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Maigret, commissario-poeta fra la Senna e i canali

Nel gennaio del 1955 si trovava sull’altra sponda dell’Oceano Atlantico, negli Stati Uniti d’America, precisamente a Shadow Rock Farm, presso Lakeville, nel Connceticut, allorché, preso d’una autentica frenesia, in soli dieci o dodici giorni Georges Simenon buttava giù, sulla carta, uno dei suoi migliori romanzi della serie del commissario Maigret: Maigret et le Corps sans tête (Maigret e il corpo senza testa), che venne pubblicato nello stesso anno, a Parigi, dalle Presses de la Cité, la casa editrice fonata da Sven Nielsen in un anno decisamente buio della storia francese moderna: il 1943, sotto l’occupazione militare tedesca, che, dalla fine dell’anno precedente, si era estesa anche alla Repubblica di Vichy. È curioso pensare che è nato proprio lì, nel cuore della Nuova Inghilterra, a diecimila chilometri dalla sua patria, uno dei più ispirati, dei più "parigini" romanzi dello scrittore che parigino non era, e nemmeno francese, ma belga, e comunque uno dei più "europei" scrittori del Novecento, le cui storie sono semplicemente impensabili al di fuori della cornice europea, meglio se francese, o, al massimo, franco-belga, e meglio ancora se ambientati sulle rive della Senna, o lungo qualcuno dei tanti canali navigabili che intersecano, con la loro fitta rete, tutto quel territorio, solcato su e giù da chiatte e imbarcazioni cariche di legname, di carbone, di mattoni e Dio sa di quante altre mercanzie. Si tratta di un paesaggio particolare, con un campionario umano altrettanto particolare; un paesaggio pressoché inimmaginabile in un Paese, come l’Italia, povero di fiumi navigabili e quasi privo di canali adibiti a vie di comunicazione; un paesaggio di vaste e monotone pianure, di argini fiancheggiati da lunghissime file di pioppi, di vasti cieli per lo più grigi e nuvolosi, di venti che soffiano dal mare lontano e recano l’illusione del salmastro, di stormi di gabbiani che, risalendo i fiumi, si spingono molto addentro rispetto alla riva del mare, e di nuvole di fumo che si levano dalle caldaie delle chiatte a motore: un paesaggio, pertanto, che ha qualcosa di lontano, di esotico, e precisamente di nordico, che fa venire in mente le grandi pianure russe, o, quanto meno, la pianura ungherese, anche se non possiede quella profondità sconfinata, e nemmeno quel respiro epico, ma che è molto più ordinato, più scandito, più preciso e definito dei paesaggi dell’Europa orientale, e fa venire in mente, semmai, le nebbie di Amburgo e le distese di erbe e fiori dei Paesi Bassi.

Simenon, che amava le barche e la navigazione, e che aveva percorso, egli stesso, quel dedalo di fiumi e di canali artificiali in lungo e in largo, avanti e indietro, e conosceva bene com’è la vita a bordo, con lo spazio alquanto limitato ma con la vista libera di scivolare, lungo le sponde, e accarezzare quegli alberi svettanti, di abbracciare tutta l’ampiezza della pianura brumosa, evocando una dimensione quasi illimitata, è stato uno scrittore-poeta, che ha saputo trasfondere le sensazioni impalpabili del navigatore fluviale nelle pagine dei suoi libri e trasformare perfino il commissario Maigret, la sua geniale invenzione letteraria (ma quale invenzione?, insorgerebbe Pirandello; Maigret esisteva già, ed è stato lui ad evocare lo scrittore Simenon, semplicemente per narrare al pubblico dei lettori le sue gesta di eroe dei nostri tempi!) in un commissario-poeta, anche se quasi inconsapevole di esserlo: un poeta che annusa il profumo del mare a centinaia di chilometri da esso, e che si rallegra perché un raggio di sole, in una giornata di primavera, si è fermato nel corridoio buio e triste del commissariato, al Quai des Orfèvres, e, rigirando l’inseparabile pipa fra i denti, ne gode come un fanciullo uscito da una poesia del Pascoli. Ed è sempre quel Maigret che, passeggiando quasi pigramente in cerca di un indizio lungo i quais dei quartieri periferici, osserva come l’atmosfera di certi rioni lungo la Senna, o lungo il canale Saint Martin, somigli stranamente a quella di certi centri di provincia, come se bastasse traversare una strada o svoltare oltre una piazza per entrare, quasi magicamente, in un’altra atmosfera, e per vedere le strade popolate da un’altra umanità, fatta di marinai, facchini, piccioli borghesi che entrano ed escono dalle osterie e dai bistrot con le guance rosse per il freddo, fregandosi le mani e fumando pensierosi.

