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30 Aprile 2018Qual è la parte più misera che un uomo può trovarsi a recitare sulla scena dell’esistenza, in quanto essere umano, allorché, per così dire, vengono distribuite le parti nella grande recita universale, e a ciascuno ne tocca una? Secondo Pirandello, seguito (e preceduto) da molti altri, noi siamo gli attori inconsapevoli di una tragicommedia pazza e crudele, organizzata, forse, da un burattinaio folle, nella quale siamo costretti a recitare al buio, senza neppure renderci conto di che cosa si tratti realmente. La nostra opinione è diametralmente opposta alla sua: non c’è nessun burattinaio, ma solo un Padre amorevole, che fa di tutto per chiamarci a sé; e la nostra esistenza è tutt’altro che una recita, non è né comica, né tragica, ma semplicemente seria, bella e degna di essere vissuta; noi facciamo tutto da soli, se ci perdiamo o se giungiamo alla meta, ciò dipende da una nostra libera scelta. Il fatto, invero, che moltissime persone, come abbiamo più volte sostenuto, restino del tutto inconsapevoli, per anni e forse sino al termine dei loro giorni, della serietà e soprattutto del significato della vita, non smentisce questa affermazione, perché la consapevolezza è frutto del risveglio interiore, e il risveglio interiore non avviene per caso (come pensava Pirandello), ma come risultato di un percorso fatto di tenacia, coraggio, umiltà e fede in Dio. Di conseguenza, risvegliarsi e vivere in maniera desta, o restare nel sonno e vivere da dormienti, è frutto di una nostra scelta: se scegliere è decidere l’essenziale; e non, necessariamente, comprendere sino in fondo tutti i risvolti e i corollari della decisione presa. Noi possiamo scegliere se destarci o rimanere addormentati: chi sceglie la seconda opzione, ha compiuto anch’egli una scelta, e sia pure una scelta negativa: la scelta di non scegliere nulla, se non continuare i suoi beati sogni. Chi ha scelto di destarsi ha intuito l’essenziale, cioè il vero significato dell’esistenza: tutto il resto è secondario e in parte lo capirà procedendo nella sua strada, in parte dovrà accettarlo per fede, come appartenente al disegno benevolo e armonioso cui ogni cosa concorre, anche se le menti umane non possono certo arrivare a comprenderlo interamente — o, almeno, non in questa vita.
D’altra parte, destarsi è un atto della volontà, ma deve essere illuminato dall’alto: l’uomo non può destarsi da solo: se lo potesse, sarebbe un dio egli stesso. Il sonno in cui trascina la sua esistenza è, teologicamente parlando, il risultato di un evento ben preciso: il Peccato originale. È un sonno misto a false immagini di bene, dunque una mescolanza d’ignoranza e di concupiscenza: le due cose vanno sempre insieme, l’ignoranza porta con sé la concupiscenza, che consiste nel desiderare le cose sbagliate, oppure anche le cose buone, ma in maniera sbagliata; e la concupiscenza è frutto dell’ignoranza; sono come due sorelle siamesi. Solo quando si è risvegliato, l’uomo è capace di riconoscere le cose buone e di distinguerle da quelle che buone non solo; inoltre, siccome l’appetito vien mangiando, mano a mano che l’anima si abitua alle cose buone, ne desidera sempre di migliori, finché arriva il momento in cui non sopporta più neanche la vista di quelle cose che, un tempo — il tempo dell’ignoranza — poneva in cima ai propri desideri. In un certo senso, all’anima risvegliata accade la stessa cosa che si verifica per il buongustaio: imparare ad apprezzare i buoni piatti e a disdegnare quelli mal cucinati diventa un’abitudine, un atteggiamento sempre più esigente, un vero e proprio stile di vita. E come colui il quale, una volta che ha imparato ad apprezzare i meriti della buona cucina, non si adatterebbe mai più a mangiare le schifezze di McDonald’s, allo stesso modo l’anima risvegliata, una volta che abbia incominciato a gustare il sapore delle cose buone, delle cose che le fanno del bene, la innalzano, la purificano e le permettono di scorgere porzioni sempre più ampie di assoluto, ben difficilmente potrà adattarsi a ritornare alle precedenti abitudini, ad accontentarsi di cose scadenti. La legge del progresso spirituale vuole che non si torni mai indietro: le cadute sono sempre possibili, ma, di norma, temporanee e accidentali. A chi ha respirato il profumo del giardino in primavera, non verrà mai la nostalgia del tanfo di chiuso che ristagna nei sotterranei: è logico ed è giusto che sia così.
