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Omaggio alle chiese natie: Santa Maria della Neve

Siamo certi che pochissimi cittadini, forse quasi nessuno, sa che la dedicazione della chiesa di via Ronchi è a Santa Maria della Neve; per la gente quella chiesa era, semplicemente, la chiesa dei cappuccini, oppure, meglio ancora, la chiesa dei frati, perché i frati, nell’immaginario collettivo, sono semplicemente i cappuccini, e nessuno si sognerebbe, per esempio, di dire: la chiesa dei domenicani, o dei carmelitani, o dei serviti. Anche per noi, che, pur appartenendo alla parrocchia del duomo, vivevamo però a breve distanza da via Ronchi, quella era la chiesa dei frati; e la domenica, quando volevamo assistere alla santa Messa in un ambiente più raccolto, più tranquillo rispetto alla cattedrale, si diceva: oggi andiamo dai frati?, e ci si capiva al volo. Diciamo che quella era per tutti la chiesa dei frati, adoperando il verbo all’imperfetto, perché ora, dopo ben 450 anni di presenza francescana in città, quei frati se ne sono andati, così come se ne sono andati anche dall’altra loro chiesa cittadina, situata in estrema periferia, in via Chiusaforte, al di là dell’Ospedale civile; e siamo lieti, da questo punto di vista, di non vivere più lì, di aver lasciato la città quando ancora i frati avevano ben due conventi e si poteva assistere alla Messa domenicale in via Ronchi, mentre ora è quasi sempre chiusa, il convento è malinconicamente vuoto, e funziona solo la mensa dei poveri. Se ne sono andati per la più semplice e inoppugnabile delle ragioni, ossia perché non ci sono più vocazioni e quindi il loro ordine non è più in grado di far funzionare due conventi, due chiese e due Messe domenicali, anzi, neppure una: stato di cose assai triste e allora, cioè negli anni ’60 del Novecento, quasi inimmaginabile; eppure, ripensandoci, molto logico e addirittura prevedibile. È il segno visibile e tangibile della inesorabile secolarizzazione e della scristianizzazione della nostra società, ricca di beni materiali ma divenuta sorda e insensibile al richiamo della trascendenza; di una società che vuol celebrare la domenica con ben altri riti e miti che la santa Messa e il pensiero rivolto al Signore, ma preferisce di gran lunga scorrazzare a caccia di oggetti consumistici nei centri commerciali o andare in altro modo a caccia di piaceri, distrazioni, divertimenti, molto spesso senza conservare neppure l’unità della famiglia, ma andando ciascuno per conto proprio, anche coi bambini ancora piccoli, perché tali sono le leggi del consumismo. È meglio andare in tre che in quattro, meglio in due che in tre, meglio ancora ciascun membro della famiglia da solo: perché in questo modo di spendono più soldi, si consuma più benzina, ci si concedono più capricci e si è psicologicamente più manipolabili, in quanto viene a mancare qualunque elemento affettivo che possa distrarre l’attenzione dal dio mammona e frenare, in qualche modo, la spinta compulsiva ad acquistare merci, sempre più accessoriate e sempre più inutili, cioè sempre più slegate dalla loro funzione d’uso e sempre più trasformate in simboli del proprio stato sociale, vero o (spesso) presunto.

La chiesa dei frati di via Ronchi: che lieta atmosfera l’avvolgeva, pur nella sua facciata modesta e nella scarsa luminosità dell’interno; eppure, nelle giornate di sole, com’era bello vedere la luce entrare di traverso dalle finestre e posarsi sul celebrante mentre officiava i sacri Misteri! Tanto per cominciare, essa sorgeva (e sorge, naturalmente) in un angolo molto simpatico della città vecchia, a metà di una strada lunga un po’ fuori del tempo, tutta fiancheggiata da edifici bassi e modesti, senza neppure un negozio, un locale pubblico, eppure niente affatto malinconica, solo un po’ solitaria, un po’ trasognata, come una strada di paese smarrita chissà come all’interno delle mura cittadine. E, di fatto, era proprio così: la città, crescendo, a un certo punto aveva cominciato a espandersi in periferia, oltre le vecchie mura; e quello di Ronchi, con la sua porta urbana oggi scomparsa, era uno dei vecchi borghi rimasti indietro rispetto alla fiumana del progresso, come l’avrebbe chiamata il Verga (anche se, da queste parti, la fiumana è stata piuttosto una corrente lenta e quasi pigra, almeno fino alla metà degli anni ’70) e sopravvissuti nella loro atmosfera un po’ chiusa, un po’ assonnata, se vogliamo dirla tutta, mentre più lontano si buttavano giù le vecchie case e si costruivano edifici moderni e perfino qualche grattacielo, o qualcosa che avrebbe voluto essere tale. Con le facciate dimesse, gli appartamenti al piano terra che spalancavano le finestre direttamente sul marciapiede, e i vasi di gerani sui balconi e il selciato di ciottoli di fiume, e le rare automobili che la percorrevano, lasciando campo libero agli abitanti a piedi o in bicicletta, proprio come nella realtà di prima della guerra, via Ronchi negli anni ’60 era il residuo della città d’un tempo scampato al primo assalto del boom e rimasto in disparte ad osservare quel che