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4 Marzo 2023
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Chi ha portato l’odio

«Chi ha portato l’odio fra gli Italiani?», si domanda un blog che, in questi giorni, prende spunto dalla aggressione subita a Milano dal presidente Berlusconi.

Una domanda mal posta e tendenziosa, in verità, poiché sembra suggerire che, fino a ieri o all’altro ieri, l’odio non avesse cittadinanza, nel Bel Paese dove fioriscono i limoni e dove ogni scontro, pubblico o privato, finisce allegramente a tarallucci e vino.

In parte, questa retorica e questa ipocrisia nascono da un vecchio vizio della nostra gente: quello dell’autocelebrazione smaccata, inevitabile rovescio della medaglia di una sistematica e pertinace autodenigrazione.

Gli Italiani, per ragioni storiche che rimontano molto addietro, come popolo non si stimano; semmai si stimano come individui. E un popolo che non ha stima di sé, non forma una vera nazione: come si è visto l’8 settembre del 1943, una data che non è mai stata veramente superata, una ferita che non si è mai rimarginata nel nostro tessuto nazionale.

Inoltre, chi non ha stima di sé, non si vuole veramente bene: per questo si compiace di parlar male di se stesso, anche davanti agli altri, anche davanti agli stranieri (tratto caratteristico degli Italiani e non riscontrabile negli altri popoli dell’Europa occidentale). Però, siccome è cosa dura sopportare un perenne disprezzo di se stessi, chi possiede un basso livello di autostima va improvvisamente soggetto, a scatti e in tempi imprevedibili, a violenti soprassalti di autoesaltazione, quasi di furore, che nascono dall’orgoglio ferito in cerca di rivalse.

Si pensi alla disfida di Barletta; si pensi al «Se voi suonerete le vostre trombe, noi suoneremo le nostre campane» di Pier Capponi; si pensi a Balilla che, nella Genova del Settecento, prende a sassate gli occupanti austriaci (e piemontesi, ma questo la storia edulcorata ad uso patriottico non lo dice); si pensi, soprattutto, alla vuota retorica degli «Italiani brava gente», creata dal cinema e dalla letteratura sulla seconda guerra mondiale, forse per compensare il disprezzo di sé da parte di un popolo che ha vissuto l’ignominia dell’8 settembre

Tutto questo si lega con l’emotività degli Italiani, specialmente quelli del Sud: basta confrontare le scene di un funerale in un paese della Sicilia, con quelle analoghe di un paese del Friuli o di uno del Nord Europa (dove il secondo assomiglia molto di più al terzo che al primo). L’emotività è mancanza di senso della misura, ma si traduce anche in scoraggiamenti ingiustificati e in ventate di euforia altrettanto fuor di luogo. Manca la saldezza di propositi, mancano la tenacia e la perseveranza.

Dunque, diciamolo tranquillamente: oltre che un popolo di santi, di poeti, di artisti e di navigatori, gli Italiani, né più né meno di qualunque altro popolo, sono sempre stati anche un popolo di buoni odiatori, specializzati nell’odio politico, particolarmente contro i potenti del giorno prima. Il trattamento riservato a Cola di Rienzo, a Mussolini, a Craxi travolto dal ciclone Tangentopoli (quando parlamentari leghisti agitavano il cappio nella Camera dei deputati) sono episodi sufficientemente rappresentativi in proposito.

Non vi era dunque la necessità che qualcuno portasse loro i germi dell’odio, perché un tale sentimento – specie, lo ripetiamo, a livello politico – esisteva già, ed è sempre esistito nel nostro Paese. I giorni di Caino del 1945, quando, dopo la fine delle ostilità, migliaia di persone sono state massacrate nelle case e per le strade, spesso senza aver commesso alcun crimine, per puro odio politico, dovrebbero bene aver insegnato qualcosa riguardo a ciò, sfatando il mito narcisista del popolo dal cuore grande così.

