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Il vano indugio a Mosca mostra i limiti di Napoleone

Se Napoleone sia stato un genio militare oppure no, è una questione controversa, che rimane di fatto aperta e, forse, indecidibile; con buona pace di quegli storici i quali si ostinano a pensare la loro disciplina in termini scientifici (e sia pure una "scienza dello spirito" e non una scienza della natura, secondo la celebre distinzione di Dilthey; cfr. il nostro saggio Essenza della filosofia e coscienza della sua storicità nel pensiero di Wilhelm Dilthey, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 24/06/2008 e ripubblicato sul dito dell’Accademia Nuova Italia il 17/11/2017). Di fatto, la grande maggioranza degli storici tende a studiare "Napoleone Bonaparte" come una personalità unitaria e come un soggetto unico, mentre in lui bisognerebbe distinguere almeno il politico e il condottiero. Ma siccome la maggioranza degli storici sono storici e basta, essi tendono a incorporare l’aspetto militare in quello politico, per cui giudicano l’opera di Napoleone essenzialmente in senso politico, e vedono la sua attività di condottiero semplicemente come la spada che egli sguainò al servizio del suo disegno politico. Diversa, tuttavia, è la prospettiva dello storico militare. La storia militare è essenzialmente una storia di tipo tecnico, come lo è l’economia; e anche se la scuola degli Annales e la Nouvelle Histoire ci hanno familiarizzato con l’opportunità, se non la necessità, di riunire in un solo fascio e di coordinare le differenti discipline che hanno attinenza con la storia, onde trarne una visione d’insieme più complessa e articolata, e quindi più esaustiva ed esatta, dei vari momenti e situazioni del passato, resta il fatto che la storia militare, in quanto di carattere tecnico, si presta solo in parte a tale riunione e a tale coordinamento, e soprattutto, esige un criterio di valutazione che non può essere identico a quello tipico dello storico generale. Per quest’ultimo, Napoleone è Napoleone e il significato della sua opera politica, comunque si voglia giudicarla, risiede in una serie di fattori e di categorie sui quali lo storico ha sufficiente familiarità e padronanza da poter formulare delle conclusioni motivate; ma per lo storico militare, Napoleone è un condottiero che ha avuto una certa idea dell’arte (o della scienza?) militare, che l’ha tradotta in pratica in una certa maniera, e che su quel terreno deve esser valutato ed, eventualmente, giudicato. Insomma un militare, come un economista, si giudica in base ai risultati e non alla teoria: poco importa come fosse il politico Napoleone, quel che si vuol sapere è se Napoleone sapesse come si organizza e si conduce un esercito, come si vincono le battaglie e come si sconfigge il nemico. Tutto il resto è letteratura.

Orbene, nel caso di Napoleone è necessario distinguere il tattico dallo stratega. Come tattico è quasi impossibile negare o mettere in dubbio la sua eccellenza. Il suo colpo d’occhio era formidabile; in pochi istanti riusciva a scorgere il punto debole del nemico, dopo di che possedeva una straordinaria rapidità nel concepire e nell’attuare le manovre opportune per colpire esattamente in quel punto e al momento opportuno, facendo marciare i suoi esercito a tappe forzate, anche nella stagione invernale e anche sui terreni più difficili, dove nessuno se lo sarebbe aspettato. In altre parole, sapeva attuare magnificamente la massima di Clausewitz per cui l’arte della guerra consiste nel realizzare e poi sfruttare una netta superiorità in un dato luogo, correndo il rischio calcolato di sguarnire parzialmente gli altri settori del teatro d’operazioni. In altre parole, se si fronteggiano, poniamo, due armate avversarie di 100.000 uomini ciascuna, per una serie di ragioni legate ai tempi di marcia, alla coordinazione fra i reparti e alla natura del terreno, ben difficilmente tutte le unità giungeranno a fronteggiarsi con forze esattamente pari in ogni tratto dello scacchiere; quasi certamente accadrà che una parte degli eserciti resterà defilata, sulle ali o nelle retrovie, anche in vista di possibili contrattacchi da effettuare qualora il fronte venga spezzato. A quel punto, la superiorità di un comandante si attua nel saper concentrare il massimo delle forze nel settore ove intende realizzare lo sfondamento, cioè nel settore che ha individuato come il più debole e il meno guarnito del nemico. Napoleone era un genio di questo tipo, perché possedeva sia l’intuito per capire dove concentrare le forze e sferrare l’attacco, sia il sangue freddo per rischiare di essere attaccato là dove il suo schieramento era, necessariamente, più debole. Ma era anche un genio strategico?

