
Se i vecchi tralignano, chi insegnerà ai giovani?
20 Settembre 2017
Bravissimi, sociologi progressisti: continuate così
21 Settembre 2017Oggi è di moda minimizzare, stemperare e, se possibile, perfino eliminare il concetto della responsabilità individuale e personale degli atti morali: come se il bene e il male che facciamo, attraverso le azioni buone e cattive, non fossero qualcosa che parte da noi, il frutto di una nostra libera scelta, ma una specie di destino, una forza estranea che ci piomba addosso, un qualcosa che (specie nel caso delle azioni malvagie, a dire la verità) non ci appartiene. E se non ci appartiene, allora non ne siamo nemmeno responsabili. Forse che qualcuno è responsabile dell’impatto con un’automobile che lo urta frontalmente, se procedeva tranquillo nella propria corsia, con i fari accesi, i pneumatici efficienti e tutta la strumentazione a posto? Quella a cui stiamo assistendo, ormai da diversi anni, è una vera e propria campagna ideologica per togliere dalle spalle degli individui la responsabilità morale delle loro cattive azioni (le buone non interessano più a nessuno), e questo proprio nel momento in cui la cultura dominante compie il massimo sforzo per affermare in ogni modo e in ogni sede possibile il concetto che la ricerca del piacere, dell’appagamento, della felicità individuale, è il diritto fondamentale che non si può negare ad alcuno e che prescinde completamente dalle circostanze oggettive (ad esempio, il fatto che il papà abbia perso il lavoro non è una buona ragione perché i suoi bambini siano privato dei regali di Natale, che hanno il diritto di ricevere nella stessa misura di prima, come se in quella famiglia non fosse accaduto proprio nulla). In questo modo, la pretesa della massima libertà possibile viene a coincidere, certo non per caso, con la volontà di deresponsabilizzare al massimo l’individuo.
L’effetto sommato di queste due azioni, positiva l’una (affermare un diritto o una serie di diritti assoluti), negativa l’altra (sottrarre all’individuo il fardello di dover rendere conto dei propri atti) è visibile nell’atteggiamento attuale della magistratura, o di una gran parte di essa, nei confronti degli individui che commettono reati, specialmente se si tratta di persone provenienti da Paesi poveri e giunte in veste di richiedenti asilo per chi sa quali urgentissimi, e scarsamente verificabili, motivi umanitari, ma sempre sulla base di diritti pregressi, irrinunciabili e staccati dalle condizioni oggettive esistenti: per esempio, il diritto di un (supposto) omosessuale africano di essere tutelato dalle persecuzioni che subirebbe in nel suo Paese di origine per la sua condizione di "diverso", e ciò indipendentemente dal fatto che l’Italia possa accogliere materialmente una schiera infinita di soggetti richiedenti asilo per questa ragione o per delle ragioni equivalenti. Il diritto dell’individuo, cioè, viene assolutizzato e affermato in maniera astratta, apodittica e indiscutibile, ma senza che vi siano dei corrispondenti doveri: nemmeno quello di mantenersi, lavorando, durante il periodo di accertamento della sua condizione effettiva di profugo, lavorando senza salario per il Paese che lo ha raccolto, spesso materialmente salvato dal naufragio, indi ospitato e protetto. Al contrario, si assiste a un crescendo d’insofferenza e di proteste, da parte di tali soggetti, perché il cibo fornito nei centri di accoglienza non è di loro gradimento; perché le docce e i servizi igienici non sono adeguati; perché l’ambulanza, in caso di malore d’uno di essi, non è giunta in pochi minuti. Nello stesso tempo, a questi soggetti è garantita, tacitamente o anche esplicitamente, la totale impunità per i reati che possono commettere, e che di fatto commettono, durante la permanenza dei centri di soggiorno in qualità di aspiranti profughi: lo spaccio di droga, l’esercizio e lo sfruttamento della prostituzione, l’ubriachezza molesta, le risse, le lesioni personali, i furti, le rapine, gli stupri e gli omicidi. Tutte queste cose possono essere fatte, e altre ancora, senza che sia possibile espellere immediatamente coloro i quali si macchiano di simili reati, perché prima bisogna vedere come si concluderà l’iter delle loro domande di asilo per ragioni umanitarie, ricorso compreso (il tutto rigorosamente a spesse del Paese ospitante, perché costoro, è ovvio, non pagano un centesimo, anche se hanno versato fino a 6.000 euro agli scafisti per il viaggio da una sponda all’altra del Mediterraneo; anzi, hanno diritto a una "paghetta" che comprende, oltre al cibo e l’alloggio, il telefonino, il collegamento internet, la musica, le sigarette e, si capisce, qualche spicciolo da spendere a propria discrezione. Tutte cose che gli italiani poveri non hanno; che non sono mai state loro riconosciute; che non sono mai state richieste o pretese da parte degli intellettuali progressisti, dei mezzi d’informazione e soprattutto del Parlamento.
