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S. Apollinare a Trento, esempio dello stile cistercense

Nel quartiere di Trento situato al di là dell’Adige, sotto la collina Doss Trento, denominato Piedicastello, s’innalza vertiginosamente alta e verticale la chiesa di S. Apollinare; il tetto dagli spioventi estremamente ripidi ne accentua lo slancio ascensionale e le conferisce un particolare carattere, tutto nordico, che la distingue dagli altri edifici del centro storico. Il primitivo edificio, costruito dai monaci provenienti dall’abbazia di S. Benedetto in provincia di Bergamo, i quali utilizzarono anche materiali di origine romana, venne demolito fra il 1250 e il 1300, per essere sostituito da quello attuale, per volontà del vescovo Enrico di Metz, originario della Lorena, culla, con la Franca Contea e la Borgogna, del movimento cistercense (Cîteaux è in quest’ultima regione), il quale impose all’abate Pietro un progetto architettonico che riflettesse pienamente l’ideale artistico e spirituale del nuovo ordine, nato dalla volontà di tornare alla stretta osservanza della Regola benedettina e rinnovare dall’interno la vita religiosa.

Per capire lo stile cistercense bisogna perciò rifarsi a tali ideali, che nascevano dal bisogno di riformare l’ordine cluniacense e di riportare al centro dell’esperienza religiosa la netta separazione fra l’anima e le cose del mondo; pertanto, dal punto di vista architettonico, si trattava di eliminare la decorazione e tutto ciò che può apparire superfluo e distrarre l’attenzione da ciò che è essenziale, e quindi subordinare rigidamente le arti consorelle "minori", la scultura, la pittura e il mosaico, alla severa pregnanza dell’architettura, la quale a sua volta deve farsi cifra e introduzione alla dimensione del soprannaturale, dell’assoluto. La verticalità degli edifici cistercensi e l’accentuata inclinazione delle loro coperture, la preferenza per la navata unica e per l’estrema sobrietà della decorazione plastica, sia esterna che interna, rientrano in questa prospettiva. Si tenga inoltre presente che, per i costruttori cistercensi, ciò che conta non sta all’esterno, nella parte degli edifici visibile a tutti, ma negli spazi interni, chiostri, cortili, ecc.: perché, se la dimensione spirituale è superiore a quella materiale, e quella religiosa alla dimensione laica, allora l’architettura cistercense è essenzialmente indirizzata allo spirito dei monaci, ha la funzione d’innalzare l’anima dei monaci verso Dio, e pertanto essa rimane nascosta allo sguardo profano. In altre parole, il più e il meglio di essa non è concepito per gli estranei, ma principalmente per le comunità monastiche destinate ad abitare quegli spazi, e che pongono la preghiera, la meditazione e il silenzio al centro della loro vita spirituale, accanto al lavoro manuale, certo, ma in definitiva accordando ad esse la priorità, perché, secondo le parole stesse di Gesù, è lo spirito che dà la vita, mentre la carne non giova a nulla (cfr. Gv. 6,63).

Pertanto, per capire e apprezzare quell’unicum che è rappresentato nel panorama dell’architettura medievale dalla chiesa di S. Apollinare a Trento, pur tenendo conto delle contraddizioni interne dovute a una costruzione troppo lenta e allo squilibrio esistente fra la progettazione e l’esecuzione da parte di maestranze cui non era familiare quel linguaggio, e forse non sempre all’altezza del compito loro affidato, bisogna rifarsi a quell’ideale e tener presente la spinta mistica e ascetica che ne è la colonna portante. Allora e solo allora diverranno chiare le particolari scelte stilistiche e l’apparente contraddizione fra l’impianto ancora robustamente romanico della struttura ed il suo sviluppo già goticheggiante, che rappresenta, in realtà, un buon esempio di quello stile di transizione fra le due grandi stagioni artistiche, che si diffonde alla fine del ‘1200. L’interesse speciale di questo edificio consiste proprio nella sua atipicità, in quanto esso trapianta una severa e quasi rudemente ascetica idea estetica di origine gotica transalpina, mutuata dai modelli originari della Francia settentrionale, nel contesto di una civiltà artistica fondata sui valori di un’architettura idealmente concepita sulla robusta volumetria di origine romana, dove tutto parla ancora di quell’antica grandezza; al punto che la chiesa di S. Apollinare è famosa anche perché custodisce una lapide preziosa dell’età di Cesare, quella di Marco Appuleio.