Scriveva il romanziere e saggista Kazimierz Brandys (Lodz, 27 ottobre 1916-Parigi, 11 marzo 2000) in un suo racconto (da La difesa della "Grenada"; titolo originale: Obrona "Grenady"; traduzione dal polacco di Franca Wars, Milano, Mondadori, 1961, pp. 29-30):
Furono distribuite le parti, cominciarono giorni di dure esperienze. Il 1950. Per molto tempo ancora torneremo a quegli anni. Non è stato pronunciato su di essi un giudizio definitivo e chissà che non appartengano a un periodo che sempre susciterà polemiche. È un periodo di scontro tra forze agli antipodi, di pressioni da più parti. In quei momenti il bene e il male insidiano l’uomo nei suoi lati da poco vulnerabili. Finora nessuno lo aveva colpito su questi lati, egli deve quindi cambiare il suo sistema di difesa. Gli dicono: il tuo vecchio equipaggiamento oggi non è utilizzabile, la tua morale è un prodotto di classe. Ti giudica la storia, da lei non ti salvi. "Se mi giudica la storia", pensa allora l’uomo, "se il mio cuore è solo un frutto dell’albero della mia classe, se le mie azioni valgono solo per la durata del tempo che le approva, cosa mi resta allora? La coscienza? A che mi serve la coscienza se in ogni caso dovranno giudicarmi gli altri? Mi restano l’olfatto e l’udito."
Parole come queste sono un grido d’allarme; un gran pericolo viene da simili parole,. Questa parte, la più misera che l’uomo possa recitare, un mimo in un episodio muto, deve essere cancellata dalla nostra vita. Nel costruire la realtà lasciavamo spuntare le utopie. Una delle più folli cercava di buttare a mare il concetto di buona volontà, giudicando l’attività umana esclusivamente alla luce dei suoi risultati esteriori: "La tua azione è nociva, dunque volevi nuocere". Di questo l’uomo ha paura, di fronte a questo egli capitola; vi intuisce un abuso contro la natura umana un’invasione nel territorio della sua condizione di uomo. Esiste nella natura dell’uomo un confine inferiore sotto al quale non si deve scendere. Non bisogna sottoporre l’uomo a ogni sorta di prove. Ci sono delle sofferenze che lo spezzano, c’è un grado di paura che lo raggela. Questa capitolazione dell’uomo può essere oggetto di una descrizione ma non di un giudizio. Se non ha resistito a una grande sofferenza, vuol dire che non ha resistito a una grande sofferenza, e non una parola di più. Una cosa è sicura: l’uomo ridotto all’olfatto e all’udito diventa più stupido di una gallina; traccia da solo attorno a sé un cerchio sempre più stretto e ha paura di oltrepassarlo. Se vogliamo sviluppare la rivoluzione liberiamo la gente dai cerchi magici tracciati con il gesso degli utopisti.
Qui lo scrittore polacco, astraendo dalle circostanze particolari in cui fu composto questo brano di prosa — il 1950, l’utopia del "mondo nuovo" comunista, il fervore e le speranze di rinascita di un popolo che aveva duramente sofferto per conservare la propria identità e la propria anima in mezzo agli sconvolgimenti del "secolo breve — pone alcune questioni di portata universale, una delle quali suona così: è vero che non bisogna sottoporre l’uomo a ogni sorta di prove, perché ci sono delle sofferenze che spezzano, c’è un grado di paura che lo raggela? E un’altra, così: è vero che esiste nella natura dell’uomo un confine inferiore sotto al quale non si deve scendere? Ed è vero, infine, che si può o si deve giudicando l’attività umana esclusivamente alla luce dei suoi risultati esteriori, e che la buona volontà, le rette intenzioni non contano nulla? Rispondiamo alla prima: no, non ci sono sofferenze che possano spezzare l’uomo, se questi è moralmente e spiritualmente integro. Ci sono sofferenze che possono spezzare il suo corpo; forse anche la sua volontà: mai la sua anima, la sola cosa che conta. Chi conserva la propria anima, anche in mezzo alla sofferenza, è salvo; perché l’anima non appartiene al mondo, appartiene all’eterno, mentre tutto ciò che appartiene al mondo è destinato a perire, prima o dopo. Alla seconda: sì: esiste nella natura umana un confine al di sotto del quale non si deve scendere; pure, accade sovente che quel confine venga superato; non solo: accade che delle persone scendano al di sotto di esso, convinte, da se stesse o da altri, che il loro sia un salire, un innalzarsi al di sopra della propria natura. È il capolavoro del diavolo: ma è un capolavoro assai più frequente di quanto non s’immagini. E alla terza: no: non si può, né si deve giudicare l’attività umana solo in base ai risultati, perché l’intenzione è la cosa principale. Da ciò, tuttavia, non scaturisce la conclusione opposta, ossia che il risultato non conta nulla, mentre l’intenzione è tutto. In altre parole: non è vero che se faccio del male, invece che del bene, la cosa non ha alcuna importanza, purché la mia intenzione fosse buona; ma non è vero nemmeno che io meriti senz’altro di andare all’inferno, nonostante la rettitudine delle mie intenzioni, se alla fine il mio agire ha provocato degli effetti negativi. Non si deve ignorare l’importanza della retta intenzione, ma neppure sottovalutare la gravità degli errori. Questi ultimi, infatti, sono di due tipi: maligni e benigni. Sono errori benigni quelli nei quali si sbaglia, ma per una incongruenza tra mezzi e fini; sono maligni quelli nei quali l’intenzione non è buona, per cui, indipendentemente dai mezzi adoperati, il risultato finale non potrà che essere cattivo. A una volontà maligna corrispondono sempre risultati dannosi, per sé o per gli altri; ad una volontà benevola, possono corrispondere effetti negativi, ma solo se intervengono circostanze particolarmente sfortunate oppure se è stato commesso qualche errore di adeguamento dei mezzi ai fini.
