
Montale cosa aveva capito di Italo Svevo?
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16 Luglio 2018Una maniera per capire meglio una persona è ascoltare le sue opinioni su altre persone. Il giudizio che noi diamo su uomini e cose è anche il giudizio che noi diamo su noi stessi e permette agli altri di formarsi una opinione più completa di ciò che siamo e di ciò che pensiamo di essere. La cosa diventa ancora più interessante se si tratta di un uomo di cultura, di un artista o di un pensatore che manifesta il suo giudizio su un altro uomo di cultura, artista o pensatore; e presenta il massimo interesse se riguarda due intellettuali i quali, allorché si conobbero, erano ancora agli esordi della loro carriera e della loro notorietà, mentre sono all’apice del successo al momento in cui uno dei due manifesta la propria opinione riguardo all’altro. Infine, può darsi una circostanza ulteriormente interessante: quando i due hanno imboccato strade molto diverse, per non dire opposte, sia nel loro ambito specifico, per esempio se entrambi sono dei poeti e dei saggisti, sia sul piano ideologico e politico, e più precisamente se l’uno dei due, quello che giudica, è venuto a trovarsi, dopo un grosso rivolgimento non solo politico, ma anche culturale, dalla pare "giusta" della barricata, circondato dal consenso generale e approvato nelle sue scelte passate, mentre l’altro, quello che viene giudicato, ha fatto, apparentemente, la scelta di campo "sbagliata", si è messo in una situazione universalmente criticata, è stato pefino processato e messo in prigione, anzi per poco non è stato fucilato, ma senza usufruire della più piccola dose di quella simpatia e solidarietà che, in simili casi, viene di solito riservata ai poeti. Tutte queste circostanze interessanti si trovano nel giudizio che il poeta Eugenio Montale, in predicato per l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura (lo riceverà nel 1975) esprime sul poeta Ezra Pound, una prima volta quando la stampa dà la notizia che questi, dopo dodici anni di reclusione in una clinica psichiatrica, sta per essere rimesso in libertà e si accinge a tornare in Italia, dove aveva vissuto per circa trent’anni, prima e durante la Seconda guerra mondiale, e una seconda volta, quattordici anni dopo, per fare un bilancio delle proprie impressioni e riflessioni sul poeta americano, il quale, effettivamente, era venuto a stabilirsi in Italia, la sua patria ideale, quasi in volontario esilio.
Ed ecco cosa scriveva Montale, di Pound, sul Corriere d’Informazione del 26-27 aprile 1958, e poi sul Corriere della Sera del 3 novembre 1972, dunque in due distinte occasioni, a distanza di quattordici anni l’una dall’altra (rimandiamo ai testi originali per la lettura completa, che sono contenuti in: Montale, Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, pp. 500-03 e 530-31):
Ma è proprio vero che il poeta americano sia pazzo? E si può affermare che Pound abbia visto e ammirato gli italiani di oggi, anzi di ieri, come esseri "equestri, stivalati e con l’occhio fisso nella Gloria"? E dobbiamo proprio credere che nei suoi versi Pound abbia "trasformato in epica noi, gli italiani d’oggi"? E che egli abbia "proclamato in bellissimi verso che l’Italia era davvero come Mussolini la descriveva"?Io dico la verità: avendo avvicinato più volte Pound, a Rapallo e a Firenze, tra il 1925 e il 1935e illudendomi di essere un discreto conoscitore della sua poesia (per quel tanto che mi è riuscito di decifrarla) non troverei alcun argomento che possa convalidare tali opinioni. Ma di questo dirò tra poco. Sulla pazzia del poeta non potrei pronunciarmi per difetto di competenza. (…) Se la follia dello zio Ezra avesse alimentato in profondità la sua poesia — come fu per Hölderlin-, questa avrebbe raggiunto altra consistenza e uniformità. Come teorico e critico di poesia come traduttore e ricreatore di poeti, Pound ragionava fin troppo bene. Si era però colpiti dal fatto che questo pioniere e scopritore di nuovi mondi (si è parlato per lui di poesia spaziale) compisse in ritardo esperienze che in Europa erano già passate in giudicato.