succedeva nel mondo, tutto intorno a lei. Il fatto che non vi fossero negozi, né osterie, né, tanto meno, banche o uffici, ma solo vecchi muri di conventi e case popolari, le dava una caratteristica aria senza tempo, un po’ monastica, se vogliamo, ma senza bigotteria, quasi un monachesimo laico, se ci è permessa l’espressione: non si vedevano in giro frati né suore, anche se si sapeva che ce n’erano e parecchi, a cominciare dal Collegio delle Dimesse, al principio della strada, sull’angolo di via Treppo. In compenso, visto che i friulani sono forti bevitori, l’assenza di osterie aveva il benefico effetto di tener lontana la bestemmia, turpe abitudine così frequente da queste parti, e che tanto negativamente turba e colpisce chi ci capita da fuori e non si aspetta quella gragnola di sacrileghe imprecazioni, non di rado prorompenti dalla bocca innocente di bambini piccolissimi, i quali le ripetono per averle sentite dai nonni. E non lo diciamo per cattiveria o per disprezzo, ma per amore: perché amare qualcuno significa vederlo per quel che è, ma, nello stesso tempo, perdonargli i suoi difetti, per quanto gravi, in virtù dei suoi pregi, che, nel nostro cuore, li sopravanzano di molto. Chi minimizza o cerca di nascondere i difetti di qualcuno, non lo ama per davvero, al massimo fa finta. E anche questa sincerità ruvida, diciamo pure un po’ brutale, è un frutto genuino della mentalità friulana: a che scopo girare attorno ai problemi, menare il can per l’aia? Meglio prender le cose di petto, a spiegarsi e magari a scusarsi c’è sempre tempo, dopo; e poi si sa che è meglio dir le cose come stanno, piuttosto che far finta: No son duc’ Sants chêi ch’a van in glèsie. Serve tradurre?

La chiesa dei cappuccini si nota solo all’ultimo momento, tanto modesta e schiva è la sua facciata, liscia, disadornata, senza neanche una scultura o un fregio, al punto che la si distingue appena dalle pareti del convento adiacente: semplicissima, con due sole finestre laterali e una trifora sopra il portone, è stata eretta nel 1831, quando i frati erano arrivati da quasi tre secoli, precisamente dal 1564, allorché fondarono il loro primo convento presso la porta di San Lazzaro, all’altro capo della città. Se ne sono andato nel 2012, perché rimasti troppo pochi e per lo più anziani, riflesso dell’invecchiamento generale della popolazione italiana, non controbilanciato da nuove ordinazioni sacerdotali: e come non si fanno più bambini, non sbocciano neanche nuove vocazioni. Pochi metri prima di giungere alla chiesa, venendo da via Scrosoppi, c’è un bel palazzo seicentesco e, proprio di fonte, c’era un angoletto delizioso, all’angolo del largo dei Cappuccini: una simpatica propaggine del giardino del seminario, tutto verde come una piccola foresta che traboccava dal muretto di pietra e che si arrampicava, con festoni fittissimi, lungo i muri di una casa, che ne restava pressoché interamente avviluppata; e dobbiamo dire c’era, anche stavolta, perché abbiamo scoperto, visualizzando Google maps, che non c’è più, o meglio è stato vergognosamente amputato, perché tutta la zona di largo dei Cappuccini è stata radicalmente ristrutturata, ma sarebbe più giusto dire stuprata. Ora, al posto di quel delizioso giardino, sul quale svettavano alcuni alberi davvero imponenti, cedri e abeti secolari, hanno fatto un meschino parcheggio per recuperare una decina di posti auto: ma il gioco valeva la candela? Su questa mentalità degli amministratori, degli urbanisti e degli architetti delle ultime generazioni, la pensiamo esattamente come la pesava Renzo Valente (1916-2002), il bravissimo giornalista del Messaggero Veneto che è stato anche l’ultimo cantore della vecchia Udine, al quale piangeva il cuore ogni volta che vedeva abbattere un vecchio edificio e innalzarne uno nuovo; e ciò dovrebbe essere patrimonio spirituale degli abitanti di città come questa, che, per fortuna, non ha mai conosciuto le brutture della modernizzazione violenta ed è ancora fatta, o almeno lo era sino a pochi anni fa, al novanta per cento di edifici tradizionali, alcuni dei quali antichi e artisticamente pregevoli, tutti però, o quasi tutti, dotati di una loro dignità, di una loro sobria compostezza, di una loro ragion d’essere. Perché lasciarsi prendere dalla smania di buttarli giù, dunque, se non ve n’è l’assoluta necessità? Anche questo fa parte della mentalità consumista: le cose un po’ usurate non si aggiustano, si gettano, che si tratti d’un ombrello, o di un coltello, o un paio di calzoni, o una bicicletta. Tanto, comprarle nuove costa meno. Il che può essere vero, anzi lo è senz’altro, nella maggior parte dei casi. Ma davvero si può ridurre al problema a una faccenda di soldi? Ci sono cose che non hanno prezzo, perché sono immateriali, come i sentimenti, gli affetti, i ricordi, le tradizioni: buttar giù vecchi palazzi per innalzare anonimi edifici è uno sport facile, ma assolutamente stupido. Così facendo, le città perdono l’anima: ve ne sono molte che l’hanno persa da un pezzo. E se un luogo perde l’anima, la perdono anche i suoi abitanti.

