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La scoperta delle sorgenti del Mississippi

Con i suoi 3.778 km di lunghezza e con i suoi oltre 3.320.000 kmq. di bacino idrografico, il Mississippi è il fiume più imponente dell’America Settentrionale e uno dei maggiori al mondo; eppure, ancora nel terzo decennio dell’Ottocento, nessuno ne aveva individuato con certezza le sorgenti. Tale onore sarebbe spettato a un italiano, il bergamasco Giacomo Costantino Beltrami, nato nel 1779 (e morto a Filottrano nel 1855), quindi cittadino veneziano, un esule politico che aveva lasciato l’Europa per sottrarsi alla polizia pontificia, dopo essere sfuggito, pare, a una condanna a morte in seguito ad alcune iniziative rivoluzionarie condotte nelle Marche, che all’epoca facevano parte dello Stato della Chiesa. Beltrami era massone, affiliato al Grande Oriente d’Italia fin dal 1808, e di tale sua appartenenza vi è traccia anche nei suoi scritti. Parla del Grande Architetto dell’Universo, ad esempio, in quello, famosissimo, nel quale narra come, il 31 agosto del 1823, giunse a scoprire, da solo, le sorgenti del grande fiume americano, da lui individuate nel lago Giulia – così chiamato in onore della nobildonna Giulia De Medici Spada, da lui conosciuta diversi anni prima e morta prematuramente, a soli trentanove anni, nel 1820 – oggi chiamato lago Itasca. Vi giunse, dopo essersi separato da due compagni di viaggio, e grazie al suo coraggio, alla sua tenacia e alla capacità di stabilire relazioni amichevoli con i Sioux — dei quali scrisse un vocabolario, così buono da essere ritenuto valido ancora oggi – e altre popolazioni indigene incontrate lungo il percorso, come i Chippewa, allora ancor padrone dei vasto territori delle Grandi Pianure. Era in compagnia di due soli esseri umani, un pellerossa e un meticcio, coi quali aveva pagaiato a bordo di una canoa indiana; e di nessun altro. Ecco il suo racconto (da: C. Beltrami, La scoperta delle sorgenti del Mississippi, Ed. Documenti Lombardi, in Luigi Tironi, Il mannello, Antologia di letture italiane e straniere antiche e moderne per la scuola media, Brescia, La Scuola, 1960, pp. 772-775):

Dopo cinque o sei miglia, sempre risalendo verso Sud, entrammo in un superbo lago, formato anch’esso dal fiume, e che non ha altri sbocchi che la sua entrata e la sua uscita. Ha forma di mezzaluna, un’isola graziosa ne adorna il centro, ed ha quasi 20 miglia di circonferenza. I selvaggi lo chiamano Pupasky-Wiza-Kang-aguen, vale a dire "Fine delle terre tremanti". L’etimologia del nome è molto esatta perché quasi tutto il paese percorso dopo il Lago dei Pini galleggia, per così dire, sull’acqua: il piede si affonda con la mota che schiaccia, ed essa riprende il suo consueto livello quando la pressione l’abbandona: il lago è a poco distanza dalle terre alte che separano le acque che cadono verso Nord da quelle che scendono verso Sud.

Vi passai buona parte della giornata e la notte seguente: avevano fatto buona caccia di anatre, che sono abbondanti e vi nidificano, e ne salammo diverse per prepararci qualche provvista delle quali spesso manchiamo. La mattina del giorno 28 riprendemmo la navigazione del fiume che ha il suo ingresso al Sud del lago. Sei miglia più avanti trovammo le sue sorgenti che scaturiscono in una piccola prateria, e solo delle canne circondano il piccolo bacino dal quale zampillano. Ci avvicinammo, in canotto, fino a 50 passi da esse.

Ci troviamo sulla terra più alta di tutta l’America Settentrionale, ove si eccettuino le montagne glaciali, sconosciute che si perdono nella problematicità delle regioni del Nord di questa terra e nelle vaghe congetture di compilatori di carte geografiche. Eppure, tutto qui è pianeggiante, e questa collina altro non è, per così dire, che un rialzo formato per servire da osservatorio,

Vagando con lo sguardo intorno si vedono le acque scendere a Sud verso il Golfo del Messico, a Nord verso il Mare Glaciale, ad Est verso l’Atlantico e ad Ovest verso il Pacifico.