Potremmo definire la strategia come l’arte (o la scienza) di sfruttare al massimo il successo, non solo a livello locale, ma nell’insieme della campagna di guerra, portando il nemico alla sconfitta totale e obbligandolo a chiedere la resa. Vi sono parecchi indizi che depongono contro una risposta affermativa nel caso di Napoleone. La campagna d’Egitto e la campagna di Russia non sono incidenti di percorso: sono l’illustrazione dei limiti strategici di quel condottiero, il quale sapeva vincere le battaglie (rispettivamente, le Piramidi e Borodino), ma non le campagne; che non riusciva a fiaccare l’avversario in maniera decisiva, e questo perché non valutava con il necessario realismo il rapporto tra le forze (e il tempo) a sua disposizione, e gli obiettivi da raggiungere. Sia nel caso dell’Egitto e della Siria, sia nel caso della Russia, tali obiettivi erano pericolosamente vaghi e quasi indefiniti: nel primo caso, interrompere le comunicazioni fra l’Inghilterra e l’India è un concetto talmente generico da somigliare a una petizione di principio, che però non trova riscontro nelle possibilità effettive che Napoleone aveva, nel 1798-99. Anche se avesse conquistato tutto il Medio Oriente, non avrebbe poi avuto alcuna possibilità di arrivare in India, stante il dominio britannico dei mari, specie dopo la battaglia navale di Abukir; pertanto, tutta la campagna napoleonica assume una sfumatura vagamente surreale, qualcosa di simile a un’avventura romantica, o donchisciottesca, più che una operazione di guerra con degli scopi chiaramente definiti. La stessa cosa si può dire per la campagna di Russia del 1812: anche in quel caso egli non tenne nel debito conto né il fattore spazio, il fattore tempo (l’inverno russo), esponendo la sua armata a un disastro che sarebbe stato evitabile, qualora gli obiettivi fossero stati più chiari e più realistici (cfr. i nostri precedenti lavori: A Tarutino e a Maloyaroslavez tramonta la stella di Napoleone in Russia, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 27/10/2008 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 28/11/17; e Perché Napoleone intraprese la campagna d’Egitto?, rispettivamente il 09/06/2014 e il 29/11/17). In altre parole, Napoleone riportò le sue vittorie contro dei nemici dal potenziale bellico limitato, su teatri di guerra circoscritti: così sconfisse più volte gli austriaci, i prussiani e i russi (questi ultimi fuori dal loro territorio). Gli altri nemici, piemontesi, spagnoli, per non parlare dei mamelucchi, erano di per sé assai modesti, mentre lui disponeva di uno strumento bellico formidabile, creato dai capi rivoluzionari francesi fra il 1792 e il ’95. Già in Spagna si vide la sua incapacità di concludere una campagna in cui le linee di comunicazione erano molto estese e il nemico rifiutava di lasciarsi attrarre in uno scontro campale, logorando le sue forze con una instancabile guerriglia. Non solo: egli sottovalutò questo insuccesso e si impegnò in una campagna estremamente difficile, come quella contro la Russia, senza aver risolto la partita sullo scacchiere iberico, commettendo il gravissimo errore di impegnarsi in una guerra su due fronti (come più tardi farà Hitler, nel 1941); il che, sommato alla perdita totale della libertà di movimento sui mari, con la battaglia di Trafalgar, faceva già pendere pericolosamente la bilancia a suo sfavore. E anche in questa incapacità di comprendere l’importanza di una guerra peninsulare, come quella di Spagna (nel 1814, gli anglo-spagnoli passeranno i Pirenei e invaderanno la Francia anche dal sud, mentre gli austro-russo-prussiani caleranno da nord-est), e soprattutto l’importanza del fattore navale nell’esito finale di un conflitto, depone in senso negativo rispetto alla domanda che ci eravamo fatta. Quando Napoleone dovette confrontarsi con avversari dalle ampie risorse di uomini e mezzi, ad esempio nella campagna di Russia, e tentare di batterli su un teatro di guerra molto vasto, addirittura potenzialmente sconfinato, i limiti della sua strategia apparvero in maniera impietosa. Egli puntava a sconfiggere il nemico in una battaglia campale, non rendendosi conto che lo spazio e il tempo giocavano contro di lui e che l’obiettivo del nemico consisteva appunto nell’attirarlo il più possibile all’interno, allungando a dismisura le sue vie di comunicazione ed esponendosi ad attacchi sui fianchi, mentre la tattica della "terra bruciata" rendeva difficile o impossibile approvvigionare l’esercito. Di fatto, la vittoria di Borodino, il 7 settembre 1812, fu molto simile a una sconfitta, perché, pur essendosi risolta in un successo tattico, equivale a un grave insuccesso strategico: le perdite erano state altissime (35.000 uomini fra morti, feriti e dispersi); i russi si ritiravano ordinatamente e con il morale ancora alto; la conquista di Mosca si rivelava inutile e lo zar non intendeva chiedere la pace. Napoleone si trovò come un pugile che crede di aver vinto l’incontro perché ha mandato al tappeto l’avversario, peraltro con fatica; e non capisce che quell’avversario è pronto a rialzarsi e, alla lunga, dispone di molte più energie per vincere.

