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Omaggio alle chiese natie: San Marco

La chiesa di San Marco Evangelista, parrocchia del quartiere settentrionale di Chiavris, così come ci appare oggi, è moderna, relativamente parlando, perché nel 2018 ha compiuto esattamente centoventi anni (un’età che negli Stati Uniti, per esempio, ne farebbe quasi un sito archeologico), ma le sue origini — tanto per cambiare — sono antiche e risalgono al 1300, quando pare esistesse già un edificio dedicato a San Tommaso Apostolo, o almeno c’è un documento che attesta la volontà di costruirlo, benché qui fosse piena campagna, con alcune case sparse di contadini, e le mura di Udine fossero abbastanza lontane. Ma l’edificio attuale è stato costruito nel 1896, la torre campanaria fu dotata delle campane nel 1897, e benedetto nel 1898 dall’arcivescovo monsignor Pietro Zamburlini, che lo ha dedicato, secondo le intenzioni dell’antichissimo donatore, a San Tommaso Apostolo oltre che a San Marco Evangelista, benché la chiesa sia conosciuta da tutti, in Chiavris come in città, come la chiesa di San Marco, e basta. Sorge verso la fine del lungo Viale Volontari della Libertà, sulla destra, in posizione sopraelevata per via dell’argine della roggia che scorre a lato della strada, e che è scavalcata da alcuni ponticelli.

Così ne riassume la storia il sito www.parrochiasanmarco.net:

Il 26 gennaio 1314 veniva documentata la prima offerta a favore della chiesa di San Tommaso in Chiavris, forse costruita da poco dal gruppo di pastori e contadini abitanti della zona. La prima visita pastorale del 1593 la vede chiesa di una delle borgate di Paderno, dotata di battistero e di tabernacolo. C’erano due banchi, uno per inginocchiarsi e uno per conservare i paramenti di "buona stoffa, ma consumati". I vasi erano dorati o d’argento. C’era il libro dei battezzati e quello con l’elenco degli offerenti per le Messe dei defunti e il Messale. Intorno alla chiesa c’era un piccolo cimitero. Nel 1600 la chiesetta appare corrosa dall’umidità, ma pulita e ordinata. Viene lentamente restaurata e nel 1660 il patriarca Dolfin la giudica decorosa e bella. Dai registri parrocchiali appare lo spirito comunitario della popolazione; alcuni laici, eletti dall’assemblea, provvedevano alla manutenzione del luogo e dei beni, all’acquisto degli arredi, a incaricare delle celebrazioni il Pievano di Paderno, i cantori, il sagrestano. Alla fine del 1800 fu deciso di ampliare la chiesetta. I lavori iniziarono lunedì 31 luglio 1896 e i parrocchiani parteciparono con materiale, giornate di lavoro, offerte. Il 24 aprile 1898 la nuove chiesa veniva consacrata con i titoli di San Tommaso e San Marco. Nel 1906 si pensò alla costruzione della canonica che fu completata solo nel 1914. Il 13 agosto vi entrava don Davide Floreani primo parroco dal 1919, appena rientrato dal servizio militare di cappellano. Nel 1927 fu risistemata la canonica, il piccolo giardino antistante, l’orto e fu commutata con il Comune una striscia di terreno lungo l’abside e il campanile, necessaria per l’allargamento di Via Tarcento, con la zona dell’attuale cortile parrocchiale. Nel 1935 fu affrescata l’abside con Cristo Re e il soffitto con l’Immacolata, aperte delle nicchie laterali per la statua del Sacro Cuore e di Maria (poi dal 1975 spostata all’altare della Sacra Famiglia e sostituita con la statua di San Giuseppe). Nel 1950 furono acquistate due casette in fondo al cortile per allargarlo. Il 20 dicembre moriva don Davide e il 26 maggio 1951 giungeva don Leandro Comelli. Nel 1960 veniva costruito l’oratorio dall’architetto Luciano Ria e dal 1969 gli abituali soggiorni estivi vennero accolti dalla casa di Pierabech acquistata più tardi nel 1976. Nel 1977 una parte del territorio parrocchiale veniva staccata per costruire la parrocchia di San Giovanni Bosco. Nel 1991 Mons. Leandro veniva chiamato a continuare più da vicino presso il Padre la sua opera di intercessore verso i parrocchiani tutti, insieme a don Davide, don Annibale, don Luca e tanti laici religiosi che questa comunità hanno amato. Nel 1992 veniva nominato parroco don Gastone e nel 2001 don Sergio [De Cecco]. (…) Nel 2010 Don Carlo [Gervasi] veniva nominato parroco.

