quei signori, o una parte di essi (perché quelli che contano davvero sanno benissimo ciò che stanno facendo, e soprattutto perché lo fanno), s’illudono di venire incontro alle ragioni profonde della crisi e persino di porvi un rimedio, o tentare di farlo; ma la verità è che la stanno accelerando, e che, seguitando per questa via, non passerà molto che la Chiesa, così come Gesù Cristo l’ha voluta, e come duecentosessanta papi l’hanno custodita, preservata e difesa, anche a costo della vita, avrà semplicemente cessato d’esistere. Iddio poi, secondo la sua promessa, potrà farla risorgere dalle sue ceneri e perfino condurla verso una seconda giovinezza: a Dio, infatti, niente è impossibile; tuttavia, umanamente parlando, la strada imboccata dai vertici attuali è la strada dell’autodistruzione, e condurrà al suicidio.
I Cappuccini erano giunti a Udine nel 1564, fondando un convento che, inizialmente, era situato presso Porta San Lazzaro; poi si spostarono in posizione più centrale, nell’odierna via Ronchi; nel 1959 le vocazioni parevano così fiorenti che si pensò di aprire un secondo convento, in periferia, facendo le cose in grande: un centinaio di celle per i religiosi, e altrettanti posti nel coro della chiesa. Invece, alla fine degli anni ’70 il convento di via Chiusaforte è stato chiuso per mancanza di vocazioni; la chiesa, spogliata dei sacri arredi, è stata sconsacrata; e le celle dei frati sono state trasformate in laboratori per le ricerche di biologia molecolare, genetica e nanotecnologie: 500 iscrizioni a Medicina, con il numero chiuso, un trionfo della scienza, come si affretta a osservare compiaciuto, un articolista de La Repubblica (numero del 4 luglio 2005, edizione online). Come dire: i frati se ne vanno, l’oscurantismo arretra e i giovani corrono ad arruolarsi sotto le bandiere vittoriose della scienza; anzi, sotto le bandiere del futuro della scienza. Ed Eugenio Scalfari, dalle colonne del suo giornale, gongola: un altro pezzo della vecchia società clericale se ne va. Alla fine, nel 2012, i cappuccini hanno dovuto gettar la spugna anche per il convento di via Ronchi: erano rimasti solo pochi padri vecchi e malati. Ormai resistono solo nel santuario della Madonna di Castelmonte, sopra Cividale: ultima roccaforte del loro ordine in tutto il Friuli. Una débacle. Al clero progressista questo discorso non piace, ma sono i fatti a parlar da soli, nel nudo ed eloquente linguaggio delle cifre. Costruire un grandioso convento, pensato per ospitare fino a cento nuovi frati, con una chiesa avveniristica, per poi doverlo chiudere e venderlo appena una ventina d’anni dopo, tutto ciò è la testimonianza inoppugnabile del fallimento del cosiddetto spirito conciliare. Ci aspettavamo la primavera, disse lo stesso Paolo VI, invece è venuto l’inverno. Oggi è un miracolo se la chiesa non è stata abbattuta o radicalmente trasformata; alla fine, l’Università ha optato per una scelta meno drastica, quella di conservarla nella maggiore fedeltà possibile al suo aspetto originario, nonostante il radicale mutamento di funzione.
Il complesso conventuale dei Cappuccini di via Chiusaforte fu pensato alla fine degli ani ’50 e realizzato entro il 1963. Nel 1980 era già dismesso ed entrava a far parte del complesso della neo costituita Università di Udine, che lo acquistò nel 1988, la quale cercava una sede adatta per la Facoltà di Medicina e questa sembrò la collocazione ideale, vista la vicinanza dell’Ospedale civile. La Chiesa, con l’imponente facciata che prospetta su via Chiusaforte, è diventata l’Aula Magna dell’ateneo, ribattezzata Aula Massimilano Kolbe, con più di trecento sedie mobili disposte nella navata centrale, e il luogo dell’altare maggiore trasformato in uno spazio per il tavolo dei relatori. In pratica, in poco più di tre lustri un convento di religiosi è nato ed è morto, segno impressionante dei frutti amari portati dal Concilio: dal 1963 al 1980, appunto.
