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Omaggio alle chiese natie: San Quirino

La più antica chiesa cittadina dedicata a San Quirino sorgeva poco fuori delle mura cittadine, non lungi dall’attuale Piazzale Osoppo; assalita da truppe turche nel corso di un’incursione, nel 1472, e parzialmente incendiata, venne restaurata, ma poi, lentamente, cadde in rovina. Nel 1595, quando la città venne suddivisa in parrocchie dal patriarca di Aquileia Francesco Barbaro, una nuova chiesa venne costruita per servire il borgo Gemona, ma l’opera andò a rilento e l’edificio venne ultimato solo nella seconda metà del ‘600 e dedicato alla Madonna della Misericordia e a san Luigi Gonzaga, tuttavia rimase a lungo inagibile. A quell’epoca, da molto tempo, la sede parrocchiale era presso la vicina chiesa di Santa Chiara, molto più antica (della fine del 1200), che ora si trova all’interno dell’area del Collegio Uccellis. Solo all’inizio del ‘700 la parrocchia fu traslata nella chiesa della Madonna della Misericordia, soprattutto perché le monache clarisse si erano lamentate di dover dividere il sacro edificio con la popolazione di un quartiere molto popoloso e di non avere una chiesa tutta loro. Bisogna arrivare comunque al 1701 perché la nuova chiesa venisse consacrata e aperta al culto, dopo essere stata dedicata a San Quirino, vescovo e martire di Sisak, in Croazia, e al 1725 perché fosse finalmente completato il campanile. L’interno, a pianta rettangolare, è ricco di opere pittoriche e scultoree, fra le quali spicca l’altar maggiore e la pala di Antonio Carneo (1637-1692), il maggior pittore friulano del ‘600, raffigurante una serie di storie della vita del re Davide. Nel 1808 le leggi napoleoniche imposero la soppressione di molte sedi parrocchiali e tale sorte toccò anche a quella di San Quirino, che venne unita al Redentore; col ritorno degli austriaci fu ripristinata la situazione precedente, e per un secolo e mezzo San Quirino è stata il cuore spirituale del borgo Gemona, uno dei più popolosi della città.

Ed ecco che si arriva al 1967, al vento di follia del Concilio Vaticano II e alle deliranti teorie sulla nuova architettura sacra. Poiché la chiesa è divenuta troppo piccola per la popolazione del quartiere, si decide non di ampliarla, ma di costruirne una nuova,e di farlo addirittura in aderenza al muro della vecchia, ma in stile ultramoderno, in omaggio alle tanto sbandierate "aperture" conciliari alla modernità. Il progetto viene affidato all’ingegnere Antonio De Cilia, che si è in qualche modo ispirato alle forme dell’antico teatro greco, ma in chiave novecentesca, e ha largamente utilizzato il calcestruzzo, il vetro e i mattoni cotti a vista. Qualsiasi cosa si pensi di siffatta architettura, il minimo che si possa dire è che l’avere accostato brutalmente, anzi barbaramente, la chiesa barocca del 1600 e quella del tardo 1900 ha prodotto un risultato di assurda e incomprensibile dissonanza: come se nel bel mezzo di un concerto di Bach facesse irruzione un motivo rock, col rullare frenetico della batteria e il vibrare assordante delle chitarre elettriche. Ce n’era proprio bisogno? Cosa si è inteso dimostrare: forse la continuità fra la Chiesa di prima e quella dopo il Concilio? Se, per caso, l’intenzione era questa, ciò che si vede è che le due Chiese sono giustapposte artificialmente, ma che non vi è alcuna continuità fra l’una e l’altra: se ne stanno come due corpi separati, e un muro le divide. Lo spazio non mancava: perché non si è costruita la nuova chiesa a qualche distanza dalla vecchia? Ed era proprio necessario giustapporre i due stili in maniera tanto stridente? Osservando l’esterno dal lato del campanile, il contrasto appare ancora più sgradevole, incomprensibile, per non parlare di quello fra i due interni, che palesa l’assoluta incompatibilità di sentire fra la spiritualità d’un tempo e la nuova, se pure è tale. Infine, perché nulla mancasse alla rivoluzione (e usiamo questa parola nel senso pienamente ideologico del termine), a decorare le vetrate è stato chiamato, nel 1994, un frate servita friulano, Fiorenzo Maria Gobbo, amico ed estimatore di un altro servita friulano, padre Turoldo, profeta della rivoluzionarie vaticansecondista, che ha decorato le vetrate in uno stile che si può definire con una sola parola: brutto. Sfidiamo chiunque a capire, guardandole, che i soggetti raffigurati sono Maria, la Chiesa, la Gerusalemme celeste; come si dice in friulano: Mame, no’ capis plui nuje. E non serve il traduttore per afferrarne il significato.

