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Omaggio alle chiese natie: S. Paolino d’Aquileia

Con la chiesa di San Paolino d’Aquileia siamo sul limite, sia in seno topografico che in senso cronologico. Topografico, perché sorge sul lato esterno dell’anello dei viali che delimita il centro storico dalla periferia, seguendo, press’a poco (tranne che all’estremità sud e a quella nord-est) l’antico tracciato della quinta e ultima cerchia delle mura trecentesche, e dunque è proprio sul bordo fra due mondi, quello interno, cittadino, e quello esterno, rurale. Cronologico, perché è stata costruita fra il 1964 e il 1971, dunque proprio negli anni a cavallo del Concilio e anche nell’ultima, significativa fase dell’espansione edilizia italiana, quando il boom economico stava già entrando nella fase discendente, ma non in questa parte d’Italia, dove è arrivato in ritardo e quindi si sposta in avanti di un decennio (si chiuderà col 1976, con il terremoto del Friuli, che chiude un’epoca, anche in senso storico più generale). Diciamo subito che la chiesa non è bella, come non è particolarmente bella la cornice urbanistica in cui s’inserisce. Quando mai sono stati belli i viali di circonvallazione delle città moderne, percorsi ogni giorno da migliaia e migliaia di veicoli, intasati, rumorosi, viziati da un’aria irrespirabile? E tuttavia… Tuttavia, questa forse è una delle eccezioni alla regola. Tanto per cominciare, la costruzione dei passanti autostradali ha risparmiato alla città gran parte del traffico di passaggio: chi deve andare da Venezia a Tarvisio non ha più bisogno di passare di qui e perciò, stranamente, oggi questi viali sono meno trafficati di quanto lo fossero cinquant’anni fa, o, comunque, non più di allora, in cui pure circolavano tanti meno veicoli di adesso. In secondo luogo, i viali della circonvallazione udinese sono molto larghi, perlopiù doppi, con una duplice fila di platani e una ininterrotta aiola centrale che li accompagna e dà loro respiro; su tutto il lato ovest essa è fiancheggiata anche dal canale Ledra, largo e profondo come un piccolo fiume dalle rive erbose, per cui non si ha l’impressione opprimente e quasi angosciosa di essere imprigionati in una sorta di girone infernale, dove bisogna correre incessantemente con le auto, e chi si ferma è perduto: quasi sempre c’è spazio sufficiente per accostare, per parcheggiare, per guardarsi intorno, per cercare con calma un indirizzo. In terzo luogo, le case costruite lungo di essi, su entrambi i lati, esterno e interno, non sono così brutte, anonime e squallide come lo sono in centinaia di altri casi; al contrario. Se si cammina a piedi e si dispone di un paio d’occhi per vedere, si fanno non poche piacevoli sorprese: villette in stile liberty (ce ne sono tantissime), palazzine caratteristiche, muretti, giardini, osterie e bar di una volta, scorci interessanti; si passa perfino davanti a due delle antiche porte cittadine, porta Aquileia a sud-est e Porta Villalta a nord-ovest, e fino al 1955 si poteva anche ammirarne una terza ancora intatta, porta San Lazzaro, davanti a piazzale Paolo Diacono, che amministratori incoscienti e insensibili, presi da quella forma di demenza senile pressoché inguaribile chiamata modernità, hanno fatto abbattere senza alcuna necessità strutturale, ma solo per facilitare il traffico in entrate e in uscita dal borgo (la pizzeria Alla Lampara si appoggia ancora su un tratto delle vecchie mura).

La chiesa di San Paolino di Aquileia sorge lungo il viale Trieste, all’angolo di via XXX Ottobre, in un tratto dove le case sono spaziate da giardini privati e l’aiola spartitraffico è talmente ampia da contenere, oltre a una fila ininterrotta di grandi platani, anche una edicola di giornali; d’estate ci si fermano i chioschi delle angurie e ci si può sedere al fresco. Particolare curioso, in questo tratto della circonvallazione le case del lato interno sono più moderne, e quindi assai meno interessanti, di quelle del lato esterno: una inversione significativa, dato che di solito avviene il contrario. Ciò è dovuto al fatto che in quasi tutto l’angolo sud-orientale del centro i vecchi edifici sono stati demoliti per costruire condomini moderni, creando delle zone residenziali in aree verdi e tranquille, molto appetibili dal punto di vista immobiliare, perché uniscono la comodità di essere in centro alla pace che di solito si trova in periferia; per vedere ancora i vecchi muri e le vecchie case, bisogna sgattaiolare nelle ultime roccaforti della città di un tempo, come la lunga e stretta via Petrarca, mentre via Bertaldia è ormai quasi tutta rifatta. La chiesa, dicevamo, è tutt’altro che bella, pur se non raggiunge gli orridi livelli programmati scientificamente in omaggio allo spirito conciliare, che hanno imbruttito l’Italia a partire dagli anni ’70 e ancora non hanno finito d’imbruttirla, e che, cosa ancor più grave, hanno sottratto ai fedeli la dimensione della spiritualità, del raccoglimento e della trascendenza, in nome di una idea tutta immanente e laica della fede (Dio solo sa come la fede possa essere anche laica!), glie l’hanno letteralmente scippata ed essi ne sono rimasti orfani. È un edificio a pianta centrale, esagonale, rialzato rispetto al piano stradale; le falde della copertura, che si congiungono nella lanterna, sono doppie per ogni faccia dell’esagono, ed è questa forse la caratteristica più spiacevole, una moltiplicazione della forma a capanna che fa venire in mente una testa sulla quale si vogliono posare, chissà perché, numerosi