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7 Febbraio 2022Vi proponiamo un gioco. Prendete una carta geografica dell’Oceano Pacifico centrale. Potete vedere delle manciate di isole sparse qua e là, quasi sempre a formare dei festoni, ossia degli arcipelaghi: i loro nomi riempiono lo spazio, ma voi sapete che le distanze effettive fra uno e l’altro di quei minuscoli punti sono fatte di decine, centinaia e migliaia di chilometri di mare aperto. È l’oceano più grande del mondo, dove si registrano le onde più alte in assoluto: ne sono stare viste addirittura di venti e più metri d’altezza, come un palazzo di sette piani (ma nel caso di uno tsunami le onde possono arrivare all’a mostruosa altezza di centocinquanta metri). Bene. Ora cercate l’atollo di Jaluit, nel gruppo delle Ralik, che fa parte della Repubblica delle Isole Marshall. Trovato? Adesso cercate e individuate l’atollo di Tarawa, nelle isole Gilbert, che oggi fa parte della Repubblica di Kiribati. Forse questo nome, Tarawa, non vi è nuovo, perché nella Seconda guerra mondiale quella minuscola isola è stata teatro di una battaglia leggendaria, dal 20 al 23 novembre 1943, fra 20.000 marines statunitensi, sostenuti da una poderosa forza aeronavale, e le truppe della Marina imperiale nipponica che avevano occupato l’isola e l’avevano poderosamente fortificata, e che si difesero strenuamente, fino all’ultimo uomo: al quarto giorno, i marines avevano avuto un migliaio di morti e alcune centinaia di feriti, mentre 5.000 giapponesi avevano perso la vita, lasciando nelle mani del nemico meno di 150 prigionieri, comprese alcune decine di coreani che si erano battuti con minore ostinazione. E adesso vi domandiamo: secondo voi, quante probabilità ci sono che un’imbarcazione partita da Jaluit giunga a Tarawa, navigando alla cieca? Intuitivamente, voi capite che ce ne sarà, forse, una su migliaia e migliaia, forse su milioni.
Chiusa la parentesi storica sulla battaglia del 1943, provate a misurare la distanza che corre fra l’atollo di Jaluit, nelle Marshall, e quello di Tarawa, nelle Gilbert: scoprirete che è di circa 650 chilometri, all’incirca la stessa distanza che separa Udine da Roma. Se però, a bordo di una piccola imbarcazione a vela, costruita a mano da un indigeno, doveste recarvi da Jaluit a Tarawa, e sia pure trasportati da un esperto pilota, vi accorgereste che la distanza lineare è solamente teorica, perché i venti e le correnti vi farebbero percorrere ben più dei seicentocinquanta chilometri misurati sulla carta. Ora, però, immaginate che non voi o qualsiasi altro essere umano, ma la barca da sola, portata da qualcuno al largo di Jaluit e poi abbandonata senza equipaggio, dopo averla intenzionalmente danneggiata mediante una potente carica di esplosivo che avrebbe dovuto affondarla, resti invece a galla per miracolo, sia pure un po’ sconquassata, e se ne vada liberamente alla deriva, trasportata dal movimento delle onde: così, senza una meta, senza una direzione precisa, totalmente in balia degli elementi naturali. Ebbene, quante probabilità avrebbe quella barca, abbandonata alla deriva, di arrivare proprio all’isola di Tarawa, dove a suo tempo era stata costruita: proprio a quell’isola e non ad un’altra qualsiasi, dello stesso arcipelago o di un altro, fra le cento e cento isole cui avrebbe potuto arrivare? Già sarebbe estremamente improbabile che le tempeste non la rovescino e la facciano affondare; ma supponiamo che il mare sia clemente e che le tempeste la risparmino (però qualunque pilota del Pacifico sa che ci vuole un’estrema abilità per tener la propria imbarcazione sulla cresta delle onde ed evitare che, imbarcando acqua, vada irreparabilmente a fondo): vi sembra possibile che essa copra le centinaia di chilometri che separano le Marshall dalle Gilbert e arrivi proprio alla sua isola natia, se così la possiamo chiamare? Se era difficilissimo ipotizzare di riuscirci con l’assistenza di un buon pilota, privo però di strumenti di navigazione, è chiaro che la braca, per arrivare al destinazione da se stessa, senza equipaggio a bordo, dovrebbe godere di un favore addirittura soprannaturale. Insomma, una cosa che dal punto di vista statistico è fuori da ogni ragionevole probabilità.