Il sole colpiva in pieno gli edifici del quai de Valmy , ed era un sole così chiaro e così allegro che veniva da chiedersi come mai quel molo avesse una reputazione tanto sinistra. Le case, è vero, non erano verniciate di fresco, il bianco o il giallo delle facciate erano sbiaditi, ma, in quel mattino di marzo, avevano l’aspetto leggero dei paesaggi di Utrillo (da: G. Simenon, Il corpo senza testa, traduzione di Marianna Basile; Milano, Mondadori, 1992, p. 14).

Lungo il molo si vedavono solo casupole a un solo piano, stabili da affittare, officine e grandi costruzioni in cemento che contenevano uffici.

"Ci sarà pure un bar con una cabina del telefono".

Seguirono il marciapiede e, sull’altro lato del la strada, videro la bandiera scolorita e la lampada azzurra del Posto di polizia; dietro si scorgeva la massa scura dell’ospedale Saint Louis,.

Percorsero quasi trecento metri prima di trovare un piccolo bar buio, di cui il commissario aprì la porta.

Bisognava scendere due gradini e il pavimento era composto di mattonelle di cotto, come negli interni di Marsiglia.

Dentro non c’era nessuno, soltanto un gattone rosso sdraiato vicino alla porta, che si alzò pigramente, si diresse verso una porta socchiusa e sparì

"C’è nessuno?" chiese Maigret.

Si udiva il tic-tac martellante di un orologio a cucù. L’aria sapeva di alcol e di vino bianco, più di alcol che di vino bianco, e regnava un odore acuto di caffè:

Ci fu del movimento in una stanza sul retro. Una voce di donna disse con tono stanco: "Vengo subito".

Il soffitto era basso, affumicato, le pareti annerite e la sala, immersa in una semioscurità, era trafitta da pochi raggi di sole, come dalle vetrate di una chiesa (Idem, pp. 18-19).

Maigret infilò il lungo corridoio del quai des Orfèvres e un lampo di gioia brillò nei suoi occhi: persino quel corridoio, il più grigio e il più tetro del mondo, quel giorno era toccato dal sole, se non altro sotto forma di polvere luminosa (Idem, p. 28).

I raggi del sole, negli stessi punti del mattino precedente, creavano strani disegni: uno, a forma di animale, sull’angolo rotondo del banco di ottone e un altro su una stampa a colori dov0era raffigurata una donna vestita di rosso che porgeva un boccale di birra schiumante.

In quel piccolo bistrot, come in molti altri caffè e bar di Parigi, Maigret aveva immediatamente sentito l’atmosfera delle osterie di campagna, vuote per la maggior parte della settimana e d’improvviso affollate nel giorno di mercato.

Gli venne la tentazione di servirsi da bere, ma era un desiderio infantile, di cui arrossì e, con le mani in tasca e la pipa in bocca, si diresse verso la porta in fondo (Idem, p. 88).