(…) Cattivo conoscitore della nostra lingua, convinto che dopo Cavalcanti la poesia italiana avesse passato il bastoncino della poetica "corsa a staffetta" ad altre nazioni, che cosa pensava di noi e delle faccende di casa nostra l’esule di via Marsala 12 (Rapallo)? Nella sua poesia il nostro Paese entra come un semplice ingrediente né più né meno che in Browning, né più né meno che in tutti i poeti inglesi "che amano l’Italia" (…) Il vero Pound "fascista" (e non poteva essere altrimenti) si trova, invece, altrove: in quelle circa 400 pagine dei suoi discorsi a Radio Roma che si possono acquistare in microfilm al prezzo di tre dollari, Non ho letto né leggerò mai quei discorsi: chi li conosce afferma ch’essi testimoniano di un’autentica e triste decadenza mentale. È chiaro però che difendendo ed esaltando l’Asse il Pound non faceva che aggiungere un nuovo capitolo alla battaglia da lui sostenuta contro la Usurocrazia – a suo avviso di stampo ebraico — che da quasi un secolo avrebbe snaturati e corrotto il grande processo dell’indipendenza americana. Avevo sempre creduto che le teorie di Pound in fatto di economia fossero un suo innocente "hobby"; solo più tardi, allo scoppio della guerra, vidi ch’esse erano tanto radicate in lui da farlo precipitare come ha detto Robert Fitzgerald –"in una decrepita e orrida fantasia, in una ottusa e statica ossessione". Chi legga il volumetto "Lavoro e usura" stampato da Scheiwiller due anni fa potrà rendersi conto delle accennate teorie poundiane. Solo un economista potrebbe confutarle; quel che potremmo dire noi su queste colonne era che un uomo il quale pretendeva di risalire fino ad Aristotele e a Confucio e studiava le correlazioni fra l’economia fascista, l’economia canonica ovvero cattolica e medievale e le proposte della scuola di C. H. Douglas e di quella di Gesell, spiegava poi la storia di tutto il mondo col fatto che gli Stati Uniti fossero venduti ai Rotschild nel 1863. E così l’usurocrazia ch’ebbe il sopravvento in America dopo la morte di Lincoln era, per lui quella che ha condannato a morte Hitler e Mussolini. Quanto all’economia del bolscevismo: essa differisce solo in superficie da quella del capitalismo. Bolscevismo e capitalismo sono alleati in profondità. I liberali parlano di esportazione della mano d’opera, Stalin comanda quaranta vagoni di materiale umano per lavori su un canale…Non posso giudicare; solo suppongo che anche in economia il Pound abbia proceduto come faceva nel campo dell’estetica e della poesia:ingigantendo con la lente qualche particolare e perdendo di vista quelle interne strutture e quel senso storico senza dei quali la poesia non impegna tutto l’uomo. L’umiltà: ecco una dote che è mancata sempre a Pound. Questo poeta pioniere, questo americano di marca precapitalistica aveva bisogno di ridurre tutto l’universo a proporzioni tascabili per potervi applicare la sua industria di "miglior fabbro" (…) Audacia intellettuale e folle egotismo, genio di sperimentatore e infantilismo sembrano le componenti del pensiero di questo poeta che pur fu generoso di aiuti ai giovani della sua generazione e che restò poi indifferente allo strazio di una folla di innocenti avviati alla peggiore delle morti nelle camere a gas. (…)
Curioso di storia, ma antistoricista più ancora di Eliot, Pound non poteva dunque trovarsi a mal partito in una Italia ch’era ancora per lui un paese non corrotto dalla lebbra capitalistica. (…) E fino a questo punto possiamo comprendere perché lo zio Ezra non ebbe sostanziali obiezioni da muovere al fascismo. Ben peggiore fu il comportamento di molti italiani più colti di lui. Ma stiamo attenti: comprendere non è giustificare. E quando ci vengono a dire (non l’ho ascoltato con i miei orecchi) che Pound da Radio Roma si schierò contro il suo paese in guerra e tributò incondizionata ammirazione per la figura di Hitler e di Mussolini e per le misure antisemite che furono poi un genocidio terrificante, allora dobbiamo pensare che non il vero Pound adulto poteva parlare così se in lui non avesse prevalso l’irresponsabile, l’alienato da se stesso e dal mondo. Non ho ascoltato i nastri registrati dal Pound, ospite di Roma e persona grata a quel regime. Sono ben certo che i massacri e i forni crematori furono una notizia, un fatto di cui egli no0n ebbe mai nozione. Ma tutto ciò rende più plausibile quel sospetto di incompiutezza che lasciò sempre il corpus dell’opera sua per tanti aspetti così geniale.
Senza dubbio Montale, che nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale si godeva il piacere di essere sempre stato dalla parte "giusta", avendo firmato il manifesto degli intellettuali antifascisti di Croce del 1925, anzi si prendeva anche il lusso di manifestare scontentezza perché, pur avendo avuto ragione, il mondo non andava del tutto nella direzione da lui voluta, non si rendeva conto che, scrivendo queste parole terribili per la loro stupidità e superficialità, per il veleno dell’invidia e della cattiveria che le pervade, per la sottile ipocrisia di non voler giudicare (un concetto che ripete più volte in poche righe) e intanto addossa a Pound una corresponsabilità morale per i peggiori crimini del XX secolo, e lo accusa di folle egotismo e irresponsabilità, non pensava di stare firmando anche il giudizio che i posteri avrebbero dato di lui. Chi giudica, stando nella comoda posizione del vincitore, non pensa mai che un giorno anche lui verrà giudicato; e perciò si mostra realmente senza veli, per ciò che è, sino in fondo, con una sincerità inconsapevole e brutale.