Ecco: pur se non era la nostra chiesa, la nostra parrocchia, entrare nella nuova chiesa di san Quirino, anzi, il solo avvicinarsi alla vecchia, così sconciamente aggredita dalla nuova, e vedere fino a che punto tutto il lato ovest del borgo Gemona, uno dei più caratteristici e dei più simpaticamente e autenticamente popolari della città, ci provocava un profondo senso di disagio. Un disagio che noi, bambini, non potevamo certo spiegare, e che non avremmo neanche saputo esprimere, se non con questa sensazione: che nella nuova chiesa di San Quirino, sia all’esterno, sia, soprattutto, al suo interno, non riuscivamo in alcun modo a trovare quella serena, mistica atmosfera di raccoglimento che ci avvolgeva all’istante, nell’atto di varcare la soglia di una qualsiasi delle altre chiese del centro urbano. Non ce n’era una sola, dal duomo a quella di San Giacomo, dalla chiesa di san Giorgio a quella del Carmine, dalla basilica delle Grazie al Redentore, da San Cristoforo alla chiesa dei Cappuccini, in cui non ci si sentisse immediatamente immersi nella pace e non si provasse un senso di devota concentrazione interiore, quasi abbracciati da Gesù, dalla Madonna e dai Santi. Ma nella nuova chiesa di San Quirino, realizzata sotto i nostri occhi proprio quando i primi segni del consumismo si affacciavano, sia pure in ritardo, anche in quest’angolo d’Italia — il primo supermercato Upim, per esempio, che apriva i battenti in Via Manin, per poi trasferirsi, sempre in centro, sull’area dell’ex cinema Eden, grande e originale, insensatamente abbattuto da urbanisti smaniosi di novità — non percepivamo nulla di tutto ciò. Eppure era luminosa, niente da dire: fin troppo; le ampie vetrate alle pareti lasciavano entrare il sole a volontà; era anche ben riscaldata, con tanto di tetto fotovoltaico: una meraviglia dell’ingegneria moderna. Però, qualcosa mancava. Non avremmo saputo dire bene che cosa mancasse; era una sensazione difficilmente identificabile, e tuttavia chiara, precisa. Ora lo sappiamo l’abbiamo capito, cosa mancava: mancava l’essenziale, cioè la spiritualità. Una chiesa cove non si respira un’atmosfera spirituale, è come se non fosse una chiesa. In chiesa, la gente viene per incontrare Dio; ma non lo può incontrare se non ci sono le condizioni adatte. Si ha un bel dire che Dio è dappertutto e che, volendo, lo si può sentire e pregare ovunque; questo è vero, e tuttavia non è vero: è vero per le anime che possiedono una fede eccezionale, perché esse trovano Dio in qualsiasi luogo, perfino in un buio carcere o in un campo di concentramento; ma non è vero per la maggioranza delle anime, le quali hanno bisogno di un aiuto, di un supplemento di circostanze esterne favorevoli, e specialmente per le anime dei bambini. Le chiese sono fatte per questo, per favorire l’incontro dell’uomo con Dio; se no, che cosa le si costruisce a fare? Per celebrare la religiosità moderna, le conquiste del Concilio Vaticano II? Per piacere, questa solo ideologia, è propaganda, è politica: non c’entra nulla con il cristianesimo, e soprattutto, non avvicina di un millimetro le anime a Gesù Cristo; semmai le respinge. E infatti, questo è ciò che si prova entrando nelle brutte chiese post-conciliari, quelle che sembrano scatoloni di cemento, informi, sgraziate, anonime e al tempo stesso pretenziose, simili a delle fabbriche, o magari a dei penitenziari, a qualsiasi edificio tranne che a delle