Ma questo, che abbiamo fatto, è solo un caso particolare di una problematica assai più ampia. La tendenza prevalente della legge non sembra essere più quella di punire i delinquenti e di proteggere la società dalle loro cattive azioni; non sembra neppure quella di premiare i meritevoli, di dare loro soddisfazione morale e qualche incentivo materiale, e farli sentire apprezzati, stimati e ammirati. Al contrario: pare che i cattivi comportamenti siano premiati, e quelli virtuosi siano ignorati o peggio: che generino insofferenza e una sorta di fastidio, quasi di disapprovazione morale, sia pure non manifestata apertamente, ma solo suggerita. È da tempo che la cultura dominante corteggia il vizio e i comportamenti viziosi, mentre denigra o svaluta la virtù e i comportamento virtuosi; è da un pezzo che pseudo intellettuali, registi, scrittori, giornalisti, filosofi, psicologi e sociologi da quattro soldi fanno una sorta di contro-educazione, incitando il pubblico a sprofondarsi liberamente nel vizio e mettendolo in guardia contro la tentazione di essere virtuosi, come se fosse una cosa non bella e non desiderabile. La scuola, da parte sua, fa ben poco, oppure procede nella direzione sbagliata: così come tante famiglie, gli insegnanti si guardano bene dal parlare del bene e del male; e perfino il clero, o una parte non certo piccola di esso, si direbbe che abbia altre priorità "pastorali" alle quali dedicarsi, per esempio riaffermare a gran voce i diritti a tutto campo dei singoli individui, dei gruppi, perfino di intere popolazioni, sempre tacendo sui doveri e sempre ignorando il discorso sui castighi e sui premi. Ma se il bene non è premiato e il male non viene punto, qualsiasi discorso di tipo morale diventa una barzelletta, un esercizio verbale senza alcun significato. Le leggi e l’operato della magistratura riflettono questa tendenza: sono tutti a favore di chi si comporta male e non garantiscono affatto chi si comporta bene. Con quale sostegno teorico? Con la teoria secondo la quale noi non portiamo interamente, o magari non portiamo affatto, la responsabilità dei nostri atti. Si invoca ogni sorta di circostanza che attenui la responsabilità delle azioni malvagie o che giustifichi la loro presunta inevitabilità, e quasi la fatalità che le determina. Come se le azioni malvagie fossero una cosa separata dagli individui i quali le compiono effettivamente; quasi che tutti fossero d’accordo nel denunciare le prime, ma fossero altrettanto d’accordo nel trovare delle pronte scusanti per i secondi. Insomma: si denuncia il male, ma poi si direbbe che a compierlo non sia nessuno, o forse, chi lo sa degli spiriti impalpabili, oppure delle creature aliene. Che se poi il criminale viene preso con le mani nel sacco, se viene inchiodato alle sue precise responsabilità, allora – e specialmente se appartiene a una minoranza protetta – parte immediatamente la campagna volta a presentarlo come una povera vittima della solitudine, della povertà, dell’emarginazione, anche se, in effetti, non è altro che un criminale efferato e la sua rimessa in libertà rappresenta un pericolo molto grave per altre potenziali vittime.
