
Il fine dell’uomo è comprendere il suo vero fine
21 Febbraio 2022
S. Apollinare a Trento, esempio dello stile cistercense
24 Febbraio 2022Se alzate lo guardo per ammirare la mole del Duomo romanico di Trento e lo soffermate sul lato settentrionale del transetto, potrete ammirare uno splendido rosone della seconda metà del XIII secolo, vale a dire dell’età di Dante Alighieri (e infatti la data di consacrazione della Cattedrale di San Vigilio è quella della morte di Dante, il 1321; ma la costruzione era iniziata più d’un secolo prima, nel 1212). Guardando con un po’ di attenzione vi accorgerete che al centro di esso è scolpita una figura umana in posizione ieratica, una donna, con entrambe le braccia semi-sollevate, come se volesse imprimere il movimento alle colonnine che partono dal cerchio nel quel ella è inscritta e si diramano verso l’esterno, come i raggi di una ruota. Affinando ancora lo sguardo, vedrete che sul margine più esterno del rosone sono scolpite delle figure umane, le quali vengono perciò a trovarsi come se fossero nelle varie posizioni, rivolte verso l’alto o verso il basso, rispetto ad una ruota che giri sul suo perno. Le colonnine sono dodici, come i mesi dell’anno (o come i dodici Apostoli): un numero simbolico che sembra alludere alla totalità, alla completezza e quindi al giro completo determinato dal movimento della ruota stessa. Quel rosone, infatti, è noto come la Ruota della Fortuna: perché la Fortuna è il personaggio femminile centrale, mentre le figure minori disposte intorno a lei sono evidentemente la raffigurazione dell’umanità, sottoposta agli alti e ai bassi del suo imperscrutabile capriccio, o forse del suo misterioso disegno. Il tutto è assai suggestivo; e non è neppure un unicum nella scultura medievale. Ne esiste un altro esemplare, ad esempio, nella non lontana Basilica di San Zeno a Verona.
Così descrive la Ruota della Fortuna della cattedrale di Trento Bruno Passamani ne La Scultura Romanica del Trentino (Trento, Casa Editrice Gianbattista. Monauni, 1963, pp. 88-90):
La Fortuna, perno delle alterne vicende dei mortali, volontà imperscrutabile e volubile che, donando e togliendo a caso, eleva al fasto mondano o precipita nel baratro dell’anonimato e della miseria, è uno dei temi tipici del pensiero e della poesia medioevale. E se da un lato il concetto di Fortuna può porsi in relazione con le teorizzazioni duna borghesia avventurosa che nell’iniziativa e nel rischio poneva le ragioni del successo contro la stabilità gerarchica dell’ordine feudale, dall’altro esso si deve ancor più rapportare al pessimismo di un tempo disarmato ideologicamente di fronte alle più dure vicende del vivere (pesti, carestie, guerre, oppressioni) le cui cause risultavano oscure.
I versi danteschi nei quali la Fortuna appare come la fedele traduttrice nella realtà della superiore ragione provvidenziale per la quale anche le sorti più maledette dagli uomini si giustificano nell’ordine universale, la rivestono di un sentimento tragicamente religioso. Così non è per gratuito desiderio di trasposizione letteraria che si accosta a quei versi la Ruota trentina, ma perché essa, come alte, aperte nelle cattedrali romaniche o visibili in affreschi e miniature, si spiega con le medesime premesse. Nella vicina Verona, la Ruota di Brioloto adorna la facciata di San Zeno con sei figure simboleggianti la schiera dei vivi tratti verso il culmine della loro vicenda, il fortunato che l’ha raggiunto, i miseri che rovinano dopo l’effimero momento di felicità.
Più complesso, quasi a sottolineare la funzione dominante della "ministra e duce", il monumento trentino mostra al centro della raggiera di colonnine l’icastica figura femminile, frontale e astratta come un dio, che "vile sua ruota" sulla quale dodici mortali (forse a simbolo dei mesi e quindi del tempo nel cui perenne trascorrere hanno vita le mutazioni) vengono trascinati nel giro fatale. In alto, incoronato dalla Sorte, chi impera alza due nappi a brindare, ma alla sua destra altri precipitano ed all’opposta mano altri salgono a cacciarlo dal suo trono. V’è qui una predilezione per il particolare maggiore che in Brioloto, dal cui stile si staccano profondamente i rilievi, cosicché al risone veronese si potrà forse attribuire unicamente il merito di aver stimolato nei committenti trentini la scelta del motivo.
Mentre la rosa di San Zeno appare infatti concepita più come architettura che come scultura, nella nostra le modulazioni chiaroscurali date dagli strombi, gli intrecci degli archi, gli elementi quadrilobi, la Fortuna al centro del mozzo ed il numero doppio di figure sulla ghiera, mostrano chiaramente che essa fu concepita per animare pittoricamente la compatta superficie murata.
Per tale impegno decorativo, tendente ad imporsi all’architettura sottraendo la scultura alla condizione ancillare tipica di tutta la plastica pregotica, lo scultore può essere avvicinato ad Anselmo da Campione, la cui ampia risa nella fronte del Duomo di Modena, con gli archi a tutto sesto dalle ghiere lisce, intrecciati in modo da suggerire l’ogiva, ha grandi affinità strutturali con la nostra. Anche nella chiesa modenese essa portò infatti ad una diminuzione dell’effetto volumetrico dell’architettura, introducendo un fattore chiaroscurale nella serrata sintassi delle murature romaniche.