vere chiese; quelle che, si direbbe, vogliono farsi perdonare dalla mentalità moderna la "colpa" di essere pur sempre, o di cercar di essere, delle chiese cattoliche. Un po’ come i tanti, troppi preti moderni che pare si vergognino di far capire che sono preti, e pertanto se ne vanno in giro vestiti in borghese, anzi casual, senza nemmeno un crocifisso sulla giacca o sul maglione: e credono, in questo modo, di essere più vicini al mondo, più aperti al dialogo, più disposti ad ascoltare. Pazzi e stolti: sono semplicemente meno preti, meno cattolici, meno spirituali; sono cristiani che si vergognano di testimoniare la loro fede in Gesù Cristo; sono operai timidi della vigna del Signore, o forse qualcosa di peggio, che cercano di passare inosservati per non suscitare il fastidio della gente, in una società che ormai è divenuta post-cristiana, se non decisamente anticristiana.

Tuttavia, non è solo la perdita della spiritualità il crimine commesso dalla neochiesa dopo il Concilio Vaticano II, con le sue chiese che non sembrano chiese, con i suoi preti che non sembrano preti, che non parlano come preti, che non agiscono come dovrebbero agire i preti: che invitano gli islamici alla santa Messa; che si profondono in omaggi agli ebrei, dicendoli già salvi e sicuri nella Verità, quindi già in pace con Dio; che si strofinano con i massoni, i radicali, gli atei militanti; che si strusciano presso la loro stampa, che fanno le fusa con gli intellettuali laicisti e materialisti, i quali non ne vogliono sapere di Cristo, né della Chiesa (quella vera, beninteso); no, non è solo questa la loro colpa. C’è di peggio. Non solo hanno abolito la spiritualità; hanno abolito anche la croce. Hanno tolto all’educazione cristiana dei bambini, alla pastorale cattolica degli adulti, l’elemento centrale: la tensione eroica verso la sanità e la testimonianza, il martirio. Martirio vuol dire testimonianza. Non che il vero cristiano debba cercare, per forza, il martirio; tuttavia non lo può, non lo deve escludere. Rendere testimonianza a Gesù Cristo, specialmente nel mondo moderno, dà fastidio: ci si fanno dei nemici, e, in molti luoghi, è anche pericoloso. A volte l’ostilità e la silenziosa persecuzione che hanno luogo nei Paesi occidentali ex cristiani e post-cristiani, sono perfino più subdole e insidiose, e più nocive per la salute dell’anima, della persecuzione aperta che ha luogo in molti Paesi dominanti da altre fedi religiose. Il fatto è che la Chiesa, fino al Concilio, da sempre preparava il cristiano a contemplare la possibilità del martirio, perché insegnava il dovere della testimonianza. È questo che è venuto a mancare: per un senso malinteso di tolleranza, di rispetto delle fedi altrui, dei sentimenti altrui; per la sciagurata idea della libertà religiosa, che tutti i papi, fino all’epoca del Concilio, hanno sempre condannato, ma che col Concilio, e specialmente con la dichiarazione Nostra aetate, e più ancora con la Dignitatis humanae, ha preso piede per diventare la nuova linea ufficiale del cattolicesimo nei confronti del mondo non cattolico. La libertà religiosa, intesa come libertà di rifiutare il vero, di rifiutare Gesù Cristo, si è insediata nel pensiero cattolico ed è, in effetti, un’idea non cattolica, un’idea incompatibile col cattolicesimo. Gesù non ha detto: Credete, se potete e se ne avete voglia; ma ha detto: Chi crederà sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. Questo