Ed ecco quel che Sostiene Aristotele nell’Etica Nicomachea (III, 5, 5-30; edizione a cura di Claudio Mazzarelli, Milano, Rusconi, 1993, pp. 125-129):
Poiché, dunque, oggetto di volontà è il fine, e oggetti di deliberazione e di scelta sono i mezzi, le azioni concernenti i mezzi saranno compiute in base ad una scelta, cioè saranno volontarie. Ma le attività delle virtù hanno per oggetto i mezzi. Dunque, la virtù dipende da noi, e così pure il vizio. Infatti, nei casi in cui dipende da noi l’agire, dipende da noi anche il non agire, e in quelli in cui dipende da noi non agire, dipende da noi anche l’agire. Cosicché, se l’agire quando l’azione è bella, dipende da noi, anche il non agire dipenderà da noi, quando l’azine è brutta; e se il non agire, quando l’azione è bella, dipende da noi, anche l’agire, quando l’azione è brutta, dipende da noi. Se dipende da noi compiere le azioni belle e quelle brutte, e analogamente anche il non compierle, e se è questo, come dicevamo, l’essere buoni o cattivi, allora dipende da noi l’essere virtuosi o viziosi. Il dire che "nessuno è volontariamente malvagio, né involontariamente felice"[l’autore di questa citazione è sconosciuto, ma sembra riconducibile all’ambito socratico], sembra essere in parte falso e in parte vero: infatti nessuno è felice volontariamente, ma la malvagità è volontaria. Diversamente, bisogna mettere in discussione quanto abbiamo ora detto, e bisogna negare che l’uomo sia principio e padre delle proprie azioni come lo è dei figli. Ma se è manifesto che è così e se non possiamo ricondurre le nostre azioni ad altri principi se non a quelli che sono in noi, le azioni i cui principi sono in noi dipendono da noi e sono volontarie. Di ciò sembrano rendere testimonianza sia i singoli uomini nella condotta privata, sia i legislatori; questi, infatti, puniscono e infliggono pene a coloro che compiono azioni malvagie: a quelli, però, che non le compiono per costrizione o per un’ignoranza di cui non sono essi stessi causa, mentre conferiscono onori a quelli che compiono azioni belle, con l’intenzione di incitare questi e di tenere a freno quelli. Ma le azioni che non dipendono da noi e che non sono volontarie, nessuno incita a compierle, così come non ha alcun effetto l’essere persuasi a non provare caldo o dolore o fame o altra affezione simile, giacché non soffriamo di meno quelle affezioni. E, infatti, puniscono per l’ignoranza stessa quando ritengono che uno sia causa della propria ignoranza: per esempio, per gli ubriachi le pene sono doppie giacché il principio dell’azione è in colui steso che li compie: infatti è padrone di non ubriacarsi, ma l’ubriachezza, poi, è causa della sua ignoranza. E puniscono coloro che ignorano qualcuna delle prescrizioni legali, prescrizioni che bisogna conoscere e che non sono difficili, e similmente anche negli altri casi, in cui ritengono che l’ignoranza sia causata da trascuratezza, in quanto dipende dagli interessati il non essere ignoranti: essi sono, infatti, padroni di prendersi la cura di uscire dall’ignoranza. E certo qualcuno è tale da non prendersene cura. Ma dell’essere divenuti tali gli uomini stessi sono causa, in quanto vivono con trascuratezza, e dell’essere ingiusti e intemperanti sono causa, nel primo caso, coloro che agiscono malvagiamente, nel secondo coloro che passano la vita dediti al bere e a cose simili: infatti, sono le attività relative ai singoli ambiti di comportamento che li rendono appunto ingiusti e intemperanti. Questi risulta chiaro da coloro che si preoccupano di riuscire in una competizione o in un’azione qualsiasi: passano, infatti, tutto il loro tempo a esercitarsi. L’ignorare, dunque, che le disposizioni del carattere si generano dal fatto di esercitarsi nei singoli campi è proprio di chi è affatto insensato. Inoltre, è assurdo dire che chi commette ingiustizia non vuole essere ingiusto o che chi si comporta con intemperanza non vuole essere intemperante. E se uno compie delle azioni in conseguenza delle quali sarà ingiusto, e lo sa, sarà ingiusto volontariamente; né certamente basterà volerlo, per cessare di essere ingiusto e per essere giusto. Infatti, neppure il malato può diventare sano solo volendolo. E se questo è il caso, è volontariamente che si trova in stato di malattia, in quanto vive da incontinente e non dà retta ai medici. All’inizio, sì, gli era possibile non ammalarsi, ma, una volta lasciatosi andare, non più, come uno che ha scagliato una pietra non può più riprenderla: tuttavia, dipende da lui lo scagliarla, giacché il principio dell’azione è in lui. Così anche all’ingiusto ed all’intemperante all’inizio era possibile non diventar tali, ragion per cui lo sono volontariamente: una volta divenuti tali, non è loro più possibile non esserlo. Non solo i vizi dell’anima sono volontari ma per alcuni anche quelli del corpo, ed a loro li rinfacciamo. Infatti, nessuno biasima quelli che sono brutti per natura, ma quelli che lo sono per mancanza di ginnastica e per trascuratezza. E similmente anche nel caso di debolezza e di mutilazione: nessuno, infatti, rimprovererebbe uno che è cieco per natura o per malattia o per ferita, ma piuttosto ne avrebbe compassione; ognuno, invece, biasimerebbe chi fosse cieco per abuso di vino o per qualche altra intemperanza. Dunque, dei vizi del corpo quelli che dipendono da noi vengono biasimati, ma quelli che non dipendono da noi, no.