Si prenda in mano la novella «Libertà» di Giovanni Verga, ove si narrano gli eventi di Bronte del 1860: si scoprirà che i contadini siciliani dell’epoca garibaldina non avevano nulla da imparare, in quanto ad efferatezza contro uomini inermi, donne e bambini innocenti, dai sanculotti della Parigi giacobina del 1793. E quella è storia, non letteratura: con buona pace del populismo, del progressismo e di cento altri «ismi» politicamente corretti, che vorrebbero sempre i popolani miti e compassionevoli, e i nobili o i ricchi borghesi, sempre stupidi e crudeli.

Detto ciò, possiamo domandarci non chi abbia portato l’odio politico fra gli Italiani, ma perché e come la presente stagione politica sia particolarmente inquinata dal sentimento dell’odio: più, ad esempio, di quella degli anni della ricostruzione e del «boom» economico; ma, certamente, non più di quella del terrorismo e degli anni di piombo.

Perciò, la domanda corretta dovrebbe essere: posto che la presente stagione politica sia una stagione particolarmente avvelenata dall’odio, come e perché ciò è accaduto? Meglio ancora: chi, come e perché ha soffiato sul fuoco di un odio che già esisteva, allo stato più o meno latente, nell’animo di moltissimi Italiani?

Innanzitutto, bisogna sgombrare il campo da una semplificazione inaccettabile: cioè che odiare e passare alla violenza fisica siano una sola e medesima cosa; e che, per evitare che la gente incominci a scagliare statuette in faccia agli avversari politici, o, peggio, a sparare loro addosso, sia necessario sopprimere, rimuovere, sradicare interamente il sentimento dell’odio.

Se non si fa questa distinzione, si finisce dritti dritti per autorizzare metodi repressivi da psicopolizia, degni del Grande Fratello orwelliano: vale a dire, basterà dichiarare di odiare qualcuno, o essere sospettati di odiare qualcuno, per essere trattati automaticamente da pericolosi criminali. Finiranno per metterci un microchip in testa, per spiare i nostri pensieri e sentimenti, e gettarci in gattabuia se scopriranno che fra essi vi è anche un sacrosanto e comprensibile odio. Il che, sia detto per inciso, è probabile che accadrà entro breve tempo, visto che perfino le aberrazioni immaginate da Orwell sono diventate un ghiottissimo «reality» televisivo, seguito da milioni di persone entusiaste in tutto il mondo.

L’odio, dunque, già esisteva: ed era tanto più profondo, quanto più gli Italiani sembrano eternamente rassegnati (ed è questa una delle cose che maggiormente colpiscono l’osservatore straniero) a subire l’occupazione del territorio e il saccheggio delle ricchezze nazionali, da parte di una classe dirigente – dirigente, e non solo politica – che non ha eguali, in Europa occidentale, per avidità, corruzione, cinismo, amoralità e sfrontatezza.

L’Italiano medio odia la politica e, soprattutto, odia i politici. Per lui, i signori del Palazzo sono tutti uguali, senza distinzioni di destra, sinistra e centro: li vedrebbe volentieri tutti quanti trascinati via in catene, per non dire peggio; è non è qui il caso di stare a discettare se ciò sia frutto di inveterato qualunquismo o ne sia, invece, la causa; né se sia nato prima l’uovo della classe politica cialtrona, o la gallina del popolo asociale e menefreghista.