ha detto Gesù Cristo, ed è scritto, nero su bianco, nei quattro Vangeli: a dispetto del fatto che, come ha osservato con geniale acume padre Sosa Abascal, al tempo di Gesù non fossero ancora stati inventati i registratori, e quindi i suoi Apostoli non avessero potuto registrare esattamente le sue parole. Ecco; dalla miseria delle argomentazioni di questi neoteologi e di questi neopastori, si sente la puzza dell’inferno che da essi promana: si sente che quanto dicono, quanto scrivono, non viene da Dio ma dal diavolo. Quel che fanno, in continuazione, è instillare dubbi, seminare incertezze, turbare e confondere le anime: ed è, alla lettera, il mestiere del principe di questo mondo. Da ciò li si riconosce: perché essi non hanno amore per i loro fratelli. Dicono di amare tutti, e di amare specialmente i lontani, i poveri, i bisognosi; però mancano di carità verso i loro stessi fratelli, se ne fregano se li mettono in crisi, se danno loro scandalo con gesti e affermazioni sconcertanti, provocatori, e talvolta anche apertamente eretici. Non è un loro problema: e da questo si capisce che non sono dei veri pastori, non sono dei veri cristiani. Il vero cristiano darebbe la vita per tenere unito il gregge, per difendere le pecorelle; il falso cristiano non si cura del gregge, se ne infischia se le pecore si disperdono A lui basta far vedere quanto è buono, quanto è aperto, quanto sa dialogare con tutti; e va in brodo di giuggiole se lo chiamano alla televisione, se lo invitano nei salotti bene, se se lo disputano i signori della cultura dominante, che è nella sua essenza totalmente e deliberatamente anticristiana. E come era contento l’arcivescovo di New York, Timothy Dolan, al Met gala del maggio 2018, in cui le modelle e i modelli sfilavano indossando i paramenti autentici dei papi degli ultimi due secoli, sorridendo ai fotografi, accanto alla satanista Rihanna vestita da papa e altri personaggi dello stesso genere. E com’era soddisfatto il cardinale Ravasi nel presentare la mostra correlata a quella sfilata, a Palazzo Colonna: pareva meravigliosamente a suo agio. Alcuni di quegli abiti furono indossati da Giovanni Paolo II e perfino da Pio IX: ebbene che problema c’è? Sono eventi mondani ad alto gradiente culturale, come ognuno può ben immaginare. Chissà, forse la cosa non è piaciuta troppo al Signore Gesù Cristo; e, in effetti, si fa molta fatica a immaginare Gesù che partecipa, o autorizza, comportamenti di quel genere. Quanto poi al fatto che il Vaticano ci abbia guadagnato dei bei quattrini, di male in peggio. Ma essi non si curano di simili dettagli, non badano a queste inezie. Si sentono nel giusto, vogliono cambiar la chiesa, vogliono attuare il Concilio o almeno questo è il mantra che ripetono all’infinito. Anche il signor Bergoglio lo dice e lo ripete fin dal giorno in cui è stato eletto, ed è stato eletto appunto per questo. Il Concilio, per loro, è tutto: non contano gli altri ventuno concili, né quel che la Chiesa ha detto, fatto e insegnato per millenovecento anni: conta solo quel che hanno detto i padri conciliari o, meglio ancora, quel che detta loro lo spirito del Concilio, cioè dell’eretico Karl Rahner. Giunti a questo punto, una domanda: come possono pretendere che i fedeli li seguano anche nell’apostasia?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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