Un grande pianoro corona questa altura estrema e, ciò che è più sorprendente, un lago ne occupa il centro. Come è formato? Da dove vengono le sue acque? Bisogna chiederlo al Grande Architetto dell’Universo: gli uomini possono darvi solo delle supposizioni e quelle dei sapienti, a volte, son le più deboli, le più cariche di errori, le più presuntuose; e anche se non comprendon nulla dei diversi fenomeni che si offrono ai loro occhi bisogna ch’essi dicano però di aver tutto capito. Quanto a me vi dirò, dapprima, ciò che io vedo materialmente, ed in seguito vi offrirò le induzioni che la ragione naturale mi suggerisce. Questo lago non ha alcuna apertura, ed il mio occhio, che è abbastanza penetrante, non ha potuto scoprire in alcun punto dell’orizzonte più chiaro, alcuna terra che si alzi al di sopra del suo livello: tutte sono, invece, di parecchio inferiori. Ho fatto lunghe corse nelle vicinanze, non ho potuto scoprire tracce vulcaniche e le rive ne sono anch’esse prive: ciò non di meno le sue acque ribollono al centro e tutte le mie corde, i miei bastoni, non sono stati sufficienti a raggiungerne il fondo: ciò che può essere indizio ch’esse pollano da qualche gorgo profondo la cui cavità si perde nel seno della terra. La loro limpidezza è quasi una priva che esse si purificano filtrando in lunghe sinuosità sotterranee; il tempo potrebbe forse aver cancellato le tracce esteriori e superficiali di un vulcano e il bacino del lago potrebbe, nondimeno, esserne il cratere. Dove vanno le sue acque? Penso sia più facile la risposta, per quanto ad esse non si trovi sfogo apparente. Avete visto le sorgenti del fiume che ho risalito fin qui: si trovano precisamente ai piedi di questa collina e filtrano, in linea diretta dalla riva settentrionale del lago, verso il centro: esse formano le sorgenti del Fiume Insanguinato. Dall’altro lato, verso Sud, e anch’esse ai piedi della collina, altre sorgenti formano un piccolo bacino di circa ottanta passi di circonferenza. Queste acque filtrano anch’esse dal lago e sono le sorgenti del Mississippi.

Il lago dunque fornisce le sorgenti più meridionali del Fiume Rosso [Red River], che chiamerò ormai col suo vero nome di Fiume insanguinato [Bloody River], e le sorgenti più settentrionali del Mississippi: le scaturigini sconosciute dell’uno e dell’altro. Il lago ha circa tre miglia di circonferenza: è fatto a forma di cuore e parla all’anima. La mia ne  è rimasta commossa. Era giusto toglierlo dal silenzio  in cui la geografia, dopo tante spedizioni, lo lasciava ancora, e farlo conoscere al mondo in maniera chiara. Gli ho dato il nome  di quella rispettabile Dama la cui vita — come disse la sua illustre amica Contessa di Albany — fu "un corso di morale in atto, e la morte una calamità per tutti coloro che avevano la fortuna di conoscerla"; e la cui memoria si rinnova incessantemente con la venerazione e il dolore di tutti coloro che ne poterono apprezzare la bontà e la virtù. Ho chiamato il lago "lago Giulia" [Julian Lake], e le sorgenti dei due fiumi "Sorgenti Giulie del Fiume Insanguinato" e "Sorgenti Giulie del Mississippi", quest’ultimo, in lingua algonquine significa Padre dei Fiumi. Credetti di veder le ombre di Colombo, di Vespucci, dei Caboto, di Verrazzano, ecc. assistere con gioia alla grande cerimonia e felicitarsi che un loro compatriota venisse a risvegliare, con nuove scoperte, le memorie dei servigi ch’essi hanno reso al mondo intero con il loro talento, le loro imprese, la loro virtù. Il mio selvaggio e il mio "Bois-Brulé" [in francese, legno bruciato: meticcio] mi avvertirono, per la terza volta, che la tavola è servita: occupato da tutto quel che la natura ha qui di sublime, l’anima penetrata dai sentimenti che questi luoghi solitari e venerabili ispirano, e da quelli che il nome che ho dato loro risvegliano in me, dimenticavo ciò che pure è dovuto alla mia esistenza.

Le sorgenti Giulie del Mississippi si gettano, dopo un percorso di circa due miglia, in uno stretto canale, nel Lago della Tartaruga: se non avessi temuto di avventurare il canotto attraverso canneti impenetrabili che ne impediscono il trasporto e il passaggio, avrei cominciato la navigazione del fiume dallo stesso punto dove scaturisce. Non posso tralasciare di guardare e di ammirare anche i minimi oggetti che circondano questo luoghi: il fiume maestoso, che abbraccia un mondo e che rugge, nelle sue cateratte, non è alle sorgenti che una Naiade timorosa che scivola furtiva tra i rosolacci e i canneti che ne impacciano il cammino. Questo famoso Mississippi, il cui corso, a quel che si dice, è di 1200 leghe e che vede navigare nelle sue acque navi che "steam-boats" [navi a vapore] della lunghezza di una fregata, non è alla sorgente che ruscelletto di acqua cristallina che si nasconde fra i giunchi e il riso selvatico i quali paiono insultare, umiliare la sua nascita. La mia immaginazione, che aveva creduto di vedere scoscese montagne versare a grandi fiotti le acque di questo fiume regale, rimase colpita da stupore di non trovare invece che un paese eternamente piatto e fiottante su acque sotterranee.