Di tanto in tanto, quasi per una reazione fisiologica, scoppiano improvvisi innamoramenti fra l’Italiano medio e un determinato uomo politico, il quale, chissà come, viene percepito come vendicatore dei suoi diritti conculcati e della sua frustrata sete di giustizia; seguiti, con matematica regolarità, da altrettanto repentine esplosioni di furore. Oggi il salvatore della Patria viene osannato da oceaniche folle plaudenti, domani sarà trascinato a Piazzale Loreto, appeso per i piedi e dileggiato, sputacchiato, qualcuno giungerà ad orinargli addosso…

Emotività, certo; ma anche qualcos’altro: una strutturale, fisiologica incapacità di partecipare in modo maturo alla vita politica; di scegliersi rappresentanti degni; di uscire dalla mentalità del suddito per entrare in quella del cittadino; di esercitare un controllo su coloro ai quali si è espressa fiducia, ma non si è firmata alcuna cambiale in bianco; di distinguere il piano della politica da quello dello spettacolo, finendo per credere alla realtà di cartapesta evocata dallo stesso immaginario collettivo, salvo andare poi a sbattere contro le più amare disillusioni.

I politici italiani sanno tutto questo; sanno, in particolare, di non essere amati; ma sanno anche che, per atavica pigrizia e pusillanimità, l’Italiano medio li sopporterà con pazienza infinita; che tollererà le loro malversazioni, le loro ruberie, la loro arroganza quotidiana; perdonerà perfino i loro voltafaccia repentini, al servizio del potere di turno: e le cronache nostrane sono piene di questi transfughi, non dell’ideale, ma della mangiatoia. Da destra a sinistra e da sinistra a destra: senza dignità, senza pudore, senza un briciolo di coerenza: individui che, in gergo mafioso (si ricordi il don Mariano de «Il giorno della civetta»), non meritano neanche il nome di uomini, ma, al massimo, di «ominicchi», se non proprio di «quaquaraquà».

I politici italiani sanno tutto questo, ma se ne infischiano e dormono sonni tranquilli: perché sono certi che potranno alzare la posta a loro piacimento, aumentarsi lo stipendio, garantirsi l’impunità assoluta, farsi le leggi smaccatamente «ad personam»: i mugugni, infatti, non hanno mai ammazzato nessuno, e il popolo bue non andrà oltre il mugugno e il brontolio. Sanno benissimo che l’Italiano medio si lamenta, impreca, sbuffa in privato; ma, in pubblico, diventa quieto e paziente come un agnellino, perfino timido, umile, remissivo.

E perché lo sanno? Perché l’Italiano medio è come la vecchina di Siracusa, che pregava perché gli dèi conservassero in buona salute il crudele tiranno Dionigi: è rassegnato, cioè, al cerchio infernale dei pessimi politici, e sente, in cuor suo, che a quelli disonesti, incapaci e prepotenti di oggi, faranno seguito quelli ancor peggiori di domani. Perciò, in fondo, tanto vale rassegnarsi, e sfogarsi con qualche battuta da osteria, come: «piove, governo ladro».

È inutile osservare che un popolo cosiffatto, anche se si ritiene (quasi certamente a torto) migliore della propria classe dirigente, in effetti è giusto che sia governato da politici di tale sorta: il solo fatto che non creda umanamente possibile averne di migliori, testimonia a sufficienza la bassa opinione che, in fondo, ha di se stesso, e la totale mancanza di orgoglio e di fierezza. Infatti, una legge fondamentale della vita è che, in essa, ci vengono incontro le cose per le quali siamo pronti, e non altre: come dire che, se davvero apparissero sulla scena dei politici seri, onesti, disinteressati e competenti, molto probabilmente l’Italiano medio non li vedrebbe neppure, tanto convinto egli è che i politici siano, in realtà, tutti uguali: tutti ladri, arroganti, inetti, e persino in odore di mafia o di camorra.

Dunque, bando alle ipocrisie e riconosciamo con franchezza che, fra gli Italiani ed i loro politici, non vi è alcun rapporto di stima, ma solo odio impotente da parte dei primi, disprezzo e bassa demagogia da parte dei secondi. Chi non ha capito questo, o chi non ha l’onestà intellettuale di riconoscerlo, si preclude anche la possibilità di capire la nostra storia, compresa quella recente: in particolare, gli anni di piombo e quell’alone di tacito consenso che ha accompagnato, almeno fino al caso Moro, le sanguinarie imprese delle Brigate Rosse.