E non è ancora finita. Supponiamo che l’imbarcazione, per un caso pressoché inconcepibile, non solo venga risparmiata dalle tempeste, ma giunga proprio davanti all’isola di Tarawa, quella e non un’altra: il viaggio, a quel punto, non è affatto terminato. Qualunque marinaio vi dirà che la cosa più difficile non è coprire la distanza fra due isole, per quanto lontane, ma entrare felicemente nel porto di un atollo corallino, ossia una laguna circondata da scogliere aguzze e pericolosissime. Di solito gli accessi alla laguna interna sono pochi e stretti, e ci vuole tutta la perizia di un esperto marinaio per infilarli, di solito approfittando dell’alta marea, sgusciando in mezzo ai taglienti banchi corallini che potrebbero aprire la fiancata di qualsiasi imbarcazione come se fosse una scatola di sardine. Innumerevoli navi sono affondate in questo modo, anche navi di grande stazza; figuriamoci una piccola imbarcazione melanesiana, fragile e leggera. Nel caso di Tarawa gli accessi alla laguna interna sono solamente due, ed entrambi presentano delle difficoltà, per cui non possono essere superati alla leggera da un pilota inesperto. Eppure immaginate un giorno di affacciarvi alla finestra e di vedere la "vostra" imbarcazione" che si dondola tranquillamente sulle acque della laguna, intatta, senza aver subito alcun danno, come se una mano provvidenziale l’avesse guidata con infallibile perizia marinaresca. Esiste solo un’altra via per cui essa avrebbe potuto raggiungere la laguna, cioè scavalcando letteralmente la scogliera corallina: il che è possibile, in particolari condizioni di mare e di vento, ma, ancora una volta, statisticamente quasi impensabile, a meno di preventivare che essa, scagliata oltre i coralli, vi resti poi incagliata e venga letteralmente demolita, pezzo a pezzo, dalle implacabili ondate di marea. Ma che arrivi intatta dopo aver preso una simile "scorciatoia" è cosa da fiaba, non da realtà.
Eppure tutto questo è realmente accaduto, e ne abbiamola certezza documentaria: ecco la storia. A Tarawa, nei primi anni del Novecento, viveva una coppia di coniugi inglesi, i signori Grant. Un giorno il marito, Peter, aveva raccolto un abilissimo costruttore di barche hawaiano, di nome David Kanoa, che un brigantino di passaggio aveva lasciato a terra tramortito, in seguito a una zuffa; il quale, per sdebitarsi, aiutò il signor Grant a costruire una magnifica imbarcazione. Particolare significativo: il cantiere di David non sorgeva sulle rive dalla laguna, come sarebbe stato logico e naturale, ma nel punto di passaggio della marea, fra l’oceano e la laguna stessa, nel punto dove più folti erano i palmizi. Motivo: egli era persuaso che una imbarcazione di nuova costruzione non deve "nascere" in vista del mare, perché, in quel caso, "non sarebbe più capace di trovare la terra" e potrebbe fare naufragio o smarrirsi nelle vastità dell’oceano. Se invece viene costruita in un luogo come quello scelto da lui, allora il "ricordo" del paesaggio ch’essa ha visto nell’atto di "nascere" rimane per sempre registrato nella sua "memoria", e di certo l’aiuterà a ritrovare la strada di casa in qualunque circostanza. Un giorno David Grant, divenuto a sua volta un abile costruttore di barche, avendo sentito dire che i tedeschi pagavano molto bene gli artigiani che si stabilivano nel loro possedimento delle Isole Marshall, si trasferì a Jaluit, ove purtroppo contrasse una malattia tropicale e morì, lontano da casa. Aveva però fatto in tempo a costruire una bella barca, secondo la tecnica insegnatagli da David Kanoa; barca che venne acquistata all’asta da un commerciante tedesco. Intanto era scoppiata la Prima guerra mondiale e il Giappone il 