Maigret, dunque, alter ego di Simenon, è un uomo che possiede occhi per la bellezza, anche nelle più piccole cose: un raggio di luce che filtra da una vetrata, un viale tappezzato di foglie cadute, un profumo di terra bagnata che sembra venire dalla campagna lontana. è un uomo riflessivo, dai gusti semplici, nato e cresciuto in campagna, figlio di un amministratore fondiario; ogni volta che deve condurre un’inchiesta in provincia, è come se tornasse indietro nel tempo e si confrontasse con il se stesso di quand’era bambino (e una volta gli capita per davvero, nell’inchiesta sul messale avvelenato della vecchia contessa). Sua moglie lo prende un po’ in giro quando lo vede così"calato nella parte del ragazzo che è stato, ma lui non si vergogna affatto delle sue radici e nemmeno della sua ingenuità, se tale si può considerare un rapporto così trasparente con il passato. Da piccolo, serviva anche la Messa come chierichetto: sono cose che non ha dimenticato, e neppure rinnegato. Vi è ancora qualcosa d’infantile, nel suo modo di guardare al mondo, nel senso di puro, d’innocente (arrossisce perfino con se stesso, quando si becca in fallo da solo!), anche se l’età e la professione lo hanno, ovviamente, scaltrito, e se non perde mai di vista il filo delle sue inchieste, né si lascia influenzare dai suoi sentimenti personali – o, almeno, non troppo.

Maigret, come padre Brown, davanti a un delitto non si chiede anzitutto: Chi è stato?, ma: Perché? Per arrivare a rispondere a questa domanda, ha bisogno di entrare nella parte dei personaggi: da qui il suo interesse per la vita degli indagati, il loro carattere, il loro modo di porsi, insomma non solo per l’esistenza che conducono esteriormente, ma per la loro dimensione interiore. Maigret vuol capire che tipi sono, nel profondo, dietro le maschere sociali: perciò s’immerge profondamente nel loro ambiente, ma mille domande ai vicini, alle portinaie, al lattaio, eccetera: ogni elemento di tal genere, anche il più piccolo, può rivelarsi determinante. E lui immagazzina tutto, anche le impressioni "a pelle", non scarta nulla, non butta via niente, tutto potrebbe essere prezioso. In fondo, cerca un’illuminazione: il suo metodo è questo. Fiutare, annusare, far domande, osservare, immagazzinare dati di ogni genere, compresi quelli apparentemente slegati dal crimine, ma pur sempre riconducibili ad esso: si tratta di trovare la chiave giusta per aprire la porta, magari dopo cento tentativi: perché la chiave giusta esiste; le nostre emozioni, le nostre abitudini, le nostre aspettative, le nostre delusioni, tutto lascia un segno, scava un solco nell’esistenza, e, alla fine, un attento osservatore è in grado, mettendo insieme tutte le tessere del mosaico, di ricostruire il disegno che sfugge, che si presenta come un abbozzo incomprensibile. È chiaro che, in questa operazione di scavo, Maigret prova delle simpatie e delle antipatie, dire che non ne è influenzato, sarebbe troppo: è più giusto affermare che cerca di tenerle a bada e di conservarsi il più lucido possibile. 

Qualcosa di assai simile alla simpatia, per esempio, la prova nei confronti di Aline Calas, che è la principale sospettata per il delitto dell’uomo senza testa, tagliato a pezzi che sono stati ritrovati nel canale Saint-Martin, in quai de Valmy. è una donna sulla quarantina, dai lineamenti fini ma sfiorita, appassita, nonché segretamente (e dignitosamente) alcolizzata, dal modo di fare impassibile, che oppone una sorta d’impermeabilità al mondo esterno, e anche alle indagini che la stringono sempre più da vicino. Al punto che la moglie del commissario intuisce, pur non avendola mai vista, l’intensità dell’interesse che prova per lei suo marito e glie lo dice scherzosamente: Se fossi una donna gelosa, direi che ti sei innamorato di lei. Ma lui non ne è innamorato, naturalmente; ne è attratto: non sessualmente, bensì psicologicamente. La parola giusta è "incuriosito": fin dal primo istante, ha provato verso di lei una enorme curiosità. Ha intuito un dramma in quell’esistenza solitaria, da moglie sottomessa di un proprietario di bistrot; e, mano a mano che scopre le sue relazioni, i suoi amanti, e li collega con quell’esistenza spenta, grigia, fatta di tranquilla e rassegnata disperazione, si rende conto di una cosa: che ella ha deciso di punirsi per qualcosa, di auto-umiliarsi, di scendere tutti i gradini della degradazione. Ma perché?