Dicevamo che, ogni tanto, compare un politico che si proclama «diverso»: un Cola di Rienzo, un Mussolini. Dice di venire dal popolo, e di voler andare verso il popolo: si presenta come il vendicatore delle offese e delle umiliazioni che il popolo subisce da sempre ad opera della classe politica. Sboccia l’amore (non è possibile adoperare altra espressione; lasciamo a Gustave Le Bon e agli studiosi della psicologia delle folle di approfondire i meccanismi specifici di esso), basato sul sottinteso, esplicito o implicito, che la colpa di tutto ciò che va male è degli «altri». Lui, il capo carismatico, non sa che i suoi ministri e collaboratori rubano e impazzano; essi lo ingannano; se lo sapesse, li metterebbe a posto…

Tutti conoscono la barzelletta di Mussolini e del disoccupato. Un giorno un disoccupato, ridotto ormai alla disperazione, decide di rivolgersi al Signore Iddio per chiedergli aiuto, precisamente mille lire. Scrive una lettera, e, non sapendo dove indirizzarla, segna sulla busta: «Al Padre Eterno». Il postino legge la scritta e non ha dubbi, la recapita a Palazzo Venezia. Qualche giorno dopo (quella volta la posta arrivava in tempi ragionevoli, due volte il giorno) il disoccupato si vede recapitare una busta contenente cinquecento lire. È felice, certo, però i conti non gli tornano; tuttavia, non vuole comportarsi da ingrato, e si affretta a scrivere una letterina di ringraziamento, che così conclude: «Caro Padre Eterno, la prossima volta non mandarmi i soldi per il tramite di quel ladro di Mussolini, che si è tenuto cinquecento lire».

Bisogna poi aggiungere un’altra considerazione. Il politico, in cuor suo, sa di essere odiato dalle persone comuni, anche se ostenta di credere il contrario; e ricambia il sentimento mettendo, nel proprio modo di agire, una dose supplementare di arroganza, di sfacciataggine, perfino di irrisione: in poche parole, provoca. Assume atteggiamenti sempre più istrionici, sempre più sguaiati, sempre più mascalzoneschi: è come se volesse vedere fino a dove potrà spingere la propria burbanza, e fino a che punto arriveranno la stanchezza e la rassegnazione dei sudditi…

In breve, si innesca una gara fra lui e loro: lui a rendersi quanto più odioso possibile, quanto più invasivo, imponendo il suo faccione sprezzante persino negli spettacoli di varietà, come se non bastassero le ore ed ore di presenza sugli schermi televisivi dei programmi «seri»; loro, sempre più sdegnati ed esasperati, ma, al tempo stesso, sempre più inebetiti e rinunciatari.

E poi qualcuno finge di meravigliarsi se monta la rabbia; se l’odio lungamente accumulato, alla fine, erompe tutto a un tratto: scomposto, furibondo, irragionevole…

Come se ne esce?

I nostri rappresentanti istituzionali, che auspicano un giro di vite repressivo nei confronti di Internet, della stampa e della stessa politica, fingono di non sapere che negli Stati Uniti d’America, da loro continuamente citati ad esempio di democrazia compiuta, si può tranquillamente inneggiare non soltanto all’odio, ma anche alla morte di qualsiasi uomo politico, Presidente in testa; e, di fatto, in quel Paese milioni di persone si augurano la morte di Barak Obama, sia sulla rete informatica, sia nelle manifestazioni di strada, gratificandolo inoltre di epiteti come «sporco negro» e invitandolo a risalire sugli alberi, a mangiar banane.