Lasciamo che ce lo descriva Nicolò Rasmo nel bel volume S. Apollinare e le origini romane di Trento (Trento, Casa Editrice G. B. Monauni, 1966, pp. 51-56):

Ho già ricordato che ritengo la costruzione della chiesa nella sua struttura esterna, ad eccezione naturalmente della parte inferiore del campanile, opera unitaria e coerente: essa tiene conto dell’ambiente artistico trentino cui si adegua riprendendone motivi tradizionali; ma nella concezione generale risponde alle esigenze ed ai gusti di un ordine monastico che conta — si ricordi — fra quelli che introdussero in Italia le novità dello stile gotico; non sorprenda quindi se, accanto ad elementi tradizionali dell’ambiente lombardo-trentino, visibili soprattutto nell’opera dei lapicidi, cioè degli esecutori materiali dei dettagli, come il portale marmoreo, si nota l’impostazione generale nuovissima ed inusitata a Trento, anzi un tutta la regione, quella di una chiesa ad aula, altissima e luminosa per le numerose finestre gotiche aperte alla sommità della navata. Maestro Giovanni può ben essere considerato il direttore dei lavori e forse anche l’esecutore delle parti scultoree di maggior rilievo, come quelle del portale. Ma certo fu il realizzatore di un progetto ideato da altri, fuori del nostro ambiente e impostogli dall’abate Pietro.

Gli stretti rapporti dell’abate Pietro col vescovo di Trento Enrico di Metz cistercense, che aveva chiamato a sé dal suo paese vari monaci del suo stesso ordine, cui affidò delicato incarichi, come frate Corrado di Urcestal o Uzerstal divenuto poi suo vicario divenuto poi suo vicario generale e i suoi cappellani, tutti oriundi di Metz e tutti cistercensi, Simone, Gualtiero, Ruperto e Arnaldo e infine Simone già abate "Victoriense", fa ritenere non inverosimile che appunto dall’ambiente cistercense di Metz sia filtrata a Trento, attraverso il vescovo e i suoi consiglieri, l’idea architettonica, qui così nuova ed isolata, della chiesa di S. Apollinare. Alcuni elementi fondamentali di essa, come l’abside diritta, il verticalismo delle proporzioni, la semplicità della struttura unita alla nobiltà dell’esecuzione, fanno pensare ad un’idea cistercense svolta in ambiente nostrano da maestranza lombarda. La costruzione forse doveva avere una soffittatura lignea, anche se non escludiamo che fosse prevista una volta in muratura. Comunque l’interno venne modificato o compiuto in seguito con un programma radicalmente diverso. (…)

In conclusione, malgrado le apparenze, ritengo di poter confermare l’opinione già precedentemente espressa, che la chiesa nell’aspetto esteriore attuale, ivi compreso il portale, risalga alla ricostruzione del 1319. Per quanto riguarda quest’ultimo, una datazione alla metà del ‘200, proposta del tutto recentemente dal Passamani, mi sembra poco convincente perché in contrasto con quanto abbiamo a Trento in questo periodo. Né basta per spiegare queste divergenze stilistiche la supposizione dell’opera di un lapicida veronese, essendo la porta stessa in ogni suo particolare troppo visibilmente inserita nel’ambiente lombardo di Trento e troppo lontana d’altronde dal classicismo soffuso in ogni espressione d’arte dell’ambiente veronese coevo. La scioltezza piuttosto corriva e superficiale delle figure dei m ostri si inserisce del resto molto meglio nel’opera delle ultime maestranze del Duomo di Trento, come si può notare confrontandole coi rilievi della finestra del campanile, che in quella dell’autore dell’abside e del portale nordorientale che il Passamani assegna alla metà del ‘200. Le figure dei mostri nel portale di S. Apollinare, anche se iconograficamente legate alla tradizione duecentesca romanica, in realtà sono chiaramente eseguite con naturalismo gotico nella scioltezza dell’esecuzione anatomica.

