Grazie di tutto, don Gino
4 Marzo 2023
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Neve

Questa notte è caduta la prima neve.

Era stata una giornata molto fredda, e, alla sera, la temperatura si era ancora abbassata; ma poi, nelle prime ore della notte, il freddo si era attenuato e la natura era sembrata come sospesa, in attesa di qualcosa.

Quindi, mentre ormai tutti dormivano, la neve ha incominciato a cadere: silenziosa come un gatto che scivola nel buio, fitta, sempre uguale.

Al mattino, spalancando le finestre, è apparso lo spettacolo del mondo interamente imbiancato: i tetti delle case, le strade, gli alberi, le colline; mentre le vicine montagne sono scomparse come per incanto, tagliate fuori dall’orizzonte improvvisamente rimpicciolito.

Il cielo è chiuso, di una tonalità madreperlacea; e la neve seguita a cadere, in minutissimi fiocchi molto fitti.

Nell’aria ancora semibuia del primo mattino, l’alone luminoso dei lampioni lungo il viale mostra una fantasmagoria di minuscoli puntini volteggianti nel vuoto: occorre uno sforzo di attenzione per rendersi conto che cadono verso il basso e non si limitano a mulinare e a danzare in ogni direzione, come se fossero interamente senza peso.

Un piacevole silenzio è sceso sul paese, immergendo ogni cosa in una atmosfera magica e ovattata; senza chiedere il permesso, con la sobria disinvoltura della padrona di casa, la natura è tornata a prendere possesso delle cose, bloccando il traffico automobilistico e spingendo le persone ad avviarsi a piedi verso le loro occupazioni.

Il grande cedro dell’Atlante, dai palchi maestosi ora tutti imbiancati, erge la sua sagoma possente al di sopra del paesaggio innevato e pare una vecchia divinità del bosco, dal tronco secolare e dalla grande barba canuta che scende verso terra come una fantastica cascata irrigidita dal gelo o come un primevo, spettacolare festone di muschio avvolto da enigmatiche leggende.

È bello; e, al tempo stesso, arcano e allusivo.

Sul viale dei bagolari, i tronchi ornati di bianco si allineano come fate nella loro veste invernale; e il fiume, visto dalla spalliera del ponte, taglia il bianco paesaggio come una lama di metallo, aprendosi la strada fra gli argini imbiancati delle rive.

Anche il corrimano della lunga staccionata di legno che fiancheggia l’argine è interamente ricoperto di neve, così come i rami dei pioppi sull’altro lato della via e i muretti di recinzione dei giardini, i gradini dei portoni e le panchine delle aiuole.

Una famigliola di anatre scivola lungo il filo della corrente, silenziosa ed elegante, incurante del freddo e della neve che continua a cadere; e la sua apparizione ha un che di fiabesco, di ancestrale, come se fosse una scena scaturita da un altro mondo.

L’aria è umida e fredda e il respiro forma delle nuvolette di vapore che si dissolvono rapidamente, per poi subito tornare a formarsi.

I piedi affondano nel soffice strato e, allorché devono affrontare un tratto interamente vergine, sembra trattenerli come un senso di stupore, quasi solo allora scoprissero quanto è grande il mondo e come ci si può sentire in esso piccoli ed esposti, pressoché indifesi.

In distanza, oltre l’ansa del fiume, si scorgono la chiesa, il campanile aguzzo e i tetti delle case raggruppate intorno ad essi, come un presepe nordico; mentre già le colline che s’innalzano subito dietro sono in parte inghiottite dalla foschia, nonostante il giorno ormai fatto abbia riportato sulle cose una debole luce e spento gli ultimi lampioni.

Ma è un giorno incerto, esitante, che non sembra decidersi ad affermare i suoi diritti nei confronti della notte, decisa ad andarsene il più tardi possibile.

In tutto questo bianco che sta ricoprendo il mondo con passi felpati, i pensieri divengono più assorti e rarefatti, come se l’anima trovasse il suo ambiente congeniale per prepararsi a spiccare il volo verso più alte mete.

È una gioia camminare nel gelo del primo mattino, quando quasi tutti dormono ancora e neppure un veicolo turba questa pace solenne; posare i piedi sul bianco mantello ed aprire la mente ed il cuore a pensieri puri e tersi come cristalli di neve dalle forme meravigliose.

In questo silenzio, in questo grande raccoglimento dell’inverno, scendono più incisive e profonde le parole degli antichi saggi, dei grandi Maestri che hanno percorso, generazioni e generazioni prima di noi, i nostri stessi sentieri del mondo.