Il ragionamento di Aristotele è di una chiarezza, di una logica e di una consequenzialità esemplari. E smonta alla base il sofisma avvocatesco secondo il quale il delinquente non è praticamente mai responsabile del male che compie, perché, in quel momento, essendo fuori di sé, non capiva quel che stava facendo. Aristotele dimostra in maniera impeccabile che la colpa risiede a monte, nell’essersi messi nelle condizioni di compiere l’azione malvagia, con una serie di comportamenti sbagliati e viziosi che lo hanno condotto, alla fine, a compierla. L’esempio dell’ubriachezza è particolarmente efficace: è inutile che il guidatore ubriaco, dopo aver provocato una serie d’incidenti stradali in cui hanno peso la vita molte persone, si affanni a dichiarare che non voleva, che non era sua intenzione, eccetera: bevendo in maniera smodata e poi mettendosi al volante della sua automobile, si è posto nelle condizioni di provocare la morte di tanti suoi simili. Anche l’esempio del malato è illuminante: prima di ammalarsi, colui che conduce una vita contraria al mantenimento della propria salute ha la possibilità di fermarsi, ascoltando il parere dei medici; se non lo fa, se continua a bere, a fumare e a mangiare in maniera sbagliata, si mette automaticamente nelle condizioni di subire un grave danno, del quale lui solo è responsabile, e nessun altro. Perciò, anche se nel momento preciso in cui l’azione malvagia viene perpetrata può accadere che colui che la compie non sia perfettamente lucido, nondimeno egli porta tutta intera la responsabilità di quel che ha fatto, perché poteva fermarsi in tempo, e non l’ha fatto, per una sua libera scelta, della quale era padrone. Certo, possono esservi state delle circostanze attenuanti: ma non si può ricorrere ad esse per ampliare smisuratamente l’ambito del condizionamento sociale, ambientale, psicologico, fino ad annullare la libertà dell’individuo. Questa è una operazione intellettualmente ed eticamente disonesta; ed è una strategia suicida da parte della società, perché, imboccando una tale via, si innesca una spirale distruttiva che diverrà sempre più grave; una sorta di selezione alla rovescia, in cui i comportamenti negativi verranno sempre più scusati e giustificati, e quelli virtuosi sempre più sconsigliati e scoraggiati.
Deve far riflettere anche quel che dice Aristotele a proposito dell’influsso deleterio che provoca l’assuefarsi ai vizi. Il delitto, l’azione malvagia particolarmente grave, raramente è frutto di una decisone improvvisa; quasi sempre è il risultato di una lenta preparazione, di un graduale avvicinamento, che parte delle cattive abitudini morali e s’ingrossa sempre più, come una valanga che s’ingrossa scendendo lungo il fianco della montagna. Una vita sprofondata nel vizio, nelle torbide passioni, nell’inseguimento dei piaceri, o del potere, o della ricchezza ad ogni costo, prepara il terreno e favorisce le predisposizioni cattive dell’anima umana. La coscienza si ottunde a poco a poco; si abitua alle piccole azioni cattive, poi a quelle più gravi e infine a quelle gravissime: è come se si allenasse al male. Si passa, così, da comportamenti lussuriosi, iracondi, avidi, contenuti entro un ambito ancora in parte accettabile, o non troppo dannoso, ad azioni sempre più indegne, sempre più basse e sempre più esiziali, fino al punto di non ritorno, quando l’anima non è più padrona di se stessa e si abbandona completamente al male. Lo ha fatto, però, in maniera graduale, e, all’inizio, avrebbe potuto fermarsi: ma non lo ha voluto. Anche per questa via, giungiamo alla logica conclusione che chi fa il male, il male con la maiuscola, sa benissimo quel che sta facendo e non può invocare alcuna attenuante che possa levare dalle sue spalle la responsabilità delle proprie azioni. No, cari sociologi, educatori e legislatori permissivi, buonisti e incoscienti: il nostro destino ce lo fabbrichiamo noi; e chi sbaglia deve pagare il suo debito con la società, perché, altrimenti, tutti si sentiranno autorizzati a ad agire come lui: e questo sarebbe l’inizio della fine per qualsiasi ordine sociale, segnerebbe il trionfo del caos e la distruzione della civiltà.
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