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Montale cosa aveva capito di Italo Svevo?

Abbiamo visto, parlando di Eugenio Montale ed Ezra Pound, che una maniera per capire meglio una persona è ascoltare le sue opinioni su un’altra persona, perché il giudizio che noi diamo su uomini e cose inevitabilmente si rovescia in un giudizio che noi diamo su noi stressi, offrendo agli altri la possibilità di penetrare meglio nel nostro mondo interiore, nei nostri valori, nel nostro modo di ragionare e nella nostra sensibilità. Ciò vale non solo allorché si tratta di giudizi di segno fortemente negativo, come nel caso suddetto, ma anche nel caso opposto, cioè quando sono giudizi nettamente elogiativi. Tale è il caso di Montale e Italo Svevo: il poeta di Ossi di seppia, infatti, fu uno dei primi, e, inizialmente, uno dei pochi, che recensì favorevolmente La coscienza di Zeno, la quale, come è noto, ebbe subito maggiore successo all’estero, specie in Francia, grazie anche alle segnalazioni di James Joyce, che interessò i critici Valéry Larbaud e Benjamin Crémieux. In Italia essa passò dapprima quasi inosservata, come i due precedenti romanzi Una vita e Senilità; Montale, insieme a Giuseppe Prezzolini, fu uno dei pochi che l’accolse con favore. Possiamo anzi dire che la recensione favorevole di Montale ebbe un ruolo decisivo, anche se in anticipo rispetto alle altre, nell’aprire la strada all’accoglienza del terzo romanzo di Svevo, e di conseguenza dell’opera complessiva dello scrittore triestino, da parte della cultura letteraria italiana. Se Italo Svevo, oggi, è quasi universalmente riconosciuto come un maestro del XX secolo, il merito, o la responsabilità, è principalmente di Montale: succede infatti che un poeta famoso si imponga anche come critico, benché, a rigore, un poeta possa anche rivelarsi poco attendibile o poco felice come critico (così come può verificarsi il caso opposto, che un uomo di lettere sia migliore come critico che come poeta o come scrittore). Ma Italo Svevo è effettivamente un maestro? Questa è una prima domanda, politicamente scorretta, che ci permettiamo di porre. E si capisce che essa vale, in una certa misura, anche per molti degli scrittori europei che vengono associati, almeno idealmente, alla sua opera, cominciando da Joyce e arrivando fino a Pirandello, Proust e Woolf. Una seconda domanda, non meno politicamente scorretta, è se Montale sia a sua volta un maestro. Dipende, qualcuno potrebbe obiettare, da cosa s’intende per maestro. In tal caso, ci affrettiamo a togliere di mezzo possibili equivoci e diamo la seguente definizione: un maestro, nel campo della letteratura, è un autore, scrittore o poeta, che s’impone sia per la qualità intrinseca della sua opera, sia per l’autorevolezza dei suoi giudizi e, quindi, per il ruolo che egli svolge nell’insieme della cultura del suo tempo.