È un atto di fede nel potere della Verità aprire un libro dei venerabili Maestri e abbeverarsi alle fonti della loro incomparabile saggezza, noi che siamo ancora immersi e sprofondati nell’illusione di ciò che è impermalente e nell’attaccamento a ciò che è transitorio.

Recita il dodicesimo libro del terzo canto dello «Śrīmad Bhāgavatam» di Krsna Dvaipāyana Vyāsa, dedicato alla creazione dei Kumara e di altri esseri da parte di Brahmā (a cura di A. C. Bhaktivedanta Swami Prabhupāda, Edizioni Bhaktivedanta, Firenze, 1983):

« Brahmā creò dapprima gli stati d’animo legati all’ignoranza, come la delusione di sé stessi, il senso della morte, la collera che segue la frustrazione, il falso senso di possesso e l’identificazione illusoria col corpo, cioè l’oblio della propria vera identità.

Vedendo in questa creazione destinata a ingannare gli esseri un compito condannabile, Brahmā non ne trasse grande piacere, tanto che volle purificarsi meditando sul Signore Supremo. Poi intraprese un’altra fase della creazione.

All’inizio Brahmā creò i quattro grandi saggi, chiamati Sanaka, Sananda, Sanātana e Sanat-kumāra. Poiché il loro seme fluiva verso l’alto, essi avevano tutti raggiunto un alto livello di realizzazione spirituale, perciò non erano disposti ad impegnarsi in attività materiali.

Dopo aver generato i suoi figli, Brahmā disse loro: "Ora, miei cari figli, andate e moltiplicatevi."

Ma a causa del loro attaccamento a Vāsudeva, il Signore Supremo, essi aspiravano alla liberazione, perciò gli espressero la loro riluttanza. Davanti al rifiuto dei suoi figli, una grande collera sorse nella mente di Brahmā, che si sforzò tuttavia di controllarla e di non esprimerla.

Nonostante i suoi sforzi per contenere la collera, essa sfuggì tra le sue sopracciglia nella forma di un bambino rosso e blu. Appena nato, il bambino gridò piangendo: "o artefice del destino, o maestro dell’universo, ti prego, indicami il mio nome e il luogo dove abiterò."

L’onnipotente Brahmā, nato dal fiore di loto universale, tranquillizzò il bambino con parole gentili, e accettando la sua richiesta, gli disse: "Non piangere, certamente appagherò il tuo desiderio."

Poi Brahmā disse: "O migliore tra gli esseri celesti, sarai chiamato da tutti col nome di Rudra per aver pianto con tanta ansia. Mio caro figlio, questi sono i luoghi che ho già scelto perché ti servano da abitazione: il cuore, i sensi, il soffio vitale, l’etere, l’aria, il fuoco, l’acqua, la terra, il sole, la luna e l’austerità. […] Caro figlio, accetta tutti i nomi e i luoghi che ho scelto per te, insieme con le tue differenti mogli. poiché tu sei ora uno dei maestri degli esseri viventi, che tu possa accrescere su vasta scala la popolazione dell’universo."

Il potentissimo Rudra, la cui carnagione è blu e rossa insieme, generò numerosi discendenti che gli assomigliano perfettamente sia per l’aspetto fisico, sia per la potenza e sia per la loro natura furiosa. i figli e i nipoti di Rudra si moltiplicarono in numero illimitato, e una volta riuniti cercarono di divorare l’universo intero. Davanti a questa situazione, Brahmā , il padre di tutti gli esseri, ebbe paura.

Brahmā si rivolse a Rudra: "O migliore tra gli esseri celesti, non c’è bisogno che tu generi esseri di questa natura; essi hanno cominciato a divorare ogni cosa in tutte le direzioni con le fiamme ardenti che scatiriscono da loro occhi, e hanno perfino assalito me. Mio caro figlio, faresti meglio a praticare l’austerità, che è propizia a tutti gli esseri e che ti porterà ogni benedizione. Soltanto l’austerità ti permetterà di ricreare l’universo così com’era prima. Solo l’austerità permette di percepire il Signore Supremo, che è presente nel cuore di ogni essere e nello stesso tempo è fuori della portata dei sensi."»