14 agosto 1914 inviò alla Germania un ultimatum, cui seguì una formale dichiarazione di guerra il 23 successivo. Nell’ottobre i fanti di marina giapponesi occuparono facilmente l’arcipelago, difeso da una guarnigione simbolica di 123 tedeschi delle Schultztruppen. Una delle prime cose che fecero gli occupanti fu di portare al largo e distruggere tutte le imbarcazioni private di proprietà germanica: e tale fu anche la sorte cui andò incontro la barca del defunto Peter Grant. Passò più di un anno. Un giorno del 1916 un funzionario coloniale britannico in servizio nelle Isole Gilbert, precisamente a Tarawa, fu testimone di un fatto che aveva dell’incredibile: nelle acque della laguna vide dondolarsi pacifica e illesa la barca costruita dal signor Grant a Jaluit, giunta fin là senza alcun equipaggio a bordo. Ulteriore stranezza: qualche giorno prima quel funzionario di nome Arthur Grimble (che sarebbe divenuto un apprezzato scrittore) aveva avuto una discussione con la vedova Grant, nel corso della quale ella gli aveva espresso la convinzione che presto la braca sarebbe tornata a casa, come le aveva insegnato David Kanoa, anch’egli a sua volta ormai defunto da anni. E la cosa straordinaria è che, quando Grimble ebbe occasione di rivedere la signora Grant e di parlare con lei di quell’incredibile ritorno, ella non mostrò la minima meraviglia, né alcuna particolare emozione, come lui si sarebbe aspettato: ripeté soltanto che per un vero marinaio non c’era nulla di cui stupirsi.
Dal libro di Arthur Grimble Ritorno alle isole (titolo originale: Return to the Islands, London, John Murray, Albemarle Street, 1957; traduzione dall’inglese di Bruno Oddera, Milano, Bompiani & C., 1958, pp. 75-77):
«Bene, scommetto che di tutte le barche da lui costruite, quella fu la più capace di ritrovare il proprio luogo di nascita», osservai io. «Figuratevi un po’! Persino il legname con il quale doveva essere fatta arrivò galleggiando in quel modo di sua iniziativa, e addirittura dalla California!». A dire il vero, mi aveva annoiato a morte quel suo insistere sul tasto del "dannato governo"; non faceva che prenderlo e mi sarebbe piaciuto sentire da lei una musica un po’ diversa, se possibile. Ma, alla mia presa in giro, si limitò a rispondere: «È proprio quello che mi sono detta io stessa», e poi, dopo un lungo silenzio: «Sento che TORNERÀ, uno di questi giorni, anche se David è morto e sepolto».
«Bene, sarà meraviglioso», le dissi, con pesante ironia.«è esattamente quello che mi occorre [cioè una barca d’altura]… anche perché non costerà un centesimo al governo». Ma ella sapeva bene quanto me come tutto ciò fosse assurdo. David si era recato con la sua imbarcazione a Jaluit, nelle isole Marshall, verso il 1902. A quei tempi, l’intraprendente amministrazione tedesca offriva ottimi impieghi agli artigiani come lui, ed egli ne aveva trovato uno immediatamente, non appena sbarcato. Ma era stato ucciso ben presto dalla dissenteria, poveretto, e un mercante tedesco del posto aveva acquistato all’asta il suo capolavoro.
Per conseguenza l’imbarcazione si era trovata laggiù, nel 1914, nella lontana laguna di Jaluit, a seicentocinquanta e più chilometri dal luogo in cui era stata costruita, quando la marina giapponese aveva occupato il gruppo delle Marshall. E tutti sapevamo che coda fosse accaduto allora. I giapponesi avevano portato al largo tutte le imbarcazioni dei mercanti di Jaluit, squarciandone poi le prue con cariche di fulmicotone e affondandole. Non esisteva neppur l’ombra di un motivo per cui la creazione di David dovesse essere sfuggita al fato dell’eterno riposo, rammentai alla vecchia, ma ella insistette con cocciutaggine: «Tornerà. Lo sento».