Come si sarà intuito, le nostre opinioni sulla grandezza sia di Svevo che di Montale, sono piuttosto eterodosse; così come lo sono sulla cultura italiana dal dopoguerra a oggi (perché la gloria di entrambi, in Italia, ma specialmente quella di Svevo, si stabilisce definitivamente dopo il 1945 e quindi ha a che fare, anche se già solo accennare a tale circostanza è eretico, non solo con la bontà intrinseca della loro opera, ma anche col mutato clima politico, che ha portato con sé un mutamento complessivo del clima culturale). Quel che vogliamo dire è che se Ossi di seppia e Le occasioni, da un lato, come i tre romanzi di Svevo, dall’altro, assursero definitivamente al rango di classici, e i loro autori al ruolo di "maestri", dopo il 1945, e non prima, ciò, forse, non dipende solo da una temporanea cecità e sordità della critica italiana d’anteguerra, ma proprio dal mutamento, per non dire dal rovesciamento, del clima culturale che ebbe luogo in Italia dopo la Seconda guerra mondiale (con il suo corollario della guerra civile), come contraccolpo di un radicale mutamento di segno politico. In altre parole: negli anni fino alla Seconda guerra mondiale la cultura italiana, che oggi tutti i libri di testo "canonici" e tutti gli storici della letteratura politicamente corretti accusano di essere stata provinciale, neghittosa e xenofoba, cercava, in effetti, di fronteggiare la marea incipiente della americanizzazione e, più in generale, della modernizzazione, sostenuta anche, questo è vero, dal regime politico allora al potere, valorizzando il più possibile la tradizione italiana e le opere aderenti ad essa, e ponendo un qualche freno al dilagare delle opere di Hemingway, Steinbeck, Dos Passos, ma anche Joyce, Kafka, Thomas Mann, nelle quali sentiva dei valori estranei a sé, e un compiacimento nella crisi spirituale novecentesca alla quale, invece, essa voleva reagire, appunto attingendo al patrimonio morale specificamente italiano. Così, e solo così, si spiega il fatto che, prima del 1945, il panorama letterario nazionale fosse occupato da Oriani, Papini, Bacchelli, Soffici, Moretti, Calzini, Bargellini, Lisi, Maccari, Bontempelli, Landolfi, Deledda, Tozzi, Palazzeschi: i quali non saranno stati dei grandi — tranne Oriani e Papini, e forse Bacchelli — ma, pur nella notevole varietà che li differenziava, erano accomunati da un forte richiamo alla tradizione italiana; mentre dopo il 1945 questi nomi cominciano a impallidire, quasi a evaporare, e la scena viene rapidamente occupata da quanti, prima, erano passati quasi inosservati, ma avevano ora il vantaggio di trovarsi, ideologicamente, dalla parte "giusta": di essere stati antifascisti e di essere, ora, o di sinistra o filo-americani e quindi fautori, al di là della contrapposizione comunismo/anticomunismo, della modernità e di quella che ancora non si chiamava globalizzazione ma di fatto lo era, o ne era la premessa e la fase iniziale. Ed ecco che Quasimodo surclassa, nella celebrità, Ungaretti, forse solo perché il primo è antifascista, mentre il secondo era stato fascista (e non ha avuto neanche la decenza di chiedere scusa). Ed ecco il rapido, irresistibile trionfo di Pavese, di Moravia, di Vittorini, di Calvino, poi di Pasolini, Sanguineti, Balestrini; ecco la rapida occupazione dei giornali da parte di firme, come quella di Montale divenute autorevoli e infallibili non solo per via dei meriti strettamente poetici, ma anche per quelli ideologici, in quanto aver firmato il manifesto di Croce del 1925 era pur sempre una medaglia da appuntarsi al petto, mentre aver fatto quel che Pound aveva fatto, parlare a Radio Roma in piena guerra, auspicando la vittoria dell’Asse, quello era veramente imperdonabile. E poco importa se agli "antifascisti" Croce e Montale non era mai stato torto un capello, né mai avevano rischiati nulla sotto il fascismo, mentre l’antifascista Pound venne chiuso in gabbia come una bestia feroce e spedito per dodici anni in manicomio criminale, mentre ad altri andò anche peggio di lui (il filosofo Gentile, ad esempio, era stato assassinato dai gloriosi partigiani comunisti, vecchio e disarmato, e innocente di qualsiasi delitto). L’assunzione delle poesie di Montale e dei romanzi di Svevo nell’Olimpo della cultura letteraria italiana si colloca in questo clima e ha a che fare con questo rovesciamento di paradigma. Quanti vantavano benemerenze antifasciste divennero automaticamente critici letterari e cominciarono a sparare giudizi su tutto e su tutti (anche al di fuori dell’ambito propriamente letterario), sicché non solo furono i protagonisti della cultura ufficiale, ma divennero anche i giudici e i guardiani di cosa è cultura, e di cosa non lo è. Sicché promossero la glorificazione dei loro amici e dei loro affini, ad esempio Montale nei confronti dell’opera di Svevo (il quale com’è noto era morto improvvisamente fin dal 1928, per i postumi d’un incidente automobilistico) e condannarono alla damnatio memoriae quanti si erano compromessi col caduto regime. Un trattamento per così dire intermedio fu riservato a quanti non erano stati fascisti (parentesi: prima del 1943 erano stati tutti fascisti; fu dopo il 25 luglio che gran parte degli intellettuali fece il salto della quaglia, come Malaparte, per citarne solo uno), ma nemmeno avevano brillato per il loro antifascismo, oppure si erano distinti per una rifiuto della seduzione socialista e comunista e avevano tenuto fermo sulle loro posizioni autenticamente cattoliche, o liberali, o, magari libertarie (come nel caso di Cassola, stroncato dalla critica che conta, ma ripescato a furor di popolo dai lettori, che amavano i suoi libri).

Ed ecco quel che Mintale diceva e ascriveva dell’opera di Svevo (in: Letteratura e critica, a cura di G. Barberi Squariotti e A. Jacomuzzi, Firenze, G. D’Anna Editrice, 1968, pp. 328-330):