Leggendo queste parole che furono scritte così tanto tempo fa, quando il mondo era più giovane, per rispondere alla domanda che l’imperatore Parīksit rivolge a Śukadeva Gosvāmi su che cosa un uomo devoto debba ascoltare, glorificare, ricordare e adorare e che cosa debba invece evitare, non si può fare a meno di cogliere alcune impressionanti analogie con l’età presente: come se i problemi che a noi – che ci fregiamo pomposamente dell’appellativo di «moderni» – appaiono strettamente legati alla nostra contemporaneità, siano in realtà antichissimi, e già si fossero presentati, chissà quante volte, al bivio della storia.

Al tempo di Śukadeva Gosvāmi un gruppo di saggi si riunì per celebrare riti e per trovare il modo di rallentare l’avanzata del Kali Yuga, l’Età Oscura, che ormai minacciava di oscurare il mondo. Già allora gli esseri umani, insuperbiti dalla loro scienza diabolica e dimentichi di ogni dovere di devozione e di riconoscenza nei confronti dell’Essere, dal quale ogni cosa proviene, si lanciavano in opere dissennate, minacciando di divorare il mondo; e già allora spiriti nobili, come il morente imperatore Parīksit, trascurando le cose effimere, si concentravano sull’essenziale, vale a dire sul senso della vita umana e sul necessario legame di amore e gratitudine nei confronti dell’Assoluto (Bhakti Yoga).

Tutto ciò che noi crediamo di vivere per la prima volta, è già stato vissuto; tutto ciò che pensiamo di scrivere per la prima volta nel libro della storia, è già stato scritto. Devastanti guerre atomiche sconvolsero l’India antica, radendo al suolo intere città; mentre Platone, con il mito di Atlantide, ci ha tramandato il racconto di un popolo fiero e progredito, che, per essersi abbandonati ad un orgoglio smisurato ed alle pratiche della magia nera, finì per provocare un cataclisma che lo spazzò via per sempre dalla faccia della terra.

Nelle loro diverse versioni, numerosi antichissimi racconti recano un ricordo di quanto insegna in proposito la Tradizione; anche il mito biblico del Diluvio, ed i suoi corrispondenti nella tradizione dei Sumeri ed in quelle dell’America precolombiana, tramandano la memoria di un evento analogo, che vide tragicamente punita l’arroganza umana.

Gli uomini moderni, parafrasando Platone, sono come bambini: credono di sapere tanto della loro storia passata, mentre non sanno quasi niente; e anche quel poco che sanno, lo sanno male, vale a dire sotto una luce completamente falsa.

Così come i passi di un uomo sul mantello verginale della neve gli conferiscono l’impressione di essere il primo ad attraversare quel dato luogo, mentre sotto di essa vi sono le impronte di innumerevoli generazioni; allo stesso modo l’umanità odierna va orgogliosa di aver superato ogni altra generazione nel campo del sapere e della tecnica, mentre non sta facendo altro che ripercorrere strade già battute e, purtroppo, reiterare antichissimi errori.

Queste riflessioni possono apparire, sulle prime, angosciose e sconfortanti; mentre, a ben guardare, vi è in esse anche un elemento di conforto.

Le nostre ansie, le nostre paure, sono già state vissute; altri spiriti grandi e nobili si sono interrogati intorno ad esse e hanno tracciato una via che può consentire di mantenere un legame amorevole e devozionale con il mistero dell’Essere, per quanto tenue e imperfetto, anche nelle epoche più oscure e tormentate.

L’importante è che la fiammella non si spenga del tutto: ma questo non potrà mai accadere, perché esiste, al di sopra della ingannevole sapienza degli uomini, una Sapienza che non è umana, e che sempre troverà alcuni spiriti illuminati, capaci di preservare l’integrità dell’Axis mundi, del’Albero cosmico che preserva la nostra dimensione dalla totale distruzione, dalle tenebre del caos e dell’annichilimento.

Non dobbiamo, pertanto, scoraggiarci troppo, davanti all’addensarsi delle spesse nubi dell’Età Oscura: perché vi è una Forza che ci sostiene e ci soccorre, quando più ne abbiamo bisogno; e perché le anime grandi che ci hanno preceduti non si sono dissolte nel nulla, ma costituiscono presenze vive e operanti tutto intorno a noi.

Viviamo in un cosmo vivo, percorso da potenti influssi spirituali e presieduto da un Disegno intelligente ed amorevole, che volgerà in bene anche il male che noi, nella nostra infinita ignoranza e presunzione, non smettiamo di perpetrare a danno di noi stessi, dei nostri simili e dell’universo tutto.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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