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3 Aprile 2017L’isola di Sumbawa è una delle maggiori fra le Piccole isole della Sonda, in Indonesia, fra l’Oceano Indiano e il Pacifico: con i suoi 15.500 kmq. (in cifra tonda), ha una superficie — per fare un paragone – quasi doppia della Corsica o dell’isola di Creta.
Nella parte centro-settentrionale di essa s’innalza una montagna poderosa, che, un tempo, sfiorava i 4.300 metri: misura notevole, che ne faceva di gran lunga la vetta più alta di tutto l’Arcipelago indo-malese (a parte la Nuova Guinea, che, geograficamente, fa già parte dell’Oceania): il monte Rantemaio, sull’isola di Sulawesi, nota anche come Celebes, raggiunge, infatti, "appena" i 3.478 metri; il Semeru, sull’isola di Giava, arriva a 3.676 e il Kinabalu, nel Borneo, a stento tocca i 4.000. In Europa sono solo sei le cime più note che oltrepassano quota 4.000, tre delle quali nel Caucaso (tra cui la maggiore di tutte, l’Elbrus, 5.642 m.), al confine con l’Asia; le altre tre sono tutte nelle Alpi Occidentali: il Monte Bianco (4.810 m.), il Monte Rosa e il Dom.
Abbiamo detto che il Tambora sfiorava i 4.300 metri, per la precisione toccava i 4.282 sul livello del mare; oggi, infatti, la sua vetta è "scesa" a quota 2.850, che è pur sempre una bella altezza, ma qualcosa come 1.500 metri di meno dell’altezza originaria: e diciamo "originaria" per comodità di linguaggio, perché, di fatto, nessuna montagna resta sempre uguale a se stessa, ma tutte sono soggette a crescere o diminuire d’altezza, per una serie di fenomeni fisici, sia di erosione da parte degli agenti atmosferici, sia d’innalzamento delle dorsali di cui fanno parte, soprattutto per l’azione reciproca delle "placche" o "zolle" di cui è costituita la crosta terrestre, insieme alla parte superiore del mantello, chiamata dai geologi astenosfera. La drastica riduzione del Tambora è dovuta a quella che è stata la più grande esplosione vulcanica nella storia della Terra, almeno negli ultimi secoli, e una delle più imponenti in assoluto su scala storica; per la preistoria, la più grande dovrebbe essere stata quella del Toba, sempre in Indonesia, databile a circa 750.000 anni fa, e che pare abbia avuto conseguenze apocalittiche sulla popolazione umana allora esistente su tutto il pianeta, a causa degli sconvolgimenti climatici che determinò (il monte Toba, fra parenesi, non esiste più e gli scienziati ne sospettano l’esistenza a causa delle caratteristiche del lago omonimo, che, secondo il geologo olandese Rein van Bemmelen, sarebbe la caldera di un vulcano scomparso).
Era il 10 aprile del 1815: Napoleone era rientrato trionfalmente a Parigi il 20 marzo 1815, mentre i ministri delle grandi potenze erano da tempo riuniti a Vienna, per ridisegnare la carta dell’Europa; le Indie orientali olandesi erano state temporaneamente occupate dalla flotta britannica, che le avrebbe poi "restituite" ai legittimi proprietari (legittimi, si fa per dire); la decisiva battaglia di Waterloo era nell’aria, ma sarebbe stata combattuta solo il 18 giugno. In Europa nessuno, o ben pochi, avevano mai sentito nominare il Monte Tambora; ma se ne sarebbero ricordati un anno dopo, perché l’inverno del 1815-16 fu freddissimo e il 1816 sarebbe passato alla storia come "l’anno senza estate", a causa del cielo coperto e delle temperature insolitamente fresche, tanto da causare danni gravissimi ai raccolti e da ridurre alla fame milioni di persone in tutto il mondo, compresa l’America Settentrionale. Se all’eruzione del Tambora, che scagliò nell’atmosfera immense quantità di materiale eruttivo, si sommano gli effetti di altre eruzioni vulcaniche avvenute quasi contemporaneamente, come quella del Soufrière, nell’isola caraibica di Montserrat, nel 1812, e quella del Mayon, sull’isola filippina di Luzon, nel 1814, si comprende perché i climatologi chiamino quel periodo storico come la "piccola era glaciale" del XIX secolo, caratterizzato da inverni particolarmente rigidi e da una serie di estati "mancate".