Ma tutte queste domande, poste da Kazimierz Brandys, riconducono a una sola domanda di fondo: il solo giudice dell’uomo è la storia? Perché, se a poter giudicare l’uomo è solo la storia, ne consegue che il giudizio non dipende dalla bontà dell’intenzione, e nemmeno, necessariamente, dalla concordanza tra i mezzi e i fini, ma solo e unicamente dalla sintonia, o dalla distonia, con la morale vigente in quel luogo e in quel momento. E allora, come osserva lo scrittore polacco, i nostri giudici saranno sempre gli altri, non la nostra coscienza, che è solamente un prodotto storico anch’essa; mentre a noi, in quanto singoli individui, non restano altro che i sensi, l’olfatto, l’udito. Ma se l’uomo si ridice al suo olfatto e al suo udito, diventa più stupido di una gallina: traccia da solo attorno a sé un cerchio sempre più stretto e ha paura di oltrepassarlo. Ebbene: pare che proprio questa sia la manovra n atto ai danni dell’uomo, da parte di quei poteri che sono in grado di condizionare i suoi pensieri e i suoi sentimenti, di creare intorno a lui il cerchio magico che non deve essere oltrepassato, ampio quanto un cerchio di gesso tracciato in terra attorno a lui. Quali poteri? Tutti quelli che concorrono a formare il suo orizzonte intellettuale, spirituale, morale, in assenza di una presa di coscienza autonoma da parte sua, cioè mentre egli si trova ridotto allo stato di "gallina", le cui funzioni si riducono all’olfatto, all’udito e agli altri sensi fisici. Parliamo dell’informazione, della scuola, dell’università, ma anche della chiesa e perfino della famiglia; parliamo anche della televisione, del telefonino, del computer, dei giochi elettronici, mediante i quali l’uomo viene addestrato, fin da quando è un bambino di pochi anni, a istupidirsi e a scendere al livello di una gallina. Esiste una strategia mondiale per condurre ogni singolo uomo al livello di un gallinaceo, per abbrutirlo, per mortificare la sua intelligenza, per intorpidire la sua sensibilità, per paralizzare il suo volere; e tutto questo viene ottenuto a forza di carezze, di blandizie, di lusinghe e di voluttà d’ogni genere: perché il mezzo più sicuro per indurre l’essere umano a degradarsi e a disonorarsi è vecchio quanto il modo, e consiste nel sollecitare le sue passioni disordinate e poi nel dichiarare che non esistono più il bene e il male, ma solo ciò che è utile e ciò che non lo è, e che lui ha il diritto di essere finalmente se stesso, di rifiutare proibizioni e tabù, di assaporare la dolcezza di ogni sorta di esperienza, di piacere, di godimento, tutte cose che la società repressiva gli ha finora negato per poterlo tenere sottomesso. E non vede, la povera gallina umana, che gli sta accadendo esattamente il contrario: che a tenerlo sottomesso non è la società repressiva, ma la società permissiva; e che ciò accade per un disegno ben preciso, del quale egli è lo zimbello, la vittima e anche, al tempo stesso, il volonteroso collaboratore. Ma come può esistere, mio Dio — domanderà la nostra gallina spaventata, nel cui sguardo traluce, per un attimo, un bagliore umano – una congiura talmente vasta, talmente mostruosa, talmente diabolica? Da parte di chi, e perché? Chi mai dovrebbe darsi tanto disturbo per far sì che tutto, letteralmente, proceda in tale perversa direzione? Leggendo la Bibbia, apprendiamo che l’uomo, sin dall’indomani della sua creazione, ha un terribile nemico, fermamente intenzionato a provocare sua rovina; un nemico che, sin dal principio, è riuscito a separarlo da Dio, anche se in maniera non definitiva. Gli resta, perciò, da completare il lavoro: da rendere quella separazione irreparabile. Sono migliaia d’anni che ci prova, in tutti i modi. Incominciava quasi a scoraggiarsi, quando gli si è aperta, insperatamente, una breccia: superbia e orgoglio, che già furono la rovina di Adamo ed Eva, hanno creato la civiltà moderna; e ora si sono insinuate nel cuore stesso della Chiesa di Cristo. Quale magnifica occasione, per lui, di trionfare!…
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