L’impresa di Costantino Beltrami, anche se rimase un exploit isolato nella storia delle esplorazioni dell’America Settentrionale, è stata, comunque, un’impresa di tutto rispetto, tale da inscriversi a lettere maiuscole nel libro delle scoperte geografiche. Il suo autore non può essere paragonato, per esempio, a un Antonio Raimondi, del quale abbiamo già parlato, che dedicò buona parte della sua vita a studiare e ad esplorare in lungo e il largo il Paese americano che aveva eletto a sua seconda patria, il Perù; e tuttavia non solo in quella occasione, ma anche nel corso di altri viaggi esplorativi compiuti nel Messico e in America Centrale, egli confermò di aver la stoffa sia del vero esploratore, sia del naturalista, egualmente interessato a ogni aspetto del paesaggio, della flora, della fauna, dei popoli e dei loro idiomi, culture e civiltà; senza contare le doti umane che ne fecero un esploratore gentile, sempre amichevole verso le popolazioni indigente, sempre umano e comprensivo, e per nulla condizionato o appannato da pregiudizi di tipo ideologico. Tutto l’opposto, tanto per fare un esempio, di Henry Morton Stanley, il quale, esplorando il bacino del Congo, non esitò a farsi strada a colpi di arma da fuoco e ad avanzare su per il grande fiume africano, come il comandante di un piccolo esercito sul piede di guerra, spazzando via senza pietà chiunque osasse ostacolare il suo cammino. Una figura, perciò, quella di Costantino Beltrami, di cui il popolo italiano può andare doppiamente orgogliosa: non sono stati poi molti gli esploratori che hanno saputo unire la fermezza necessaria per organizzare una spedizione nell’ignoto, con l’umanità e la dolcezza nei rapporti personali con gli uomini. L’Italia ne può vantare diversi, fra i quali Pietro Savorgan di Brazzà, il grande scopritore e colonizzatore dell’Africa occidentale; ma altre nazioni non possono dire altrettanto di se stesse, se non in misura piuttosto limitata.

Proviamo a riflettere su quanto l’Italia abbia dato all’umanità, anche solo sotto il profilo delle conoscenze geografiche, senza parlare delle arti, delle scienze, del pensiero, e anche solo limitandoci all’emisfero occidentale e al continente americano. Da Cristoforo Colombo, che ha scoperto l’America e vi ha condotto ben quattro spedizioni, ad Amerigo Vespucci, che le ha dato il nome; da Giovanni Caboto, che giunse sulle coste del Canada solo cinque anni dopo che Colombo era arrivato alle Bahamas, al figlio Sebastiano Caboto, che si spinse verso mezzogiorno, nel 1525, fino al Rio de la Plata; per non parlare dell’alpinismo, da Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, che nel 1897, insieme a Umberto Cagni, scalò la vetta inviolata del Monte Sant’Elias, a Riccardo Cassin, che nel 1961 scalò la gigantesca parete sud del Monte McKinley (dal 2015 ribattezzato Monte Denali, per decisione del presidente Barack Obama, ripristinando l’antica denominazione indigena), entrambi in Alaska: l’elenco sarebbe lunghissimo e quanto mai glorioso. Fino a qualche decennio fa si teneva viva nei bambini e nei ragazzi, e giustamente, la memoria di queste straordinarie imprese; libri, enciclopedie, raccolte di figurine, fumetti, programmi televisivi e film contribuivano a far sì che fossero conosciute e costituissero un patrimonio culturale condiviso da tutti gli italiani. Nei libri di lettura delle elementari e nei testi antologici delle medie si parlava di Odorico da Pordenone, Marco Polo, di Colombo, Antonio Pigafetta, Alessandro Malaspina, Giovanni Battista Belzoni, Carlo Piaggia, Vittorio Bottego, Luigi Maria d’Albertis, Giacomo Bove, Elio Modigliani, della spedizione polare di Umberto Nobile, e poi ancora di Alberto Maria De Agostini, fino alle più recenti esplorazioni di Maurizio Leigheb, specie nella Nuova Guinea, e le eccezionali imprese alpinistiche di Walter Bonatti in ogni angolo del globo terracqueo. Perché si è lasciata cadere questa tradizione? Oggi i nostri giovani non sanno quasi nulla di tali cose: si teme forse di alimentare una rinascita dello spirito nazionalista? Ebbene: se conoscere e amare i meriti della propria patria è una forma di nazionalismo, allora noi la sottoscriviamo in pieno e siamo convinti che tale tradizione dovrebbe essere ripresa e rinverdita, perché un popolo non va da nessuna parte, ma è arrivato al capolinea, se perde la memoria di se stesso e delle grandi imprese dei suoi uomini migliori, per le quali potrebbe e dovrebbe andare a testa alta nel consesso delle nazioni.

Due parole sulla donna cui Beltrami volle dedicare la scoperta del lago sorgentifero del Mississippi. Giulia dei Medici, imparentata con la famiglia granducale, nacque a Firenze il 20 settembre 1780; sposò diciassettenne il conte Giovanni Girolamo Spada, studioso di agraria; ebbe otto figli e si segnalò, oltre che come benefattrice e madre amorevole, anche come eccellente pittrice e musicista; morì improvvisamente a Macerata il 1° aprile 1820. Il marito affranto la seguì appena un anno dopo.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by NastyaSensei from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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