Scrive Licio Pavan nel suo studio Il complesso di piazzale Kobe: da convento a sede universitaria, consultabile in rete (www.uniud.it):
Il progetto generale intitolato semplicemente "Convento frati Cappuccini Udine", firmato dall’ing. Ferdinando Vicentini, viene presentato al Comune di Udine il 24 giugno 1959. (…) L’impianto progettuale è quello che potremmo definire classico per questo genere di edifici: il complesso si articola intorno ad un chiostro centrale porticato che è racchiuso su tre lati da edifici in linea (ali nord, ovest e sud) e sul quarto lato, quello ad est, dal corpo della chiesa. L’organismo presenta una simmetria imperfetta in senso trasversale lungo l’asse della chiesa. I due accessi al convento, semplici fori architettonici di ingresso senza alcun elemento di prolungamento verso l’esterno, sono previsti sullo slargo della via Chiusaforte che oggi è denominato piazzale Kolbe e sono allineati con il portico del chiostro al quale si allacciano tramite un prolungamento dei portici laterali. La chiesa è strutturata su un’unica aula, con ingresso centrale, dotata di nicchie laterali che contengono due gruppi di confessionali e quattro altari laterali. L’altare maggiore, circondato da una gradinata rettangolare e rivolto verso la parete di fondo, è collocato su un transetto leggermente rialzato che separa l’aula stessa da un profondo coro ad abside semicircolare. Tra il transetto ed il coro le porte laterali di accesso alla sacrestia, ai servizi ed alle scale per il livello inferiore che non doveva essere molto esteso. La chiesa è anticipata sul davanti da un portico-nartece che avvolge la facciata estendendosi anche su un tratto dei fianchi. I corpi, che comprendono il complesso conventuale vero e proprio, hanno altezze diverse, quello a nord ha tre piani mentre gli altri due ne hanno soltanto due. Al pianterreno nel corpo a nord sono collocate quattro aule con servizi che, insieme con quella di fisica nel corpo ovest, formavano le strutture didattiche del ginnasio che era stato istituito nel complesso. (…) La collocazione dell’altare era ancora quella prevista prima della riforma liturgica, cioè con l’officiante che volge le spalle ai fedeli. (…) Dopo le vicende napoleoniche che hanno portato, come noto, alla soppressione di numerosi conventi e alla trasformazione in senso laico di moltissime chiese in tutto il Friuli, i Cappuccini ritornano a Udine nel 1831. Negli anni ’50 del nostro secolo l’andamento delle vocazioni era molto favorevole, non soltanto in Friuli ma praticamente in tutto il mondo, e i Cappuccini, che continuavano ad operare in Friuli anche nel santuario di Castelmonte, si erano trovati a gestire una situazione insostenibile all’interno del vecchio convento di via Ronchi. Questo poteva essere già un motivo sufficiente per utilizzare l’area di via Chiusaforte che i religiosi avevano acquistato poco tempo prima, ma inoltre si coltivava il grande progetto di riunire in un unico organismo conventuale buona parte dei seminaristi di tutta l’area di influenza della Provincia Veneta dei Frati Minori Cappuccini, che comprende tutto il Veneto e il Friuli Venezia Giulia. Ciò è dimostrato dal fatto che nella fabbriceria del convento di Udine erano presenti i padri superiori delle più importanti comunità dell’intera Provincia Veneta. A prescindere dall’impostazione del complesso che abbiamo già definito classica, mi sembra giusto osservare che ci sono alcuni elementi che fanno effettivamente pensare ad uno sviluppo futuro dell’organismo. Il prolungamento del corpo nord oltre il chiostro, che è anch’esso porticato, e il doppio portico dell’ala ovest, insieme alla mancanza di fori architettonici sulle testate dei corpi nord e sud, fanno pensare all’idea, anche non troppo lontana, di un ampliamento per realizzare un secondo chiostro posteriore ed assiale al primo. (…) Il progetto si caratterizza all’esterno per l’uso pressoché integrale del mattone in vista, esteso anche alla chiesa e per l’impianto dal linguaggio fortemente tradizionale con corpi allungati coperti da padiglioni in coppi. Si tratta di un’architettura non troppo raffinata né tanto colta, piuttosto comune a quei tempi, in buona parte probabilmente frutto delle istanze della committenza, che però ha certamente una sua impronta peculiare data, come già detto, esteticamente dall’uso del cotto e planimetricamente dall’impianto pressoché simmetrico. (…) Verso la fine del 1960 il primo intervento era completato6 ; quanto realizzato era certamente sufficiente a contenere gli allievi del convento, non a caso le celle realizzate sono un centinaio. Ma, prima ancora della conclusione del primo intervento, il 24 luglio dello stesso anno vengono protocollati presso il comune di Udine i disegni di progetto del secondo lotto che viene approvato il 18 agosto 1960. Questo secondo progetto, firmato dall’arch. Giovanni Cerutti, comprende il corpo della chiesa e le parti anteriori, quelle verso via Chiusaforte, dell’organismo conventuale. (…) Si tratta in realtà di una riprogettazione completa che è molto evidente soprattutto nell’architettura della chiesa, scandita in pianta da grossi setti che si prolungano nelle cappelle laterali e attorno al grande coro, separato praticamente dall’aula secondo l’uso conventuale. E’ evidente in questa architettura, molto simile a quella che è quella realizzata, che la chiesa intendeva rivolgersi alla collettività "esterna" dei fedeli e per questa ragione il luogo di preghiera dei religiosi doveva essere separato dall’aula. Questa si articola in due cori laterali adiacenti alla zona dell’altare maggiore e in sei cappelle.