cappelli invece di uno solo. Entriamo, sperando in un miracolo, come talvolta accade (per esempio nella chiesa della Beata Vergine di Fatima, in via Colugna), cioè in qualcosa che possa riscattare l’insulsaggine dell’esterno; e invece l’impressione di mediocrità non cambia, anzi, se possibile ciò che si offre allo sguardo è ancora più banale di ciò che appare da fuori. Le pareti sono rivestite di mattoni in faccia a vista, e i soliti pilastri di cemento, insieme alla nudità da capannone industriale dei muri, e alla scarsa luminosità del locale, fanno sì che l’ambiente non trasmetta alcuna emozione al fedele, semmai lo allontana. Chi entra per pregare, a nostro avviso, non trova affatto l’atmosfera propizia. Questo è il trionfo della teologia della svolta antropologica e del quinto vangelo di Fabrizio De André, dove al centro del discorso non c’è Dio, ma l’uomo, che giustifica e addirittura glorifica se stesso. In una (brutta) canzone di quel bravo cantautore che è stato Luigi Tenco, Cara maestra, si rimprovera il parroco perché la sua chiesa è rivestita di ori e marmi colorati e, il povero che ci entra non potrà mai sentirsi come fosse a casa sua: ora proprio questa idea sembra aver ispirato, si fa per dire, il progetto della chiesa di San Paolino. Il guaio è che il fedele, povero o ricco che sia, proveniente da una catapecchia o da un palazzo principesco, in chiesa non deve sentirsi come fosse a casa sua, ma deve sentirsi nella casa di Dio: perché la casa del fedele è la casa dell’anima, della cita soprannaturale illuminata dalla fede, e per sentirsi a suo agio non ha bisogno che un architetto modernista costruisca una chiesa che pare una casa del popolo, ma ha bisogno di un architetto cristiano che concepisca e realizzi una chiesa come deve essere e come le chiese sono sempre state: la casa di Dio, nella quale le anime si sentono anch’esse a casa loro, ma solo perché la casa di Dio è la casa delle anime che vogliono santificarsi, spogliandosi dell’uomo vecchio e uscendo dal proprio egoismo e dal proprio angusto orizzonte terreno.

Si potrebbe perciò fare un discorso analogo a quello che riguarda la pastorale neomodernista e progressista, e anche la liturgia antitradizionale: è inutile escogitare cento nuovi espedienti per dare alle anime l’impressione che Dio sia a portata di mano, se l’anima è lontana da Lui; e l’anima sarà sempre lontana da Lui, finché pretende che il sacro si abbassi al livello del profano, e che, piena di passioni umane, possa trovare le condizioni adatte per udire la voce di Dio. Se l’anima cerca davvero Dio, non serve che le si offrano delle chiese che paiono capannoni o magazzini, tanto per far vedere che Dio è vicino agli uomini d’oggi; Dio è vicino agli uomini di qualsiasi tempo, se gli uomini sono disposti a fargli posto nella loro vita, se sono capaci di rinunciare al loro io per dire di sì al suo invito: allora Dio diventa vicino, allora è possibile incontrarlo, udirlo, sentirlo. L’idea di rendere Dio moderno (e magari, come dice il signore argentino, non cattolico), l’idea di rendere il Vangelo più credibile, adottando lo stile della modernità, è ridicola e pericolosa, perché genera un equivoco su un punto essenziale: e cioè suggerisce l’aspettativa che Dio ci venga incontro, anche se noi non siamo disposti a uscire da noi stessi. Solo a chi dice Padre, sia fatto come tu vuoi, non come voglio io, Dio si rende vicino; e solo chi prende la sua croce per seguire Gesù, trova davvero ciò che stava cercando: diversamente, non lo troverà mai. Quaesivi et non inveni, diceva il giornalista Ricciardetto, al secolo Augusto Guerriero, il quale si piccava di essere anche una specie di teologo; ma è lecito dubitare che abbia mai cercato veramente. Se si cerca Dio con animo sincero, e se si è disposti a sbarazzarsi del fardello del proprio uomo vecchio, Dio si finisce per incontrarlo, in un modo o nell’altro. Se non altro perché Lui ci sta già cercando, è già vicino a noi, vicinissimo, proprio dietro le spalle; ma per poterlo vedere e udire, bisogna spegnere i riflettori e lasciar perdere tutto ciò che è esteriore, tutto ciò che non è essenziale. Non parliamo poi del diabolico consumismo: chi adotta uno stile di vita improntato ad esso, non solo non troverà Dio, ma troverà sicuramente il suo e nostro nemico, l’antico avversario, che del consumismo si serve per traviare le anime. E allora, facciamola finita con l’equivoco delle chiese ultramoderne, dei preti operai e dei vescovi di strada: sono tutte forme demagogiche di falsa spiritualità; la vera spiritualità è modesta, è silenziosa, è umile, è discreta, non si fa notare, non grida, non strepita, non batte la grancassa, cerca di passare inosservata, ma va dritta verso l’essenziale. Riconosce con sicuro istinto quello che è vero e quello che è falso nella ricerca di Dio; scansa quello che è falso e si accosta a ciò che è vero, anche se questo significa affrontare solitudine, incomprensione, sacrifici, isolamento e perfino maldicenza o persecuzioni vere e proprie, magari da dove meno si potrebbe immaginare che arrivino: dalla chiesa stessa. Non la Chiesa vera, evidentemente; non la Sposa di Cristo, quella fondata sulla roccia di San Pietro; ma quell’altra, quella sua trista contraffazione modernista, che abbiamo chiamato neochiesa e che è stata costruita per allontanare le anime da Dio e per dissolvere il patrimonio della fede, non per avvicinare le anime a Dio, né per rinsaldare il bene inestimabile della luce di Cristo che è venuta a illuminare il mondo.

