Ciò che amplia e restringe l’orizzonte esistenziale
29 Aprile 2018
La parte più misera che l’uomo può recitare
30 Aprile 2018
Ciò che amplia e restringe l’orizzonte esistenziale
29 Aprile 2018
La parte più misera che l’uomo può recitare
30 Aprile 2018
Mostra tutto

In fondo, è facile riconoscerli

Ci siamo sentiti dire e ripetere talmente spesso che la civiltà moderna è complessa, che la società moderna è complessa, che l’uomo moderno è complesso, che la cultura moderna è complessa, che le domande che contano sono complesse, che abbiamo finito per restare incantati dal suono di queste parole, ci siamo lasciati letteralmente ipnotizzare e abbiamo perso di vista il fatto che la verità, in se stessa, non è mai qualcosa di complesso, ma di semplice. Appare complessa quando si è confusi; quando lo sguardo non è limpido; quando si sopravvalutano i dettagli, le cose secondarie; quando si cerca, magari inconsciamente, l’alibi della complessità per giustificare la propria debolezza e la propria irresolutezza; quando ci si vuol nascondere dietro di essa, consolandosi all’idea — magra consolazione — che se tutti si nascondo ugualmente, allora la cosa è meno disonorevole, non è più una insufficienza personale, ma è il mondo, il destino, e noi non possiamo farci nulla, non è colpa nostra.

Eppure, se si riflette bene, se si osservano in maniera spassionata tutti questi meccanismi, si finisce per notare una cosa: che qualcuno ci guadagna. Non è normale vivere nell’idea che la realtà è talmente complessa, che noi non riusciremo mai a venirne a capo; al contrario, in tutte le civiltà umane, dalle più semplici alle più complesse — tutte, fino alle soglie della civiltà moderna — gli uomini hanno sempre fermamente creduto che la verità è accessibile; che la vita è sufficientemente chiara per indicare la strada a chi sia animato da buona volontà; che la legge naturale ci indica ciò che è buono e ciò che non lo è, anche se poi è necessario un aiuto speciale, che viene dall’alto, per riuscire a fare il bene e ad evitare il male. In tutte le civiltà umane, fino alla civiltà cristiana sorta alla fine dell’antichità e affermatasi nei secoli del Medioevo, anzi, specialmente in questa, gli uomini hanno avuto una brillante stella polare: hanno sempre visto e saputo quale sia la direzione da prendere per vivere una vita degna, per fare in modo da presentarsi senza rimorsi davanti al Creatore; per non smarrirsi nella selva delle cose accidentali, ma per riconoscere e perseguire con chiarezza ciò che è essenziale. E questa convinzione ha sempre accomunato sia i sapienti, che gli ignoranti; sia i dotti, che gli analfabeti; sia gli intelligenti, che i semplici; sia gli adulti, che i bambini. A livelli diversi, ma tanto gli uni che gli altri si sono sempre sentiti solidali nell’appartenenza a un universo dotato di senso, a un mondo di cose che rivestono un significato, alcune buono, altre cattivo, e nel quale gli esseri umani possono e devono imparare a orientarsi con una sicurezza tale da poter scansare il male e i pericoli, sia fisici che morali, e da indirizzarsi verso i beni, specialmente verso il bene dell’anima, che illumina, santifica e abbellisce la condizione umana, innalzandola al di sopra dei suoi limiti fisici, delle sue miserie, delle sofferenze che le sono connaturate e che non vi è modo di evitare, ma che si possono trasformare in occasioni di crescita, di maturazione, di perfezionamento spirituale. E se gli uomini hanno sempre avuto la nozione del bene, del vero, e della loro realizzabilità, sia pure con i limiti e i difetti che sono propri di ciò che è umano, questo significa che tale nozione appartiene alla stessa natura umana: non può essere un prodotto storico, perché, in tal caso, la si troverebbe in alcune civiltà, e in altre no. Ora, però, nella civiltà moderna, e in essa soltanto, questo quadro di riferimento è andato in crisi; la tavola delle certezze si è incrinata; e, nel gran mare del dubbio, dell’insicurezza e dell’angoscia in cui gli uomini sono sprofondati, si è diffusa enormemente la nozione opposta: ossia che il reale è talmente complesso, e l’uomo stesso talmente complesso, che non esiste una spiegazione ragionevole e accessibile del fenomeno "vita", non ci sono risposte qualificate e definitive, tutto è aleatorio e provvisorio, tutto è incerto e fluttuante, perfino la propria identità è continuamente mutevole, e non resta altro da fare che lasciarsi portare dalla corrente e fare buon viso a cattivo gioco: cioè rassegnarsi alla perdita del dominio su se stessi. L’uomo moderno, il quale, nei momenti di esaltazione, si sente il padrone e il signore del mondo, per statuto culturale si inibisce di aspirare alla verità e si adatta a un’esistenza nella quale non vi è posto per la verità e per le relative certezze, ma dove solamente il dubbio sistematico e radicale – che è altro cosa dalla scepsi, l’esame critico e ragionato del valore della conoscenza — gode del diritto di cittadinanza.