Scrive il geologo americano Stanely Williams, professore all’Università dell’Arizona, nel suo libro Sopravvivere all’inferno (titolo originale: Surviving Galeras, 2001; traduzione dall’inglese di Lidia Perria, Milano, Casa Editrice Corbaccio, 2001, pp. 242-244):
Trentadue anni dopo la più grande eruzione non esplosiva della nostra era [quella del Laki, in Islanda, nel 1783], il mondo assisteva al’eruzione esplosiva più potente che si conosca a memoria d’uomo, un’eruzione che ha modificato il clima globale ancora più del Laki e ha avuto un impatto di gran lunga superiore sul piano sociale in tutto il mondo [alcuni studiosi pensano che gli effetti sul clima di quella eruzione, e i conseguenti cattivi raccolti, abbiano contribuito alo scoppio della Rivoluzione francese del 1789]. L’eruzione è avvenuta nell’aprile 1815sul Tambora, uno dei tanti vulcani situati sulle isole dell’Indonesia, come il Krakatoa, che è entrato a sua volta in attività sessantotto ani dopo. (Questa collana di vulcani indonesiani fa parte dell’"anello di fuoco" del Pacifico). Il Tambora, che sorge nell’isola densamente popolata di Sumbawa, era la montagna più imponente dell’Indonesia, con i suoi 4.282 metri di altezza.
In un’eruzione che probabilmente è la più potente degli ultimi diecimila anni, il Tambora eruttò dagli ottanta ai centodieci chilometri cubi di magma, gas e cenere, da cento a centocinquanta volte più del St. Helens [il vulcano Sant’Elena, nello Stato di Washington, che l’eruzione del 18 maggio 1980 "abbassò" di 400 metri]. L’esplosione del 10 aprile fu udita a 2.500 chilometri di distanza e la colonna eruttiva raggiunse i 48 chilometri di altezza. Ricadendo, diede origine ad almeno otto imponenti flussi piroclastici, che si prolungarono per quasi veti chilometri a partire dalla vetta, decimando la popolazione di Sumbawa. La cenere cadde a 1.300 chilometri di sì distanza facendo piombare nell’oscurità la regione del Tambora per due giorni e per un raggio di 480 chilometri. Un’onda di maremoto provocata dal vulcano, probabilmente per effetto dei flussi piroclastiche raggiunsero il mare, viaggiò per oltre 1.200 chilometri . Il mare di Giava fu ricoperto tutt’intorno da uno strato di pomice alto sessanta centimetri, tanto da interferire con la navigazione: quattro anni dopo, le navi che salpavano dal porto incontravano ancora zattere di detriti vulcanici. Il vulcano espulse tanto materiale da collassare, formando una classica caldera del diametro di oltre sei chilometri e della profondità di quasi ottocento metri. Nel disastro, l’altezza della montagna si ridusse di 1.432 metri tanto che attualmente misura 2.850 metri.
L’eruzione del Tambora fu la più grave della storia per quanto riguarda il numero delle vittime, valutate fra le 92.000 e le 117.000. Circa diecimila morirono subito per effetto dei flussi piroclastici, mentre gli altrui furono uccisi da crolli, carestie ed epidemie, quando la cenere ricoprì le isole di Sumbawa, Lombok e Bali.
Inoltre il Tambora espulse nell’atmosfera circa duecento milioni di tonnellate di aerosol vulcanico, una quantità enorme, che fu in parte responsabile di alcune annate particolarmente rigide in molte zone del globo. Nei primi anni, l’enorme infusione di gas e cenere nell’atmosfera e nella stratosfera creò dei tramonti straordinari, dal momento che i raggi solari venivano filtrati attraverso la nebbia vulcanica. Nell’estate e nell’autunno del 1815 gli inglesi rimasero incantati da quei tramonti, soffusi di un rosso e di un arancio luminoso, che il pittore inglese J. M. W. Turner riuscì a e sulla tela in tutta la loro intensità.
Ma gli effetti del Tambora si avvertirono ancor più l’anno successivo, che negli Stati Uniti è diventato proverbiale col nome di "anno senza estate". Sulla costa atlantica dell’America settentrionale e in Europa, le temperature scesero in modo significativo al di sotto della norma, e numerose gelate estive, insieme alla brevità della stagione mite, danneggiarono i raccolti, causando problemi di vettovagliamento. Negli Dati Uniti e carestie in alcune regioni dell’Europa. In America, il freddo e la scarsità del raccolto solecitarono un’imponente migrazione verso il West, mentre in Europa le carestie diedero inizio a un vasto movimento migratorio verso gli Stati Uniti.
Per i cittadini della giovane repubblica americana, gli anni dal 1810 al 1815 erano già stati più freddi del normale, in apparenza a causa dell’attività delle macchie solari e di altre anomalie solari. Nel 1813, 1814 e 1815 il rendimento del raccolto negli stati nordorientali era stato inferiore alla norma. Nel 1815 e 1816 gli americani avevano assistito a tramonti di fuoco e notato una foschia persistente, che conferiva al sole un alone rosso.