Un processo del tutto analogo, e molto più grave, perché va al colpire al cuore l’anima cristiana delle persone, nel senso più strettamente religioso del termine, è stato quello che si è verificato, nella Chiesa cattolica, a partire dal Concilio Vaticano II, e che prosegue tutt’oggi, acquistando ogni anno, ogni mese, quasi ogni giorno che passa, un ritmo sempre più accelerato, più scomposto, più caotico. Non però disordinato, perché dietro l’apparente confusione si intravede benissimo il tenebroso disegno di fondo che ha ispirato, sin dall’inizio, un pugno di cardinali massoni e di vescovi neomodernisti: cambiare la Chiesa, trasformarla in una succursale del luteranesimo, secolarizzarla, mondanizzarla, farla scendere a patti con il mondo: tu non dai fastidio a me, io non do fastidio a te e ce la passiamo entrambi senza noie, soddisfatti e contenti. Per chiamare le cose con il loro nome, è stato un tradimento: il peggiore, il più vile, il più abietto che si potesse concepire e perpetrare. Centinaia di milioni di fedeli sono stati circuiti, raggirati, ingannati e sospinti fuori dal cattolicesimo, credendo però di esserci ancora dentro, credendo che le cose, tutto sommato, fossero rimaste quelle di sempre, pur dietro la facciata di alcuni vistosi aggiornamenti liturgici, il più grosso dei quali è stato il Novus Ordo Missae. Ma il tempo giocava a favore di quei cardinali massoni e di quei vescovi neomodernisti: il tempo che accompagna alla tomba gli esseri umani, e che, con un processo naturale, reso soltanto più spensierato, cioè più smemorato, dai meccanismi della società moderna, sospinge al cimitero le vecchie generazioni, sicché le nuove si affacciano ignare e sprovvedute sul palcoscenico della vita. I giovani di oggi non sanno che la chiesa, nella quale sono sempre vissuti, è ormai solo in parte la vera Chiesa cattolica, mentre è diventata, in misura ben maggiore, una falsa chiesa, eretica e apostatica, che nessuno dei papi vissuti prima del Concilio e nessuno dei grandi Santi, anche quelli del Novecento, come san Pio da Pietrelcina, avrebbero mai riconosciuto come la vera Sposa di Cristo. Mano a mano che gli anziani se ne vanno all’altra vita, le generazioni che succedono loro perdono la memoria di quel che è stato, ne perdono perfino la nozione storica. Credono che la santa Messa sia sempre stata così, uno stringersi le mani, un pregare per questo e quel problema sociale, un inveire contro Salvini e i populisti, un ordinare l’accoglienza illimitata dei migranti, un distribuire la santa Eucarestia sulle mani, ritti in piedi, come un diritto, come l’esercizio di una liberà umana, anche ai divorziati risposati, anche ai sodomiti impenitenti, anche alle donne che hanno abortito, tanto chi è il prete per giudicare: senza bisogno di confessarsi, senza la coscienza che fare la Comunione senza essere in grazia di Dio equivale a mangiare la propria dannazione. E come gli urbanisti e gli amministratori hanno voluto rifare le città, così i neovescovi e i neopreti hanno voluto rifare la fede: ma la fede è quella e non cambia, non può cambiare, è eterna e definitiva, o si crede o non si crede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, incarnato, morto e risorto per amor nostro, c’è poco da aggiornare, da approfondire, da modernizzare. Sono tutte sciocchezze, sono tutti specchietti per le allodole: linguaggio truffaldino escogitato per ingannare le persone in buona fede, per dare loro l’illusione di essere ancora nella vera Chiesa di Cristo, mentre non lo sono più. Da cosa si capisce che costoro non sono in buona fede, che hanno in mente un disegno diabolico per snaturare, pervertire e distruggere la Chiesa? (perché stiamo certi che verrà anche quel momento: già lo ha detto, il signor Bergoglio, che Dio non è cattolico; un bel giorno dirà: ragazzi, abbiamo scherzato: Gesù non è Dio, Dio non esiste, rompete le righe, tutti a casa e datevi al buon tempo per i pochi anni che abbiamo da vivere). Lo si capisce da questo: che ogni volta che spostano l’eresia un po’ più avanti, che la fanno progredire d’un altro passo, è come se dicessero: non si torna indietro. Lo fanno anche visivamente, quando innalzano le nuove chiese e chiudono o abbattono le vecchie; lo hanno fatto con la riforma liturgica, abolendo la Messa di Pio V, anche se nessun documento del Concilio dice questo. Attenzione: chi dice indietro non si torna è un dittatore e un falsario: vuole imporre la sua volontà e pretende che il reale sia quel che pensa lui…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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