Lasciamo perdere, in questa sede, lo scomodo interrogativo sulle cause di una così larga tolleranza da parte delle istituzioni politiche americane nei confronti del (chiamiamolo così) dissenso: se, cioè, essa derivi da un altissimo senso del valore della democrazia, che garantisce libertà di espressione anche al peggior nemico (eco del volterriano e insincero: «Non sono d’accordo con te, ma darei la mia vita perché tu possa esprimere liberamente la tua opinione»); oppure, molto più prosaicamente, da una brama illimitata di pubblicità, di qualunque tipo (anche negativa) e con qualunque mezzo, sul tipo della filosofia da gossip: «che parlino male di me, purché ne parlino».

Ma noi non siamo gli Stati Uniti d’America, per fortuna o per disgrazia, secondo i punti di vista (per fortuna, secondo il nostro). Da noi, un politico che si sente vilipeso da un comico o da un vignettista di giornale, non esita a querelare il malcapitato. È pur vero che, da noi, un vice-ministro può essere oggetto di una richiesta di arresto – non di indagine, ma di arresto – da parte delle forze dell’ordine, per il più infamante dei reati: collusione con la criminalità organizzata; e ottenere la solidarietà piena e incondizionata del Parlamento, nonché l’immunità. Cosa che, oltre Atlantico (ma anche oltr’Alpe), sarebbe semplicemente inconcepibile, perché laggiù è sufficiente il sospetto che la moglie di Cesare sia infedele al marito, perché si debba dimettere seduta stante, lasciando l’amatissima poltrona.

L’Italia, dunque, non è gli Stati Uniti d’America; non è nemmeno Europa occidentale, politicamente parlando; ma, al massimo, la Bielorussia o il Montenegro, per non dire la Colombia dei «narcos» o la Taiwan del capitalismo selvaggio. Tale, almeno, è la percezione che il mondo ha di essa, specialmente in questi ultimi anni; con buona pace di quei politici sfrontati che negano siffatta evidenza, accusando chi la menziona di coltivare sentimenti antinazionali.

E allora?

Il problema non è tanto quello di superare la cultura dell’odio politico, ma di superarne le cause, che risiedono in un rapporto viziato e patologico fra il cittadino e i suoi rappresentanti istituzionali. L’odio, in se stesso, non è altro che una spia di allarme, come lo è la febbre rispetto alla malattia: non è certo eliminando i sintomi, che si riconquista la salute.

Ma come risalire, controcorrente, secoli e secoli di sfiducia reciproca, di disistima, di rassegnazione, di complicità reciproche fra i politici che predicano bene e razzolano malissimo, e i cittadini che a parole vogliono giustizia, lavoro e pace sociale, ma, in pratica, desiderano impunità per le loro piccole furberie, per gli abusi edilizi, per l’evasione fiscale, per le discariche abusive, per le pensioni d’invalidità fasulle, per i certificati medici truccati?

Gira e rigira, si torna sempre al punto di partenza. È difficile immaginare una società che possieda una classe dirigente molto migliore o molto peggiore del livello etico, professionale e culturale del cittadino medio; difficile, per non dire impossibile. Ogni botte dà solo il vino che ha: il vino non può essere né più buono, né più cattivo di quella determinata annata.

Non resta che sperare nei giovani: nei cittadini e nei politici di domani. Ma certo non saranno migliori di quelli di oggi, se non verranno loro insegnati, e più con l’esempio che a parole, i valori cardine dell’onestà, della sobrietà, della competenza, del disinteresse, della dedizione al lavoro, dell’amore per il bene comune.

Quello dell’odio è, a ben guardare, un falso problema: l’ennesimo polverone per coprire i veri termini della questione. Che sono questi: serve una classe dirigente più decente; servono una coscienza politica più matura, un rispetto della legalità più generalizzato.

Serve, soprattutto, che questi valori siano trasmessi dalle famiglie, dai genitori, prima ancora che dalla scuola; magari spegnendo la televisione, ogni tanto. Specialmente quando mandano in onda velenose porcherie come «Amici» di Maria De Filippi o come «Il Grande Fratello»: dove tutto si può imparare, tranne che quei valori.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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