A ciò si aggiungano precisi errori di strategia nel corso della campagna di Russia, e, in particolare il fatale indugio a Mosca, fra il 15 settembre, giorno dell’ingresso delle sue truppe, e l’alba del 19 ottobre, quando esse ne uscirono per iniziare la disastrosa ritirata che si sarebbe risolta nella distruzione della Grande Armata. È stato osservato che se l’incendio appiccato dai russi il 16 settembre avesse raggiunto lo scopo, cioè avesse distrutto l’intera città, rendendola inabitabile, probabilmente Napoleone avrebbe compreso per tempo che restare in quel luogo era inutile e forse avrebbe iniziato la ritirata in tempio utile per evitare il sopraggiungere dell’inverno e la disfatta completa del suo esercito. Invece, il fatto che solo una parte della città andò distrutta e che i francesi poterono restarvi alloggiati per oltre un mese, contribuì a cullare Napoleone nell’illusione che Alessandro, alla fine, avrebbe chiesto la pace; cosa che l’abbandono della città da parte degli abitanti avrebbe già dovuto fargli capire essere molto improbabile. A questo punto ci piace riportare ciò che ha scritto in proposito uno dei massimi storici militari contemporanei, David. G. Chandler, nel suo classico studio Le campagne di Napoleone (titolo originale: The Campaigns of Napoleon, London, Weidenfeld and Nicolson, 1966; edizione italiana a cura di M. Pagliano e L. Bellavita, Milano, Rizzoli, 1968, pp. 979-980):

Alcune circostanze avrebbero dovuto far intendere a Napoleone il pericolo e la precarietà della sua posizione, Non era ancora trascorsa una settimana da quando si era sistemato al Cremlino, quando arrivò la notizia che il 24 settembre forze di cavalleria russa e cosacca avevano tagliato la strada principale verso ovest nei pressi di Možajsk. Adesso Napoleone cominciava a diventare sempre più ansioso per lo sviluppo degli avvenimenti nel lontano cuore del suo impero, poiché "Parigi e la Francia erano l’oggetto di tutti i suoi pensieri e venivano costantemente inviati messaggi che recavano decreti firmati da Mosca" (Caulaincourt). Egli si preoccupò quindi notevolmente quando seppe che la via verso la salvezza era stata interrotta. Fece uscire immediatamente un contingente di cacciatori e di dragoni della Guardia per respingere i russi. Ma notizie peggiori dovevano ancora pervenire; non solo questi cavalieri scelti non riuscirono a compiere la missione, ma furono tutti catturati dai russi in una imboscata tesa molto astutamente. Queste notizie crearono uno stato d’animo mai provato prima negli uomini dislocati nel settore di Mosca; il loro effetto sul m orale fu assolutamente sproporzionato alla loro effettiva importanza militare. Un altro reparto al comando del generale St. Sulpice riaprì subito la via di comunicazione, ma il ricordo de primo insuccesso e il conseguente disastro della cavalleria della Guardia rimase negli animi degli ufficiali e degli uomini e aumentò in loro la sensazione di un pericoloso isolamento lontano da casa; persino l’imperatore, con la testa fra le nuvole, non poteva ignorare né gli incidenti né le oro conseguenze decisamente spiacevoli. Il 3 ottobre venne finalmente ordinato alle truppe nei pressi di Mosca di concentrarsi in vista di un possibile trasferimento, ma dovevamo ancora passare 16 giorno perché questa decisione, tanto ritardata, fosse messa in atto, dopo il fallimento dei negoziati. Un’altra ragione per cui Napoleone indugiò tanto a lungo a Mosca fu determinata dalle difficoltà da lui incontrate nell’escogitare il miglior piano d’azione. Non aveva mai pensato alla necessità di spostamenti al di là di Mosca, convinto come era che lo zar avrebbe ammesso la sconfitta prima ancora che i francesi fossero giunti in vista delle cupole dorate del Cremlino. Tuttavia, in seguito al rifiuto dello zar di accettare qualunque offerta e di fronte alla situazione delle forze francesi che diveniva sempre più precaria, strategicamente e logisticamente, era giunto il momento di prendere in serio esame la futura strategia.

In altre parole, quando invase la Russia Napoleone non aveva un piano strategico. Credeva che bastasse sconfiggere il nemico in battaglia; non aveva imparato nulla né dalla campagna d’Egitto, né dalla Spagna. Le guerre si vincono quando il nemico è distrutto, non quando viene solo respinto. A Borodino, Kutuzov era stato respinto, ma non distrutto. E adesso Napoleone non sapeva che fare…

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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