Fin qui, gli aspetti scientifici dell’eruzione del Tambora del 1815. E mentre il vulcanologo calcola quanti milioni di metri cubi di roccia, di magma, di cenere e di gas il vulcano ha eruttato, e a quanti chilometri di distanza li ha scagliati; mentre il climatologo studia gli effetti della dispersione nell’atmosfera di tutti quei materiali, e perfino l’economista fa un inventario e un bilancio dei danni sofferti dall’agricoltura nel periodo 1815-1817, il moralista ha di che ispirarsi per le sue riflessioni sulla caducità della vita umana, e il filosofo, specialmente se è un cattivo filosofo — come Voltaire, o come Leopardi – ossia uno che si lascia guidare dall’emotività e da idee preconcette, più che dal ragionamento rigoroso basato sui fatti, vede nella eruzione del Tambora l’ennesima prova circa la irrilevanza della presenta umana sulla terra, e un ulteriore indizio della probabile inesistenza di Dio, o, quanto meno, di una divina Provvidenza. Un buon filosofo, invece, come del resto un teologo serio, vedono in simili fatti la naturale manifestazione di forze fisiche presenti nel sistema terreste, che, essendo legato alle condizioni della materia, non può che produrre anche eventi i quali, dal punto di vista umano, sono catastrofici, benché non lo siano, per la natura, in senso assoluto, tanto è vero che per milioni di microrganismi la morte di alcune migliaia di esseri umani non solo non è un male, ma è decisamente un bene; e tuttavia non assolutizza una tale constatazione, non la estende dal piano fisico a quello spirituale, non ne fa discendere delle conclusioni metafisiche alquanto maggiori delle premesse, ma sa vedere, anche dietro il male e la distruzione, il disegno complessivo di una Intelligenza buona, di un Amore universale che si serve di tutte le manifestazioni della realtà materiale per suggerire – senza violare, imponendosi, la libertà umana – la propria presenza discreta, e per attirare le anime a Sé, non a dispetto del male e della sofferenza, ma proprio attraverso la misteriosa via del male e della sofferenza, cioè la via della Croce.
C’è un altro aspetto, tuttavia, che non può non attirare l’attenzione del filosofo: vogliamo dire la struggente bellezza di quei tramonti infuocati che brillarono per mesi nei cieli dell’Europa e dell’America, e che conferirono un alone d’incomparabile splendore allo spettacolo quotidiano del sole che declina e scompare dietro l’orizzonte occidentale; splendore che venne prontamente catturato dal pennello di artisti come il grande pittore inglese William Turner, le cui tele donarono al pubblico delle anime gentili, e doneranno sempre, momenti di sublime contemplazione e bagliori di estatico rapimento. È dunque crudele, il vasto e misterioso oceano della bellezza sensibile? La conquista della bellezza implica un atto di crudeltà, e si nutre della sofferenza e del terrore altrui? Non è infatti crudele pensare che un evento così catastrofico, così luttuoso, non solo per le popolazioni della remota isola di Sumbawa, le quali erano state colpite direttamente, ma anche per decine di migliaia di altri esseri umani, i quali morirono di fame o dovettero stiparsi sulle navi degli emigranti, e lasciare i loro paesi affamati in cerca di fortuna dall’altra parte dell’oceano, generò, per un effetto dovuto alle ceneri sospese negli strati superiori dell’atmosfera, dei fenomeni ottici di una bellezza fastosa ed esotica, stendendo una patina preziosa sullo spettacolo abituale del cielo vespertino, ed ispirando poeti, pittori e coppie di romantici innamorati? Questione ardua, estremamente complessa, che altra volta abbiamo toccato, ma che meriterebbe una riflessione ancor più ampia, vista la sua profondità abissale, e la rilevanza delle sue implicazioni sotto il profilo spirituale e morale, oltre che sotto quello strettamente estetico (cfr. i nostri precedenti articoli: Se la bellezza è terrore, cos’è allora il desiderio?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 19/12/2010; e L’estetica romantica del Sublime si èp alimentata con la "scoperta" dei Monti Pallidi, pubblicato su Il Corriere delle Regioni il 30/082015). Non è certo questa la sede adatta per sviluppare un simile discorso. Nondimeno, così come il binomio amore-morte ha prodotto numerosi capolavori artistici, perché affonda le sue radici in una realtà misteriosa, ma innegabile e viva, che giace negli abissi dell’anima umana, la stessa cosa si può dire per il binomio terrore-bellezza, che è stato esplorato da numerosi pittori, poeti, musicisti, e anche da un certo numero di pensatori e di mistici. Che altro è, per esempio, se non contemplazione di un sì tremendo mistero, la devozione e la preghiera speciale vissuta dal credente dinanzi all’immagine del Crocifisso, morente e con il capo incoronato di spine?
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