Una brutta storia ha portato la parrocchia di Chiavris ai tristi onori della cronaca nera. Nella notte fra sabato 28 e domenica 29 luglio del 1991 due balordi, forse drogati, forse legati a una setta satanica, due sbandati che già avevano bussato più volte per chiedere, e ottenere, aiuti economici dal parroco monsignor Leandro Comelli (nato a Montegnacco di Cassacco nel 1915 e parroco di San Marco dal 1951), appiccano il fuoco alla canonica, mentre il parroco e la perpetua stanno dormendo. I vigili del fuoco accorrono velocemente e portano fuori i due anziani prima che le fiamme li raggiungano, ma è troppo tardi: hanno respirato le esalazioni dell’incendio e muoiono entrambi. Gli autori del duplice assassinio – perché tale è stato a tutti gli effetti, e non si venga a parlare di disgrazia – un udinese e un fiorentino, vengono presi, processati e condannati a 24 anni sia in assise che in appello, ma la Cassazione riduce la pena a 16: troppo pochi, a parer nostro, per un delitto così odioso e palesemente premeditato. Questa non è bontà, è buonismo: senza contare che se alla Chiesa si addice di essere misericordiosa, purché ci sia il pentimento, beninteso, allo Stato spetta di esercitare la giustizia: due assassini come quelli stavano bene all’ergastolo, dove non avrebbero più potuto fare del male al prossimo. E per quanto le loro vite sbagliate possano muovere a pietà, e per quanto si possano invocare tutte le attenuanti per l’ambiente degradato in cui erano immersi, resta il fatto che lo Stato non ha il diritto di fare della generosità all’ingrosso sulla pelle dei cittadini: troppe volte abbiamo visto dei delinquenti reiterare gravi reati, e ogni volta ci siamo chiesti come sia stato possibile che fossero tornati così presto in libertà, dopo essersi mostrati socialmente pericolosi. Una domanda che andrebbe rivolta a tutti i magistrati di sinistra che pensano di vendicare le ingiustizie sociali mettendo a piede libero i malfattori, con il nobile intento di dar loro una seconda (e magari anche una terza) possibilità, ma esponendo a gravi pericoli le persone oneste e indifese. Ma questa è solo una nostra riflessione, e vale quel che vale. Nessuno, però, pensi di chiuderci la bocca affermando che il vero cristiano deve perdonare: sì, è verissimo che deve saper perdonare; ma questo non significa che il perdono si sostituisca alla giustizia o che la faccia automaticamente decadere. Al contrario, la giustizia deve fare il suo corso, altrimenti la società opera contro se stessa, e il bisogno di vedere affermata la giustizia, che è nel cuore di ciascuno, e specialmente delle vittime dei reati, o dei loro parenti, rimane amaramente deluso, e genera, a sua volta, rabbia, rancore e disperazione. Il che costituisce una ulteriore ingiustizia e, dal punto di vista cristiano, è un indurre in tentazione proprio chi ha già tanto sofferto. Strano che non se ne accorgano quei neoteologi e quei neopreti che ci tengono tanto a cambiare le parole del Padre nostro perché non piace loro l’espressione: e non c’indurre in tentazione, in quanto vogliono mettere bene in chiaro che non è Dio a indurci in tentazione (ma c’era davvero bisogno di cambiare le parole di una preghiera antichissima, la più importante preghiera del cristiano, come se davvero qualcuno non ne comprendesse l’autentico significato?). Loro, però, con il loro buonismo, non esitano a esporre alla tentazione dell’odio e della disperazione un padre o una madre che, per esempio, hanno avuto la figlia stuprata e uccisa da un balordo, da un drogato, da un violento, e che vedono infliggere all’assassino una pena mitissima, con la prospettiva di trovarselo faccia a strada, per la strada, dopo solo qualche anno, come se niente fosse stato.

Difficile non pensare alla recentissima decisione del signor Bergoglio di cambiare, con un tratto di penna, il paragrafo 2267 del catechismo, quello relativo alla pena di morte, sostenendo che quest’ultima è sempre inammissibile, in qualunque circostanza. Una decisione arbitraria nella forma (definirla irrituale è troppo poco; immaginiamo dove si andrà a finire, una volta creato un simile precedente) e discutibile nella sostanza, visto che né Tommaso d’Aquino, né Caterina da Siena, né altri santi e teologi e papi prima di lui, avevano pensato quel che lui pensa, e che ha voluto imporre d’imperio. La motivazione che ha fornito è, se possibile, ancor più discutibile, così come viene espressa nel paragrafo riformulato:

Per molto tempo il ricorso alla pena di morte da parte della legittima autorità dopo un processo regolare, fu ritenuta una risposta adeguata alla gravità di alcuni delitti e un mezzo accettabile, anche se estremo, per la tutela del bene comune. Oggi è sempre più viva la consapevolezza che la dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi.