Tornando ai nostri ricordi, questa zona della città l’abbiamo frequentata perché lì vicino, in via Sistiana, abitava un nostro professore, dal quale abbiamo preso anche delle lezioni private di latino. Si annunciavano già i disastri della riforma scolastica del 1963 e chi, alle superiori, intendeva iscriversi al liceo, o anche all’istituto magistrale, faceva bene a rimboccarsi le maniche, perché quelle quattro nozioni sgangherate ricevute alla scuola media erano insufficienti; mentre fino al 1962, alle medie, si studiava un latino coi fiocchi, si facevano persino le traduzioni in italiano, come adesso non le saprebbero fare nemmeno gli studenti dei licei. La chiesa di San Paolino d’Aquileia era pressoché terminata, ma nulla ci suggerì mai di entrare; lo avremmo fatto solo molti anni dopo, e ne avremmo riportato le impressioni che abbiamo detto. Ma chi era questo personaggio che un turista, capitato qui da tutt’altra parte d’Italia, sicuramente non ha mai sentito nominare? Ebbene, sorpresa!, è stato uno dei padri spirituali dell’Europa: dell’Europa vera, quella fondata sull’unità spirituale dei suoi popoli, non sull’usura delle banche, come oggi: e perciò quella cristiana, pensata dalla mente geniale di Carlo Magno, ma alimentata dalla fede vigorosa di quei nostri antenati. Nato ad Aquileia prima del 750, morto nel gennaio 803 a Cividale, fu uno dei sette saggi che l’imperatore chiamò ad Aquisgrana per elaborare un progetto culturale unitario, e ciò dà un’idea della sua statura intellettuale e del suo prestigio morale. Patriarca di Aquileia (che era uno dei patriarcati più grandi d’Italia e dell’Europa occidentale), il secondo che abbia portato il suo nome, fu pastore solerte e instancabile, combatté le eresie, specie quella adozionista professata da Elipando di Toledo, che negava la consustanzialità del Figlio al Padre, con trattati e libelli, e si dimostrò versatile in molti ambiti, dalla teologia alla letteratura e alla musica. Altro che Rinascimento, il vero Rinascimento è qui, proprio nel cuore del Medioevo cristiano, al contrario di quello che hanno insegnato i signori illuministi, da Voltaire a Umberto Eco: nell’alto Medioevo, in pieno secolo ottavo. Quanto a San Paolino, tre furono i settori nei quali prodigò spiralmente le sue cure pastorali: la riforma liturgica, volta riportare la decaduta liturgia all’antico splendore; la lotta contro gli eretici, che minacciavano l’unità della Chiesa; e il fervore missionario, diretto specialmente verso le inquiete popolazioni barbariche dell’Europa orientale, in particolare verso gli àvari, ai quali inviò intrepidi sacerdoti affinché li convertissero. Nessuna di queste tre cose piacerebbe, oggi, ai rappresentanti della neochiesa. La riforma liturgica conciliare, l’abbiamo vista e stiamo ancora assistendo, ogni giorno di più, alle sue aberranti propaggini: essa va nella direzione diametralmente opposta a quella voluta da Paolino; toglie bellezza al sacro, e con ciò tradisce la sua origine modernista e in sostanza irreligiosa, perché il culto di Dio esige la bellezza, non può prescindere da essa. Lottare contro le eresie? Giammai: tanto più che le eresie non ci sono più, sono scomparse, i nemici interni della Chiesa si sono dissolti, ora sono tutto amici: tale è lo spirito del Concilio, fin dal discorso di apertura dei Giovanni XXIII. Fervore missionario? Ma per carità: bisogna rispettare le altre fedi, camminare a braccetto con esse, marciare per la pace, eccetera; non ha forse detto, il signore argentino che l’apostolato è una solenne sciocchezza? Ecco allora l’estrema attualità di san Paolino.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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