
Mai un uomo ha parlato così!
16 Ottobre 2016
Andiamo verso una post-umanità che, credendosi libera, sarà schiava delle Tenebre
18 Ottobre 2016È la sofferenza che dischiude la porta della verità, se non altro perché spinge a farsi delle domande più profonde sul senso della vita e su tutto ciò che, in condizioni normali, o relativamente felici, si tende a dare per scontato, mentre scontato non è per nulla?
Se lo sono chiesto in tanti, e in moltissimi ne hanno fatta l’esperienza diretta; fra gli altri, Friedrich Nietzsche, giovane professore di filologia, carico di problemi di salute, e protagonista di precoci e scioccanti disillusioni, alle quali ha reagito elaborando la sua filosofia dell’Amor fati e del Superuomo, che, attraverso la volontà di potenza, ne è il naturale prolungamento e il logico, forse necessario (date le premesse), ampliamento.
La cultura moderna si fonda su una patologia: la sindrome dell’inganno. Teme di essere ingannata; vede dappertutto gli indizi di un grande, diabolico, inafferrabile inganno, come una tela di ragno stesa sul mondo intero e sulle profondità dell’io; di conseguenza, la sua uniforme obbligatoria consiste nel tenersi sempre in guardia, perennemente diffidente, ben decisa a non lasciarsi ingannare una volta di troppo.
In fondo, la cosa è del tutto logica. La cultura dell’inganno nasce dalla cultura del sospetto, teorizzata da Friedrich Nietzsche, la quale, a sua volta, scaturisce da una analisi impietosa, ma, tutto sommato, condivisibile della condizione umana; ciò che non è condivisibile, sono le conclusioni. Secondo Nietzsche, la grande maestra della vita è la sofferenza: essa dischiude ulteriori orizzonti e suggerisce domande più profonde; in altre parole, rende gli uomini più autentici e più consapevoli, perché li sbarazza del superfluo e li priva di tutte le infinite illusioni con le quali, prima, nascondevano a se stessi la realtà delle cose. L’esperienza della sofferenza li rende più forti, più "sani", più capaci di guardare alla vita in maniera disincantata, ma, nello stesso tempo, rende anche possibile, e perfino doveroso, amarla ancora di più, nel senso di accettarla integralmente e incondizionatamente. Dunque era questa, la vita? Ebbene, ancora, e ancora, e ancora… E così, la dottrina dell’Amor fati si lega a quella dell’Eterno ritorno: perché, per Nietzsche, le cose, nella loro necessità, ritorneranno infinitamente, e la vera consapevolezza consiste proprio in questa accettazione "eroica" della loro necessità e della loro incessante ripetizione. Le conclusioni, però, non ci paiono condivisibili, e, del resto, non sono nemmeno sufficientemente argomentate e giustificate. Di questo, però, parleremo dopo; per ora, limitiamoci a considerare ciò che egli afferma a proposito della sofferenza e del soffrire.
Scrive dunque Nietzsche in Nietzsche contra Wagner, Epilogo, 1 (F. Nietzsche, Ecce homo. Nietzsche contra Wagner. Poesie e scelta di frammenti postumi, 1888-1889, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1977, pp. 148-149):
Spesso mi sono chiesto se non ho, verso gli anni più difficili della mia vita, un più profondo debito che per qualsiasi altro tempo. Come mi insegna la mia più intima natura, riguardato dall’alto e nel senso di una GRANDE economia è anche il più vantaggioso in se stesso – non soltanto dobbiamo sopportarlo, dobbiamo anche AMARLO… "Amor fati": è questa la mia più intima natura. – E per quanto riguarda la mia lunga infermità, non le devo infinitamente di più che alla mia salute? Le devo una SUPERIORE salute, una salute che da tutto ciò che non uccide è resa più forte! – LE DEVO ANCHE LA MIA FILOSOFIA… Soltanto il grande dolore è l’estremo liberatore dello spirito, essendo esso il maestro del GRANDE SOSPETTO, che di ogni U fa un X, una vera e propria X, ossia la penultima lettera prima dell’ultima… Soltanto quel grande dolore, quel lungo, lento dolore in cui siamo per così dire bruciati con legno verde, quel dolore che si prende tempo – costringe noi filosofi a scendere nel nostro ultimo abisso e a sbarazzarci di ogni fiducia , di ogni benevolenza, di ogni velo, di ogni addolcimento, di ogni mezzo termine, in cui forse per l’innanzi avevamo posto il nostro sentimento umano. Dubito che un siffatto dolore "renda migliori"; ma so che ci FA PROFONDI… Sia che si impari a opporgli la