Che cosa c’è che non va, in questo discorso? Tutto. Primo: non si capisce chi è il soggetto di quel per molto tempo il ricorso alla pena di morte… fu ritenuta una risposta adeguata, eccetera. Non dice "la Chiesa", resta sul generico, e questo per calcolata ambiguità: perché; se il soggetto è la Chiesa, allora appare evidente che la Chiesa, per molto tempo, l’ha pensata così, e dunque ora il signore argentino vuole imporre un pensiero diverso; se il soggetto è la società, allora appare evidente che la Chiesa, secondo lui, deve andare a rimorchio di quello che pensa il mondo, deve adeguarsi ai cambiamenti di mentalità, anche su questioni etiche di grandissima rilevanza. Secondo: la frase oggi è sempre più viva la consapevolezza della dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi, oltre a reiterare l’ambiguità dell’asserzione precedente, cioè non lascia capire chi sia il soggetto del nuovo orientamento, introduce una ulteriore e ancor più grave ambiguità, non di ordine semantico, ma dottrinale. Infatti, che c’entra la dignità della persona con la pena di morte? La pena di morte non lede, di per sé, la dignità della persona umana: questo significa mescolare arbitrariamente un giudizio di ordine morale (ogni persona è dotata di una dignità intrinseca e insopprimibile, il che è vero, specialmente per un cristiano) con un giudizio di ordine giuridico (questa tale persona ha commesso un reato meritevole della pena di morte). Non c’è contraddizione fra il riconoscimento della dignità umana e l’eventuale decisione di comminare legalmente la pena capitale in presenza di delitti particolarmente gravi. Una persona non perde la dignità per il fatto di essere privata della vita: questa è un’idea giusnaturalista, è un’idea liberale, è un’idea moderna, ma non è un’idea cristiana. Santa Caterina da Siena o San Giuseppe Cafasso, che di condannati a morte se ne intendevano (di condannati, cioè di casi umani concreti, non di condanne, cioè di sentenze puramente astratte), forse più del signor Bergoglio, che non ci risulta abbia mai confortato un condannato a morte, non si sono mai sognati di fare una battaglia contro la pena capitale né di convincere la Chiesa a dichiararla illecita sempre e comunque. Al contrario, la sana dottrina cristiana ha sempre insegnato che il peccatore deve pagare il suo debito sia davanti a Dio che davanti alla legge degli uomini, il che, evidentemente, implica che egli si sottoponga alla pena che gli viene infitta, e che la consideri una giusta riparazione per il male che ha fatto. Si rileggano le parole che il buon ladrone, sulla croce, durante l’agonia del nostro Signore, rivolge al suo compagno di sventura, il quale aveva schernito Gesù, dicendogli di salvare se stesso e anche loro due, se davvero era il Cristo (Lc, 23, 40-42): Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male. (…) Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno.

Ma c’è una terza ragione per dire che la nuova formulazione del catechismo sulla pena di morte, voluta dal signore argentino, non riflette la vera dottrina cattolica. Tutto il senso del discorso nasce da una impostazione storicistica della questione: una legge è da ritenersi giusta o ingiusta a seconda del consenso popolare. Ma questo non può essere il modo di ragionare del cristiano, la cui prospettiva non è rivolta alla storia, ma a Dio: e le azioni umane, davanti a Dio, hanno sempre un valore assoluto. Ciò significa che il giudizio su di esse non è soggetto a cambiamento. E ciò vale non solo per la pena di morte, ma per tutto: ad esempio, vale per il giudizio sulla sodomia, che, a parere di molti, sarà l’oggetto di una prossima modifica del catechismo da parte del signore argentino. Siccome oggi c’è un consenso sul fatto che due uomini o due donne possano sposarsi e anche avere dei figli (ma è proprio vero? oppure il consenso lo vorrebbe creare il fuoco incrociato e martellante dei mass-media, tutti controllati dalla élite massonica, globalista e anticristiana?), allora anche la Chiesa dovrà riconoscere come lecite e perfino buone tali unioni. Almeno stando alle premesse e visto come si è regolato costui sulla questione della pena di morte. Ma allora speriamo che il suo gioco diventi chiaro anche a quanti, finora, hanno preferito non vedere e non sapere. Quella del signor Bergoglio, di Paglia e Galantino non è più la Chiesa cattolica; è un’altra cosa, la sua diabolica contraffazione. Si son presi il marchio di fabbrica e vendono merce falsa. Ai cattolici perciò resta un solo dovere di obbedienza: quello verso Dio, non certo verso questa genia scellerata.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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