Siamo infatti alla radice del gusto gotico. Tuttavia le figure ornamentali della rosa trentina hanno concisione di gesti e cubatura di teste e di corpi ancora romaniche. Le teste sono squadrate rudemente, gli occhi larghi, decisamente contornati sotto i forti archi sopracciliari, i nasi grossi e a triangolo ben staccati dai piani del viso. Solo nella fattura delle vesti il maestro rompe i piani compatti del nucleo plastico, insistendo nelle pieghe parallele che corrono dalle spalle al bordo inferiore, interrotte alla vita dalla cintura, con leggere inflessioni miranti ad enunciare sommariamente la sottostante massa del corpo. Povera e monotona la fantasia dello scultore che si attarda a ripetere per ben undici volte la stessa figura più o meno nella medesima posa.
Ora, ci si può chiedere come mai l’artista duecentesco abbia scelto un simile soggetto per trasformare un elemento architettonico, come il rosone, in un elemento essenzialmente decorativo, come la Ruota della Fortuna, caricando la superficie esterna del luogo sacro per eccellenza di significati allegorici che a prima vista non parrebbero del tutto in linea con la concezione cristiana dell’uomo e della vita. Nella concezione cristiana, infatti, l’uomo è creatura di Dio e sta di fronte a Dio, che lo ha posto nel mondo affinché realizzi la sua natura di animale razionale, ossia perché trovi, con lo strumento della ragione, quella Verità dalla quale il progenitore Adamo si è allontanato, riverberando i frutti amari della sua disobbedienza su tutte le generazioni a venire. Perciò il mondo umano, come del resto tutto il mondo naturale, è sottoposto all’azione invisibile, ma costante e infallibile, della Provvidenza divina: nulla va secondo il caso, nulla si perde nell’insignificanza: tutto ha un fine e uno scopo, e il fine e lo scopo di ogni cosa è, appunto, il ritorno a Dio, e per l’uomo la contemplazione gioiosa e la pacificazione interiore che vengono dal raggiungimento della suprema Verità e del Bene supremo, che è anche la somma Bellezza, ossia Dio stesso. Ma che pensare allora di questo rammemorare la fortuna, e presentarla quasi come l’arbitra indiscussa e incontrollabile degli umani destini?
Una risposta a questo interrogativo si può trovare nel discorso di Virgilio a Dante, nel VII canto dell’Inferno (vv. 73-96):
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,75
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce78
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;81
per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue.84
Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.87
Le sue permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.90
Quest’è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;93
ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.96
Nella visione dantesca, la Fortuna è dunque permessa da Dio per mutare incessantemente il destino degli esseri umani, così che i forti non insuperbiscano e i deboli non si abbattano, e tutti quanti ricordino l’instabilità che è parte essenziale della condizione terrena: per cui né ci si deve abituare troppo ai giorni felici e alla prosperità, né si deve cadere nella disperazione quando le cose vanno male. Il che è un altro modo di esprimere il concetto della Provvidenza: poiché tutto, nel mondo, è creato e ordinato da Dio, e ciò che a noi sembra capriccio imprevedibile delle circostanze, fa parte di un disegno perfettamente sapiente e provvidenziale, sempre da Lui concepito e sviluppato per l’umanità tutta, così come per i singoli individui. Ma non basta. Nell’apparente instabilità delle fortune umane, che è solo l’altra faccia della medaglia di un disegno ordinato e sapiente, è necessario che l’uomo si abitui a non ragionare secondo la propria sapienza, bensì sforzandosi di riconoscere, dietro lo schermo mutevole delle vicende terrene, i segni della somma sapienza e benevolenza che tutto sa condurre a buon fine, purché la volontà umana decida di collaborarvi e non già di andare nella direzione opposta. Si prenda il caso di un uomo giovane ricco e fortunato, che potrebbe intraprendere qualsiasi carriera, potrebbe essere amato da tante donne, fare un ottimo matrimonio, conquistarsi un posto invidiabile nel mondo; e poi lo s’immagini povero, ridotto a vivere di elemosina, senza una casa, senza una sposa, senza figli, senza nessun bene terreno. Verrebbe da pensare: poveretto! Come si è accanita la signora fortuna, contro di lui! Ma poi si viene a sapere che quel giovane, che tutto ha perduto di ciò che piace al mondo, l’ha perduto per un atto di rinuncia spontanea, sincera e gioiosa; che si è spogliato d’ogni bene per sposare Madonna Povertà e mettersi alla sequela di Gesù Cristo: in beve, che stiamo parlando di uno dei Santi più grandi nella storia del cristianesimo, san Francesco d’Assisi. È forse da commiserare, il suo destino? Bisogna pensare che la Fortuna si è divertita a precipitarlo in una condizione spregevole, dopo avergli dischiuso le più rosee prospettive di questo mondo? Evidentemente no. Ciò che ha perso, ciò a cui ha rinunziato, gli ha reso possibile trovare la vera ricchezza, il vero tesoro della vita, secondo le parole stesse del divino Maestro. È dunque da ammirare e da invidiare chi ha fatto una scelta come la sua, non da commiserare. E allora l’immagine della fortuna scolpita nel rosone d’una cattedrale romanica serve all’uomo medievale per ricordargli non solo e non tanto la mutevolezza delle cose di quaggiù, che è il significato più ovvio e banale, ma per farlo riflettere su quali sono i veri beni che l’anima deve imparare a desiderare, anche al prezzo dei più grandi sacrifici, per trovare il suo vero posto nella vita, secondo la massima evangelica di vivere nel mondo, senza essere del mondo.