In contrasto con l’esterno, l’interno della chiesa di S. Apollinare riserva una completa sorpresa: le due campate, che si indovinano già dalle articolazioni esterne, sono divise da un basso e pesante arco romanico malamente ricomposto (…) con elementi di spoglio del XII secolo, e coperte da basse ed ineleganti volte a cupola ottagona poggianti su goffi pennacchi triangolari impostati su mensole fatte con elementi di ricupero e in parte neppure lavorate perché destinate a rimanere nascoste sotto le malte (esse vennero scoperte solo in occasione di recenti restauri). Le cupole sono suddivise in otto spicchi da costoloni in pietra che poggiano su goffi capitelli cubici, rispettivamente su di una cordonatura che si potrebbe quasi sospettare ottenuta ricuperando resti della chiesa del XII secolo. I capitelli a loro volta sono sorretti da colonnine rette da mensole lapidee a forma di pera. I costoloni della prima campata sono lisci, mentre quelli della seconda sono a tortiglione e si uniscono in una chiave di volta scolpita con una mediocre figura a rilievo dell’agnello mistico, certo trecentesca. Certe testine dipinte entro cornicette tonde a rilievo, simili a ciambelle, perdute negli spicchi della cupola del presbiterio, non sono state da me esaminate, data la distanza e la mancanza di un’impalcatura, e quindi non posso dire se siano originali, come riterrebbe il Weber, o frutto di qualche pasticcio ottocentesco. Comunque non aggiungono e non tolgono nulla all’impressione d’insieme dell’interno che è quella della malaccorta esecuzione di un concetto originale, forse pregevole. Non escludiamo infatti che le due cupole dovessero dominare altissime sopra il cornicione della chiesa entro l’alto tetto forse appositamente costruito; la ripresa dei lavori dopo una prolungata sospensione e la presenza di una maestranza molto inabile, dovette far ripiegare su questa soluzione che rese vane le finestre aperte alla sommità dei muri, vano l’altissimo tetto con le cuspidi traforate, vana l’esistenza di progetti che nessuno sapeva realizzare. Così la chiesa, illuminata solo da piccole e basse finestre, doveva dare un senso di oppressione e di disagio finché il Passi nel 1760 non si decise a rompere nei muri le finestre cui poi nel secolo scorso di diede l’attuale forma.

Come appare evidente da questa descrizione della chiesa di S. Apollinare, il suo autore ha una concezione che potremmo definire purista del fatto artistico e particolarmente e architettonico. Per lui, non c’è nulla di più grave, per un’opera d’arte, che la mancanza di coerenza interna o la presenza di elementi contrastanti con l’idea originaria. Fino ad un certo punto anche noi siamo di questa opinione; nel caso delle grandi opere architettoniche, tuttavia, ad esempio le cattedrali medievali, bisogna tener presente che la loro costruzione non di rado ha richiesti decenni e in qualche caso perfino secoli; e che quindi architetti diversi e scultori diversi si sono succeduti nel corso dei lavori, aggiungendo ciascuno il proprio stile e così introducendo delle inevitabili modifiche al progetto iniziale. Ciò peraltro non è necessariamente un difetto, o almeno non lo è in senso assoluto, vale a dire se una coerenza sostanziale rimane, e sia pure di tipo dinamico, come è logico che accada quando tre o quattro generazioni di progettisti, di maestri lapicidi e di scalpellini si avvicendano intorno a uno stesso edificio. A differenza delle architetture moderne, che vengono impostate e realizzate nel giro di tempi brevissimi, per una chiesa medievale i tempi sono sovente così lunghi che è impossibile pretendere da essa un’assoluta uniformità di concezione e di realizzazione: bisogna perciò limitarsi a giudicare se l’opera terminata, nel suo insieme, conserva una struttura coerente nel senso più elastico, ma anche più essenziale, del termine. Quel che vogliamo dire è che fra una chiesa nella quale si riconoscono delle manchevolezze e delle contraddizioni interne, a causa dei lunghi tempi di realizzazione e del succedesi di mani diverse, ma che nondimeno, nel complesso, conserva una sua fisionomia, una spiritualità, una prospettiva mistica, nella quale chi entra si trova comunque a suo agio, immerso in un’atmosfera senza tempo perché ispirata a un’idea universale, ed una chiesa ultramoderna, realizzata in un paio d’anni da un architetto famoso, nella quale, però, nonostante i tempi veloci e la forte coerenza fra progetto e realizzazione, manca la cosa più importante, ovvero la risposta al bisogno di trascendenze e di spiritualità; in una siffatta chiesa, che già dall’esterno si presenta come un edificio ambiguo, più profano che sacro, nel quale a malapena si riconoscono i simboli della fede cristiana, e che anche all’interno riproduce lo stesso difetto fondamentale, ossia l’incapacità di dar vita ad un clima spirituale idoneo alla sua funzione, non c’è alcun dubbio che la nostra preferenza, non solo sul piano strettamente estetico, ma anche su quello mistico e religioso, va al primo edificio e non al secondo. Dopotutto, quel che si chiede a un edificio sacro è di favorire la preghiera e l’incontro fra l’umano e il divino, non di fare sfoggio di bravura da parte di quanti hanno lavorato alla sua costruzione. La stessa coerenza di stile diventa un valore secondario, rispetto alla coerenza spirituale, che è e deve rimanere, per una chiesa o qualsiasi altro edificio religioso, il requisito essenziale. E se tale coerenza c’è, si può dire che quell’edificio ha saputo soddisfare la sua ragion d’essere, che non è stato realizzato invano, anche a dispetto di taluni difetti di esecuzione o a talune contraddizioni riconoscibili qua e là nei suoi elementi stilistici. L’importante è che l’insieme sia coerente con la funzione cui è destinato: tale è il requisito essenziale, al quale non si può rinunciare.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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