nostra superbia, il nostro sarcasmo, la nostra forza di volontà, e che si agisca a somiglianza di quell’Indiano che, per quanto sottoposto ad atroci tormenti, si rivale sul suo tormentatore con la malignità della propria lingua; sia che dinanzi al dolore ci si ritragga in codesto nulla, nell’arrendersi, nel dimenticarsi, nell’estinguersi, muti impietriti e sordi: sempre da tali lunghi pericolosi esercizi di dominio su se stessi si esce come un altro uomo, con alcuni punti interrogativi IN PIÙ, – soprattutto con la VOLONTÀ di porre, da quel momento in poi, domande più fonde, più inflessibili, più dure, più malvagie, più silenziose di quanto mai non siano state poste fino ad oggi sulla terra… La fiducia nella vita è morta, la vita stessa è divenuta un PROBLEMA. – Ma non si voglia credere che in tal modo si sia necessariamente divenuti menagrami e barbagianni! Persino l’amore alla vita è ancora possibile – solo che si ama IN MANIERA DIVERSA… È l’amore per una donna su cui abbiamo qualche dubbio…
Il ragionamento di Nietzsche vuole essere perfettamente immanentistico e "laico", secondo la prospettiva generale di tutta la sua filosofia. Eppure, egli incomincia affermando che il tempo della nostra sofferenza, noi non soltanto dobbiamo sopportarlo, dobbiamo anche AMARLO… ma da dove proviene quel "dovere", che ricorda tanto da vicino il "tu devi" dell’etica kantiana? Nietzsche un kantiano! Possibile? Eppure, sembra proprio di sì: e non solo kantiano, ma anche stoico (dobbiamo sopportare la sofferenza) e perfino un po’ cristiano (dobbiamo anche amarla…). Certo, contro quest’ultima eventualità Nietzsche insorge e si premunisce, per così dire, in anticipo: Dubito che un siffatto dolore "renda migliori", si affretta a dire, e pone tra virgolette l’espressione "renda migliori", come a sottolineare ulteriormente la distanza da un’interpretazione cristianeggiante del suo assunto: non per niente, egli è il maestro del sospetto. Bisogna diffidare di chi afferma di essere "divenuto migliore" passando attraverso la sofferenza; infatti aveva sostenuto, poco prima, che l’esperienza del dolore, quando è intensa, aiuta a sbarazzarsi di tutte le illusioni, e anche della benevolenza. E, qualora il concetto non fosse abbastanza chiaro, qualora non fosse sufficientemente chiaro che la sua è una filosofia ateistica e anticristiana, precisa, subito dopo, che la volontà, dopo l’esperienza della sofferenza, consente di porre, da quel momento in poi, domande più fonde, più inflessibili, più dure, più malvagie, più silenziose. Appunto: più malvagie: che nessuno pensi mai ad una filosofia semi-cristiana, solo perché esorta ad amare la sofferenza!
Tutto questo, però, somiglia molto ad una excusatio non petita, ad una giustificazione non richiesta. Non solo: è incoerente e irragionevole. Perché mai bisognerebbe amare la sofferenza? Non è già abbastanza duro doverla sopportare? In fondo, non si capisce bene perché, per il "pagano" Nietzsche, uno non abbia il diritto di uccidersi, quando il dolore è troppo grande, quando raschia troppo a fondo nelle carni e nello spirito. Un antico greco, un antico romano, avrebbero fatto così. E invece, non solo non si lascia nemmeno intravedere la possibilità e la liceità morale del suicido, ma si afferma che il dolore va vissuto sino in fondo, e che va amato; che va amato infinite volte, e che bisogna essere pronti a viverlo all’infinito, nell’eterno ritorno di ogni cosa. Ma tutto questo non è solo incoerente e irragionevole (e non basta dire: tu devi, come pretendeva Kant, per farsene una ragione); è anche gratuito, cioè filosoficamente non giustificato e non necessario, anzi, perfino contraddittorio. Nietzsche, che fa il panegirico dell’illuminismo e che si considera un illuminista, dovrebbe darci delle buone ragioni — delle buone ragioni razionali, s’intende — per il dovere di accettare e amare la sofferenza; altrimenti, si tratterebbe di una specie di masochismo fine a se stesso. Lui per primo dice che, da un’esperienza del genere, non si esce migliori, ma semplicemente più profondi. Ora, è profondo un pensiero che ha compreso se stesso; è profonda una filosofia che sa fornire delle ragioni per essere ritenuta ragionevole. Pascal dice che il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce; ma Pascal ha il diritto di dirlo, perché è cristiano.