Questi luoghi sono particolarmente cari alla nostra memoria. Da quando abbiamo "scoperto" la via Chiusaforte, al tempo della quinta elementare, per via di un compagno di classe che abitava nell’adiacente via Aonez, essa divenne una delle mete preferite delle nostre passeggiate fuori città. Ampio, diritto come una freccia rivolta verso il Nord, verso le montagne, tranquillissimo, per non dire quasi deserto, fiancheggiato da alti e frondosi platani nel primo tratto, poi aperto sull’orizzonte della campagna, ma sempre in vista delle cime degli abeti e dei cedri che appartenevano al parco dell’ospedale, e che a noi parevano le avanguardie delle misteriose foreste settentrionali, sembrava non aver fretta di condurre in alcun luogo preciso e suggeriva l’idea di un eterno andare, il che ce lo rendeva ancor più caro. Perché una strada deve per forza finire in un luogo trafficato? Perché non può semplicemente indugiare fra i campi, sotto il cielo aperto, senza un fine pratico ben definito, ma così, solo per la gioia di chi ha voglia di camminare, di pensare e di sognare? È meravigliosa l’età in cui si fanno queste scoperte: gli orizzonti cominciano ad allargarsi, ma non troppo, sicché si può immaginare l’ignoto appena oltre le ultime case di periferia, o forse dietro la catena di monti che si erge all’orizzonte; l’età in cui si scopre che il mondo è tanto più grande, ma in fondo tanto più piccolo, di quel che si credeva nell’infanzia. La chiesa dei Cappuccini, con la facciata triangolare molto acuta e le pareti laterali a capanna, si erge audacemente, a circa un terzo della sua lunghezza, sulla destra, in un piccolo spiazzo laterale. Qui, una volta, la piccola compagnia teatrale messa insieme da nostro fratello tenne le prove, e poi diede la rappresentazione, di una strana opera visionaria, sanguigna e barocca, Danza macabra di Michel de Ghelderode, di un drammaturgo belga influenzato dal "teatro della crudeltà" di Atonin Artaud; e a differenza delle sue precedenti rappresentazioni amatoriali, La Giara di Pirandello, presso il teatro parrocchiale del Tempio Ossario, e Non si sa come, sempre di Pirandello, presso il teatro di San Quirino, questa volta la scelta si rivelò alquanto azzardata e il pubblico, formato soprattutto dai buoni frati cappuccini, mostrò benevolenza, ma diede anche comprendibili segni di perplessità. A quell’epoca, cioè verso il 1969, col senno di poi, ci rendiamo conto che essi dovevano avere ben altre preoccupazioni: erano arrivati lì da pochi anni, e già si profilava il tracollo della loro impresa. Il grande convento, che avrebbe dovuto richiamare i giovani confratelli da tutto il Veneto e il Friuli, continuava a restare quasi vuoto, terribilmente sovradimensionato. Non c’è nulla di più angosciante di una grande costruzione, pensata e realizzata per ospitare un gran numero di persone, che rimane semivuota: quelli che ci abitano hanno l’impressione di essere i soli superstiti d’un imprevedibile naufragio. E così è stato, in effetti: la Chiesa ha fatto naufragio nel corso degli anni ’60 del Novecento e, da allora, non è più riuscita a mettere dritta la barra del timone. I nocchieri che si sono succeduti al suo comando hanno perseverato nell’errore, non hanno voluto imparare niente dai fallimenti e hanno insistito nella strategia di rincorrere gli umori e le passioni del mondo, vizi e peccati compresi…