Possiamo articolare il giudizio di Montale su Pound su quattro livelli: poetico, umano, politico e morale. Del poeta Pound, Montale non aveva capito nulla, e infatti non dice quasi nulla, e quel poco che dice è penosamente inadeguato. Insiste più sull’aspetto genericamente culturale. Dice che la sua cultura era superficiale, che il suo amore per l’Italia era generico e letterario, che conosceva male la lingua italiana (mentre Montale non troverà nulla da ridire sull’italiano di Svevo, col quale era ideologicamente e letterariamente in sintonia, quando non occorre essere dei linguisti per accorgersi che l’italiano di Svevo è imbarazzante; con la differenza che Pound non pretendeva di scrivere le sue opere in italiano, neppure dopo trent’anni vissuti in Italia, Svevo invece sì); e lì si ferma. Dell’uomo Pound, dice di esser convinto della sua profonda bontà, ma poi gli addebita i campi di sterminio e le camere a gas. Allo stesso tempo, si ferma davanti al giudizio sulla sua pazzia, dice di non esser competente, anche se poi avanza una spiegazione psicanalitica della sua "follia" (quella politica; ché, per Montale, solo un americano pazzo poteva schierarsi con l’Italia di Mussolini nel 1940) e insiste sulla sua mancanza di umiltà come causa di tutti i suoi errori. Di fatto, tra i due esiste anche una totale dissonanza temperamentale. Pound era un "caldo", uno che viveva con passione non solo i sentimenti, ma anche i pensieri, e che si buttava nelle cose, rischiando di persona; inoltre era uno spirito avventuroso, un uomo della frontiera del primo XIX secolo, scaraventato per sbaglio cento anni dopo. Montale era un "freddo", tranquillo, sedentario, per non dire pantofolaio, prudente, istintivamente infastidito da quelli come l’altro, che gli parevano semplicemente degli esibizionisti. Del Pound politico, Montale si accontenta del giudizio più banale ed esteriore, quello che avrebbe potuto dare la portinaia o la fruttivendola della bottega all’angolo (con tutto rispetto per le portinaie e le fruttivendole, più schiette e meno pretenziose dei poeti in odore di Nobel). Dell’idea centrale di Pound, che l’usura sta conquistando e divorando il pianeta, non ha capito nulla: gli sembra uno scherzo, un capriccio, una cosa non seria; la minimizza e la banalizza dicendo che l’americano ingigantisce i dettagli e perde la visione d’insieme (che lui, invece, ritiene d’avere). Quindi non ha capito nulla né del fascismo, né della Seconda guerra mondiale, né del comunismo, né del capitalismo. Oggi, a soli cinquant’anni da quei giudizi, in piena globalizzazione finanziaria, possiamo vedere chi dei due aveva capito qualcosa, e chi no. In ogni caso, in Montale, neppure un’ombra di simpatia per questo americano che nel 1940 ha scelto, rischiando di persona, di parlare alla radio in difesa della sua patria ideale, il piccolo Davide contro il gigante Golia, la sua patria naturale. Tutt’altro; e se la cava dicendo che gli americani gli hanno fatto un favore a dichiararlo pazzo per evitargli la sedia elettrica. Infine, il giudizio morale: sì, ammette di malavoglia, certo Pound non sapeva di Auschwitz, però… quando si gioca con le parole come lui ha fatto… Quanto veleno, quanta meschinità in tale insinuazione. Lui, Montale, perfettamente informato d’Hiroshima e Nagasaki, e pure dei gulag di Stalin, non ha però il minimo dubbio che tutto il male fosse da una parte sola, quella scelta da Pound, e tutto il bene dall’altra: modestamente la sua.
Alla fine Montale "assolve", ma solo parzialmente, Pound, dal processo in piena regola che gli ha fatto (e dicendo più volte di non aver titolo a giudicare) dichiarandolo alienato mentale. Il tutto con una sciatteria non solo di argomenti (come quando parla dei discorsi alla radio di Pound che non ha letto e che non leggerà) ma anche di stile (si permette perfino di sbagliare i tempi verbali: quel che potremmo dire noi su queste colonne era che un uomo ecc.) da cui traspare tutta la supponenza di un piccolo uomo tronfio e compiaciuto, che scaglia i suoi strali velenosi contro un gigante del quale non ha compreso nulla, perché comprendere l’altro significa uscire dal proprio io; e Montale, che accusa Pound di egotismo, è il prototipo dell’intellettuale che non cessa mai, neppure un istante, di contemplare il proprio ombelico, profondamente convinto che sia il centro dell’universo: presente, passato e futuro. Ma il caso Montale non è affatto isolato. Dietro tanta supponenza falsamente mite traspare l’arroganza della cultura di sinistra che sa d’aver vinto e che si bea in regime di monopolio.
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