Indicibilmente assurdo, pensai., congedandomi da lei. Ma non posso aggiungere che il passare del tempo dimostrò quanto fosse infondata quella sua "sensazione". Non accadde nulla del genere. L’imbarcazione di David Kanoa riuscì effettivamente a trovare la via di casa. E senza che nessuno la pilotasse, stando a ciò che gli uomini poterono constatare con i loro occhi. La vidi io stesso, un mattino. Neppure tre settimane dopo che la signora Grant aveva parlato, galleggiare laggiù, nella laguna di Taraua, non lontano dalla sede del governo indigeno, aureolata dalla luce dell’alba.
Una ventina di anziani del villaggio si presentarono a confermare l’avvenuto riconoscimento da parte della vedova e fecero rilevare il marchio abituale di David, una grande "K" profondamente incisa nel dritto di poppa. L’imbarcazione era quasi piena d’acqua: il fulmicotone giapponese aveva squarciato la coperta di prua, ma, per non so quale miracolo, la prua era rimasta intatta. L’albero, per quanto traballante, rimaneva ancora in piedi. Stando ai nostri calcoli, lo scafo era riuscito a sopravvivere ad oltre dodici mesi di deriva (equivalenti a migliaia di miglia), al tormento dei venti imperversanti da ogni direzione delle correnti e delle controcorrenti, attraverso Dio solo sapeva quali remote solitudini del Pacifico centrale, per emergere poi da quello sconfinato deserto non soltanto in vista di Taraua, ma addirittura dentro la laguna stessa.
Dovevano esserci state più di cento milioni di probabilità contro una per quanto concerneva il ritorno di quell’imbarcazione, non pilotata da mano umana, da un punto lontano seicentocinquanta chilometri, alle vicinanze sia pure approssimative dell’isoletta minuscola ch’era il suo luogo di nascita. E l’immaginazione non riesce neppure a supporre quante potessero essere state le probabilità contro il "doppio miracolo", vale a dire in primo luogo il miracolo del ritorno e, in secondo luogo, la meraviglia del’ingresso in porto senza alcun incidente. Lungo tutti i trentadue chilometri della barriera di rombanti scogliere che le precludevano la laguna di Taraua, esistevamo due soli passaggi attraverso i quali un pilota umano sarebbe riuscito a farla passare illesa, piena d’acqua com’era. Essa riuscì per puro caso a infilarsi in uno di questi passaggi — illesa- e ad avanzare placidamente sospinta dall’alta marea, oppure tornò superbamente a casa sui giganteschi cavalloni lanciati all’attacco, al di sopra di diecimila frastagliate punte di corallo, ognuna delle quali, se l’imbarcazione si fosse trovata soltanto di pochi minuti in anticipo o in ritardo rispetto alla cresta dell’onda, l’avrebbe ridotta a pezzi nella ruggente risacca.
Questi sono i fatti. Li abbiamo riportati tali e quali sono stati narrati da Arthur Grimble (Hong Kong, 1888-Londra, 1956), il quale, per formazione mentale ma anche per la qualità di stimati ed efficiente funzionario coloniale, che prestò servizio, per anni, in svariati possedimento dell’Impero Britannico, non aveva alcuna propensione ai voli fantastici, ma era semmai un uomo coi piedi saldamente piantati in terra. Da parte nostra, non abbiamo alcuna spiegazione da proporre, anche saremmo tentati di avanzarne più d’una; ma, trattandosi di congetture sprovviste di qualunque supporto razionale, preferiamo tenerle per noi. Lasciamo pertanto che ciascuno rifletta su di un fatto così singolare, e tiri le proprie conclusioni.
E aspettate a dire, semplicemente, come pure verrebbe spontaneo: «Impossibile!». I fatti sono fatti, ed è cattiva filosofia mettersi a litigare con loro. I buoni filosofi realisti, come Aristotele e san Tommaso d’Aquino, ammoniscono a ragione che contra factum non valet argumentum, ossia non c’è chiacchiera che tenga se è in contrasto con la nuda realtà dei fatti.
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