Tutto questo suggerisce il ragionevole dubbio che questo stato di cose torni utile a qualcuno e, perciò, venga artificialmente alimentato. Non è possibile che si tratti di una tendenza naturale, perché la tendenza naturale dell’uomo è quella verso la sicurezza, verso la chiarezza, verso la linearità, non verso la confusione, il disorientamento e la complessità insolubile. Qualcuno gode di questo smarrimento, qualcuno alimenta questo senso di impotenza, di provvisorietà, di paralisi, questo patologico compiacersi della propria ininfluenza di fronte al reale. Per quanto piccolo, l’uomo è qualcosa: non è assolutamente normale che egli si senta un nulla, o che, pur dicendo di sentirsi potente e intelligente, di fatto si inibisca anche la cosa più semplice e necessaria: riconoscere che la propria esistenza, e il mondo in cui si svolge, sono entrambi dotati di senso e che questo senso è alla portata delle capacità umane. Se la cultura moderna batte e ribatte sull’angoscia, sull’impotenza, sulla nozione di una complessità che per l’uomo di traduce in una sciarada inestricabile, in un labirinto nel quale fatalmente si perde, ciò è dovuto in parte al conformismo intellettuale, per cui la maggioranza dice e ripete le cose che ha sentito dire dagli altri, e in parte al fatto che esiste un potere – un potere finanziario globale — che ha interesse a far sì che si diffonda e che regni ovunque la cultura della complessità, intesa come smarrimento dell’uomo di fronte al significato delle cose e come ripiegamento sull’intelligenza puramente tecnica e strumentale, in modo che l’uomo si limiti a esercitare le sue facoltà razionali sempre e solo sul come ma non sul cosa e soprattutto non sul perché. Prendiamo la psico-analisi, tanto per fare un esempio. È una tipica costruzione intellettuale che alimenta il senso di dubbio cronico, d’impotenza e di smarrimento dell’uomo di fronte a se stesso e al mondo circostante. La dimensione del sub-conscio, così come è stata descritta, o meglio ipotizzata, da Freud e dai suoi seguaci, pare fatta apposta per confermare i dubbi tormentosi che egli nutre intorno a se stesso, la sua perdita di un baricentro interiore e anche la sfiducia di poter padroneggiare le proprie tendenze e i propri impulsi (quel doppio uomo che è in me, diceva, lamentosamente e vittimisticamente, il buon messer Francesco Petrarca, proprio all’alba della modernità, ohimè, lasso!). Quasi tutta la letteratura e l’arte moderna, per non parlare del cinema, la musa moderna per antonomasia, vanno nella stessa direzione: Joyce, Kafka, Musil, Proust, Svevo, Pirandello, Mann, Woolf, Montale, Gadda, Pavese, Sartre, Camus, Osborne, Beckett, Hemingway, Tennesse Williams, e l’elenco potrebbe continuare per pagine e pagine. Il loro denominatore comune è l’idea, ora più esplicita, ora sottintesa, che la realtà è talmente complessa, che l’uomo deve rassegnarsi a vivere in uno stato di totale e necessaria provvisorietà, nudo, insicuro, spaventato, solo, a tu per tu coi suoi fantasmi, che niente e nessuno potrà mai esorcizzare del tutto — se non, forse, al prezzo d’infliggergli una repressione foriera di ulteriori e più gravi nevrosi, di scompensi ancor più destabilizzanti.

Tuttavia, noi abbiamo detto una cosa più precisa, e assai più grave: abbiamo detto che qualcuno ci guadagna. Che cosa significa: che intendiamo accusare tutti quegli scrittori, quei registi, quei pensatori, quei poeti, di essere sul libro paga dalla élite finanziaria mondiale, intenta a ridurre l’uomo moderno a un docile strumento nelle sue mani, da manipolare a piacere, sino a trasformarlo in uno docile schiavo, di null’altro desideroso che compiacere gli stessi meccanismi che lo portano sempre più in basso sulla via dell’auto-annientamento e dell’auto-colpevolizzazione? No di certo; anche se, ai livelli più bassi del mondo culturale, senza dubbio vi sono anche siffatti personaggi: vale a dire avidi mercenari, prezzolati per spargere a piene mani, ed imporre come il solo vangelo riconosciuto, la cultura del nichilismo, del relativismo e dello scetticismo radicale, con tanto di denigrazione e delegittimazione sistematica per quanti non sono disposti ad inchinarsi e umiliarsi davanti ad essa. A tale infima categoria appartengono molti giornalisti, molti scrittori o artistoidi di seconda scelta, molti pseudo filosofi dalle vaste ambizioni, e soprattutto i proprietari delle case editrici e dei giornali, disposti a pubblicare qualsiasi cosa prometta di poter essere venduta bene e realizzare, così, dei congrui profitti. Ai livelli superiori troviamo delle intelligenze non disprezzabili, ma talmente sprofondate nella palude dell’ego che, pur di compiacer se stesse, farebbero qualsiasi cosa: in loro manca l’essenziale, la passione per la verità: ed è questa mancanza di serietà morale che le trasforma da anime fiacche e voluttuose, in qualcosa di assai peggiore, veri e propri cattivi maestri, capaci di trascinare le masse dietro a sé. Pensiamo al ruolo svolto da intellettuali come Sartre: si può dire, senza esagerare, che hanno rovinato almeno una generazione di giovani: se "rovinare" qualcuno significa trasmettergli un’idea falsa e morbosa della vita, e dall’alto (o dal basso) di una esistenza parassitaria, pontificare su tutti e instillare il rancore sociale nei confronti della famiglia, dei genitori, di quelli che, lavorando, producono qualcosa e contribuiscono al bene comune.