Ecco: questo è sempre il punto di partenza del commissario Maigret; la sua domanda fondamentale è: perché? Perché una donna non ancora vecchia, non ancora brutta, sicuramente intelligente, si lascia andare a quel modo? C’è qualcosa, nel suo passato, che la porta a quella sorta di lucido, incomprensibile fatalismo? Se è così infelice con quel marito rozzo e violento, perché, dopo vent’anni, non l’ha ancora lasciato? Non certo per amore: si vede che gli è totalmente, assolutamente indifferente. Forse è addirittura implicata nel suo assassinio, se si arriverà a provare che quel corpo tagliato a pezzi è proprio quello di Omer Calas. Maigret ha imparato a non escludere nessuna possibilità, e quindi a non sorprendersi più di niente; eppure, per temperamento, sarebbe un uomo che prova stupore davanti alle cose, specialmente davanti alle cose belle, come un bel paesaggio, un bel tramonto e simili. C’è dunque, in lui, come uno sdoppiamento: in quanto poliziotto, e poliziotto onesto e coscienzioso (si ricorda di mettere le monete nella cassa quando si serve da bere nel bistrot di Calas, dopo che Aline è stata arrestata e lui sta facendo un sopralluogo), sta lavorando per risolvere il caso e così mandarla, forse, alla ghigliottina, lei o uno dei suoi amanti; come uomo, è talmente impietosito da quella vita senza luce, che si preoccupa persino di far avere alla donna, in carcere, un po’ di vino o di liquore, sapendola nelle more di una crisi d’astinenza. E aggiungiamo che si preoccupa di trovare una sistemazione sia per il gatto di Aline Calas, sia per il canarino dell’amante di lei, allorché, piuttosto di malavoglia, deve farli arrestare.

La differenza fra lui e padre Brown è che quest’ultimo vuol capire il perché e vorrebbe anche redimere, o aiutare la redenzione del colpevole, guidandolo alla comprensione del male fatto; cosa che rientra nelle sue facoltà e nella sua autorità di sacerdote, e, forse,  anche nel suo dovere di ministro di Dio. Maigret non è un medico delle anime, non ha la veste, né l’autorevolezza per fare la morale agli indagati – anche se qualche volta lo fa, specialmente ai giovanotti che vorrebbe rimettere sulla retta via, prima che sia troppo tardi – e, del resto, non si fa illusioni circa il problema del male. Sa che il male c’è, c’è sempre stato e ci sarà sempre. In questo senso, più che un laico, è un uomo immune dal mito del progresso e dalle promesse illuministe sulla felicità universale; la sua visione è simile, a questo riguardo, a quella di un cattolico, uno di quelli che oggi, in tempi di cattolicesimo progressista, vengono chiamati, di solito, cattolici tradizionalisti, mentre sono dei cattolici e basta. Il male c’è, e la lotta contro di esso è destinata a durare fino a che durerà il mondo: il male non verrà mai sconfitto interamente, fino al giorno del Giudizio universale. A Maigret, però, manca la fede di padre Brown: la certezza nella vittoria finale del bene. Simenon non è Chesterton. È per questo, probabilmente, che, nei gesti, nei pensieri, nelle parole del commissario parigino, c’è sempre, anche nei momenti di distensione, anche davanti a un birra schiumosa in un caldo pomeriggio d’estate, o a un buon pranzo innaffiato col vino bianco, c’è sempre, un leggero, quasi impercettibile velo di malinconia. Ed è ancora per questo, forse, che, pur avendo dei collaboratori fidati e pieni di sincera ammirazione per lui, non ha neppure un vero amico, tranne, probabilmente, sua moglie…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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