"Una vita", storia dell’inurbamento di un giovane e romantico provinciale, del suo smarrirsi in un complicato groviglio economico-erotico-psicologico, e del suo finale suicidio, offre, per quanto imperfetta, una tal folla di persone vive che il lettore è condotto a pensare a Balzac, e ai suoi procedimenti. In "Senilità" il quadro più ristretto, che riconduce in un certo modo il pensiero al "recipe" della "tranche de vie", dà modo a Svevo di toccare i suoi risultati maggiori e la sua più sicura originalità. Grande sapienza e insieme semplicità di costruzione, unita ad una implacabile scienza del cuore umano, fanno di "Senilità" un romanzo quasi perfetto. Il terzo libro di Svevo si fa attendere ora venticinque anni. "La coscienza di Zeno" è del 1923. (…) Ci troviamo di fronte ad una complessità, alla quale, peraltro, non si può far carico, a differenza di quanto accadeva nel primo romanzo: "Una vita", di eccessi illustrativi o dispersioni aneddotiche. Il difetto della "Coscienza di Zeno" è d’altro ordine, e viene da questo: che l’autore, attento a registrare le minime vibrazioni del proprio interno sismografo, si rifiuta ad ogni scelta; di qui la difficoltà del libro, la sua autentica e non tutta giustificata gravezza. Qui tutto quanto possa ricordare gli "agréments" del libro d’arte è nettamente bandito; l’attenzione deve portarsi nel piano nascosto, le voci non rendono eco che in un livello invisibile, ricco di frane e di caverne oscure: le voci salgono qui "dal sottosuolo", né questa regione oscura è data, almeno visibilmente, come zona di tragedia: qui non sono leoni, o non sono, almeno, leoni compiaciuti di sé e troppo riconoscibili. Diremo anche parafrasando la celebre frase di Tolstoi che "Svevo non vuole affatto farci paura". Il pianto e il riso stanno in questa plaga con eguali ragioni; e Zeno e Guido, il personaggio del libro più importante dopo il protagonista, non si scordano mai di essere, come la vita, supremamente tragici e comici ad un tempo; ed il suicidio di Guido, suicidio reale ma involontario, tentato per amore del "gesto", e riuscito invece oltre le previsioni, si colora anch’esso, infine, di un amaro e madornale ridicolo. Segna talora quest’audacia, che fa talora rimpiangere la limpidezza genuina dei primi volumi, un tributo all’ultima moda del’alta letteratura internazionale? Non lo diremmo: lo sviluppo di Svevo ci appare, anzi, ben suo. Ma è affatto naturale che ognuno risenta del proprio tempo; e se la corrente dei narratori, e n genere degli artisti moderni, che si richiama a uno sorta nuovo e tende ad una sorta di realismo integrale, è giunta per l’influsso di svariate cause – il meccanismo moderno [?], il fallimento della filosofia intellettualistica, Bergson , Freud, ed altre molte — ad affini forme, dirozzate, ricche di sottintesi e crudelmente ambigue, si può allora comprendere che lo Svevo, che di tale tendenza è il nostro rappresentante forse unico, almeno tra i narratori, sia giunto per proprio conto a non dissimili risultati. "La coscienza di Zeno" è l’apporto della nostra letteratura a quel gruppo di libri ostentatamente internazionali che cantano l’ateismo sorridente e disperato del novissimo Ulisse: l’uomo europeo.

Quali meriti riconosce dunque Montale a Svevo, nell’atto di rendergli omaggio e volerci persuadere che d’un grande scrittore si tratta? Ci si perdoni il paradosso, ma Montale, che vorrebbe magnificare le virtù letterarie di Svevo, ci offre o una singolare incomprensione della sua opera, o una indicazione di segno contrario a quella che vorrebbe darci: come altro interpretare la sua affermazione che il difetto della "Coscienza di Zeno" viene da questo: che l’autore, attento a registrare le minime vibrazioni del proprio interno sismografo, si rifiuta ad ogni scelta; e che da ciò deriva la difficoltà del libro, la sua autentica e non tutta giustificata gravezza? Possibile che Montale, nella’atto di recensire La coscienza di Zeno, non abbia compreso, lui soltanto, che il rifiuto di scegliere, da parte del protagonista, non è un "difetto", ma la ragion d’essere del romanzo, perché vuol rappresentare una condizione psicologica ed esistenziale di radicale "inettitudine", e perciò di non scelta, di fronte alla vita, nelle cose grandi e piccole; e non si sia accorto che tacciare il romanzo di pesantezza non sempre giustificata equivale a stroncarlo inesorabilmente, perché tale gravezza è, per Svevo, la cifra stessa dell’esistenza? Sarebbe difficile immaginare un volonteroso estimatore di un autore o di un’opera che sappia essere, al tempo stesso, altrettanto maldestro e controproducente. Svevo è così, oppure non sarebbe se stesso; e chiedere a Zeno una maggior capacità di decisione, o al romanzo una minore "gravezza", equivale, puramente e semplicemente, a chiedere un altro Svevo, un altro romanzo, un qualcosa di totalmente diverso da ciò che realmente c’è. Pertanto alla domanda: cosa ha capito Montale, di Svevo?, la risposta non può essere che: nulla, assolutamente nulla. E ciò per la ragione già evidenziata nel precedente articolo: che Montale non sa uscire da se stesso, e quindi giudica difetto ciò che non si accorda col suo sentire, pregio quel che vi si conforma. Pessimo critico e inguaribile egotista. Il fatto, poi, che egli lodi l’opera di Svevo, dipende semplicemente dal fatto che fra i due, a differenza di quel che accade con Pound, esiste una consonanza di fondo: entrambi giudicano la vita una cosa estremamente sgradevole, beffarda e irritante. Sono anche d’accordo che non c’è niente da dire di essa, e quindi che parlarne è inutile. Eppure parlano, parlano, e si sostengono come operai della stessa impresa. È curioso, vero?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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