Ed ecco individuato un criterio semplice e pressoché infallibile per riconoscere e distinguere i buoni maestri da quelli cattivi, per capire se si è di fronte a un intellettuale serio e profondo oppure no, se ci si trova in presenza di un libro, di un film, di un’opera che meritano la nostra attenzione, ed, eventualmente, la nostra ammirazione, o no. Il criterio è questo: sono buoni maestri quelli che, pur non nascondendo le aporie della vita e le difficoltà o le sofferenza di cui essa è irta, nondimeno la fanno amare, perché trasmettono un sentimento di benevolenza, di stupore, di gratitudine verso di essa; e sono buone le opere che vanno in tale direzione, che producono in noi l’effetto di farci respirare più a fondo, di farci capire di più, ma, nello stesso tempo, di rasserenarci, di incoraggiarci, di spronarci a vincere gli ostacoli e ad andare avanti, non per realizzare il nostro piccolo io, sempre bramoso di riconoscimenti e gratificazioni, ma il nostro io superiore, la nostra parte più nobile e più vera: quella che ha fame e sete di verità, di giustizia, di bontà e di bellezza, e che non sa che farsene di discorsi sterili, inconcludenti, tortuosi, il cui unico risultato è paralizzare la volontà e deprimere il nostro tono votale, farci disamorare di noi stessi e delle cose. Sono cattivi maestri quelli che sanno solo seminare dubbi maligni, che sanno solo rimestare tra le ceneri del fuoco spento, che sanno solo alimentare tristezza, confusione, smarrimento, angoscia, disperazione, rabbia, frustrazione, amarezza, senza mai indicare la strada per uscire da un simile inferno, senza mai mostrare un solo raggio di luce in mezzo a delle tenebre così opprimenti. E sono malvagie le loro opere, le quali frutteranno, forse, dei grossi profitti a costoro, ma saranno profitti mal guadagnati. Un esempio per tutti: il romanziere Alberto Moravia, che ha venduto molte migliaia di libri solamente per spargere una visione della vita volgare, pornografica, sadica, desolata, sterile e malevola. È chiaro, d’altra parte, che questi mediocri personaggi (mediocri intellettualmente, oltre che moralmente) emergono solo perché il potere nichilista ha deciso di servirsi della loro opera per perseguire i suoi scopi, e quindi ne gonfia artificialmente i meriti e ne moltiplica le capacità di risonanza, mentre ignora ed emargina in maniera sistematica altri autori, altri artisti, altri pensatori, i quali hanno il torto di non prestarsi al gioco al massacro della cultura nichilista dominante.

In questi ultimi anni la strategia dei cattivi maestri si è arricchita di una nuova classe d’individui: membri del clero cattolico i quali hanno smarrito la fede ma che, per superbia e per orgoglio, invece di chiedere a Dio la grazia di ritrovarla, con umiltà e con pazienza, si sono messi a capovolgere la dottrina, in modo da abbassare ogni cosa al livello della loro incredulità, compresa la morale. In pratica, hanno dichiarato guerra al concetto di peccato, non perché si pongano l’obiettivo di combatterlo, ma perché si sono posti l’obiettivo di derubricarlo e trasformarlo in qualcosa di lecito, adeguando così la morale cristiana al livello medio della (im)moralità del mondo profano, dove ogni sorta di vizio viene dichiarato legittimo, in quanto espressione di bisogni "naturali" della dimensione umana, che sarebbe folle e crudele negare o pretendere di censurare. Ed è facile vedere come l’umanità moderna avesse disperatamente bisogno di tutt’altro atteggiamento da parte del clero cattolico: il quale, forte di una tradizione quasi due volte millenaria, poteva e doveva fungere da baluardo di tutto ciò che protegge, nobilita e fa amare la vita, mentre così, per la misera ricerca di facili consensi da parte del "mondo", si è trasformato in un ulteriore fattore di sgretolamento morale e disorientamento spirituale, e non solo non avvicina gli uomini a Dio, ma non li aiuta nemmeno a volersi un po’ di bene. Perché l’uomo contemporaneo è un narcisista patologico, ma ciò non significa che si voglia bene: al contrario, il narcisismo è una deviazione che indica, sotto la superficie, un profondo disamore e una profonda disistima di sé. Una sola cosa può aiutare l’uomo moderno a risollevarsi dalla palude ove è sprofondato: tornare a volersi bene, dicendo Abbà, Padre!

Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.