Con quale "diritto", con quale "ragione", Nietzsche se ne esce a dire che la sofferenza, quanto più è radicale e spietata, tanto più va accolta con amore? Forse perché ci rende più profondi? Ma questa è una ragione di tipo extra-razionale: infatti, pone la ragionevolezza (l’essere più profondi) come il fine, ma non la giustifica come mezzo. Oppure è possibile arrivare a una conclusione ragionevole, passando attraverso un sentiero che è extra-razionale? In realtà, hanno ragione quanti accusano la filosofia nietzschiana di irrazionalità: troppi passaggi, in essa, non sono adeguatamente supportati dal ragionamento logico: proprio i passaggi fondamentali. Molti passaggi secondari sono argomentati benissimo e dimostrati con raffinata eleganza; ma per quelli fondamentali, non si può dire altrettanto. E questo, senza dubbio è un passaggio fondamentale.
A nostro parere, vi è qui un riflesso, non giustificato nel nuovo contesto speculativo, della filosofia di Schopenhauer: il superamento della volontà di vivere, che comporta il dolore, mediante l’ascesi. Vi è un residuo di ascetismo, in Nietzsche, assai più di quanto egli sia disposto ad ammettere; lo stesso Zarathustra è, che gli piaccia o no, un personaggio profondamente ascetico, che, per molti aspetti, pare un santo eremita cristiano uscito fuori dal deserto della Tebaide. Parla come un ateo, come un ribelle, come un profeta di questo mondo, ma adopera lo stile, le immagini, il modo di ragionare di un profeta dell’altro mondo. Dice di amare la vita, questa vita, e solo questa vita, ma con una carica di ascetismo, di castità, di pudicizia, che conservano un sentore pretesco. Nulla di strano: figlio di un pastore protestante, con una infanzia imbevuta di letture della Bibbia, sarebbe strano che non vi fossero tracce, nella sua opera matura, di una simile matrice. Resta comunque la domanda: perché amare la vita, se la vita è dolore? Schopenhauer, almeno, indica la via per uscire dal dolore, e sia pure in maniera imperfetta e temporanea; ma Nietzsche, no: Nietzsche dichiara che il dolore è formativo, che è necessario, che va vissuto sino in fondo e che va perfino amato; e dice di averlo amato, egli stesso, nella sua vita privata, come un predicatore dell’amore universale che riveli di essersi fatto vegetariano per non uccidere gli animali. Eppure, ci vuole una buona ragione, ci vogliono delle ragioni "forti", per esortare ad amare la sofferenza. Quali sono queste ragioni, nel contesto della filosofia di Nietzsche, e, soprattutto, nella sua prospettiva illuminista, materialista e immanentista?
Il problema è che, una volta esclusa e negata la trascendenza, la sofferenza diviene come un ordigno caricato ad orologeria: prima o poi dovrà esplodere; e, se non troverà uno sfogo, la sua esplosione diverrà ancor più devastante, e spazzerà via per primo colui che lo maneggia. Nietzsche sostiene che, dopo essere passati attraverso la prova della sofferenza, la fiducia nella vita è morta, la vita stessa è divenuta un PROBLEMA. Eppure, dice anche che, nondimeno, la si può ancora amare: però in maniera diversa. Diversa, in che senso? A quanto è dato di capire, nel senso di più in profondità. Benissimo; però torniamo a domandare: e perché mai, date le premesse, ciò dovrebbe essere un bene, o, comunque, un valore? Che cosa giustificherebbe l’esosa richiesta di accettare ed amare il dolore? Se la vita è diventata un problema, ciò significa che l’amore per la vita non potrà mai più essere spontaneo, ma solo il frutto di una faticosa, difficile conquista. E perché bisognerebbe esporsi ad ulteriori difficoltà e fatiche, quando è già abbastanza duro anche solo sopportare la sofferenza? Nel suo immanentismo, la filosofia di Nietzsche non può dare una risposta a questo interrogativo. Egli ha tentato di dare una risposta pratica nella sua vita, ma il tentativo è fallito: non è riuscito a padroneggiare le forze che lui stesso aveva evocato.
Il fatto è che a Nietzsche, inevitabilmente, manca il senso del mistero: non vede che quello della sofferenza è un mistero. Non un problema, che si potrà un giorno risolvere (secondo la distinzione di Gabriel Marcel), ma proprio un mistero: una realtà che non è opposta alla ragione, ma che la supera e di molto: di quanti il cielo sovrasta la terra. Chiunque pretenda di affrontare il tema della sofferenza prescindendo dalla categoria del mistero, o è un impostore, o non sa ciò che sta facendo. E questo vale anche per il cristianesimo: Gesù, infatti, non è venuto a spiegare la sofferenza, ma a mostrare la si possa e la si debba vivere: confidando in Dio, offrendola a Dio, e chiedendogli, nello stesso tempo, l’aiuto necessario per reggerne il peso. Ma per una filosofia ateista, la sofferenza è un enigma, una sfida e una beffa: è qualcosa che non si lascia spiegare, né, tanto meno, amare. Se Nietzsche dice che la si deve amare, lo dice soltanto, ma non ne dà una ragione. Ed ecco l’inganno…
Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio