
Un eroe del nostro tempo: Karl Erhlich, comandante dell’Ergenstrasse
11 Settembre 2016
Che fare, in un mondo alla rovescia?
12 Settembre 2016Factum infectum fieri nequit, oppure: Factum infectum fieri non potest, ovvero dal teatro di Plauto al linguaggio giuridico moderno, il passo è stato lungo in termini cronologici, ma breve in termini logici e concettuali Il fatto compiuto non può considerarsi come non avvenuto: gli effetti di un determinato atto non possono essere cancellati; si può procedere ad un risarcimento (delle vittime), ma quel che è stato fatto rimane incancellabile, e, se ha prodotto effetti negativi, questi ormai non sono suscettibili di modifiche. Inoltre, non si può contestare la legittimità di coloro che hanno agito in base ad un provvedimento illegittimo, ma non illegale, perché essi hanno solo eseguito il lavoro affidato loro, e non portano la responsabilità dell’azione in se stessa.
Un nostro amico citava il detto latino per ricordarci che un evento, una volta che sia avvenuto, produce degli effetti che non possono essere tolti, né cambiati: e, pertanto, in base al principio di realtà, non si può agire come se quell’evento non vi fosse stato, come se le cose fossero rimaste impregiudicate. Mano a mano che procediamo nella nostra vita, facciamo delle scelte; e, ad ogni scelta che abbiamo fatto, è come se uno dei sentieri che avremmo potuto percorrere si chiudesse, per sempre. Noi non potremo più ritornare indietro e imboccare di nuovo quel sentiero, se dovessimo accorgerci di aver commesso un errore di valutazione: perché, nel frattempo, gli effetti di quella scelta, o di altre fatte successivamente (nel caso che sia trascorso molto tempo dall’evento originario) hanno prodotto, a loro volta, talmente tante modificazioni nella mappa potenziale della nostra vita, da rendere di fatto impossibile esperire alcune possibilità che, prima, ci erano aperte, in un modo o nell’altro. I sentieri che non abbiamo esplorato si ricoprono di erbacce, diventano impraticabili, scompaiono addirittura sotto il manto della fitta vegetazione; quelli che abbiamo percorso, a un certo punto ci hanno condotti in una direzione tale, dalla quale non potremmo più ritornare indietro, nemmeno se lo volessimo.
A sua volta, il concetto enunciato da Plauto si ricollega ad un principio filosofico di carattere più generale, che è stato espresso così da san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae: Nemmeno Dio, che è onnipotente, potrebbe fare sì che ciò che è stato, non sia mai stato. Ne abbiamo già discusso a suo tempo, in un apposito articolo di parecchi anni fa; qui, pertanto, ci limiteremo ad alcune considerazioni essenziali. L’adagio Factum infectum fieri nequit esprime un concetto che è condivisibile, anzi, perfino ovvio, a patto che sia applicato per entrambi i corni del dilemma: i sentieri che abbiamo tralasciato e oltrepassato, rendendoli, di fatto, non più praticabili, ma anche la realtà dell’evento originario, ossia il sentiero che abbiamo effettivamente percorso, e che non possiamo fingere di non aver percorso.
Proviamo a spiegarci meglio: le conseguenze di un determinato evento sono incancellabili: se, per aver voluto spingere il nostro cavallo a saltare una siepe troppo alta, ne abbiamo provocato la caduta, e ci siamo spezzati il filo della schiena, riportando una invalidità permanente, niente e nessuno potrà modificare tale stato di cose, per quanto possiamo, poi, esserci pentiti della nostra avventatezza, e sinceramente rammaricati di non essere stati migliori giudici di ciò che era possibile fare, e di ciò che non lo era. Tuttavia, nello stesso tempo, proprio perché non è più possibile prescindere dalle conseguenze di quanto è accaduto, a maggior ragione non si può, non sarebbe giusto e non sarebbe onesto, rimuovere quell’evento originario e fare come se non vi fosse stato. Vale a dire che la nostra fedeltà nei confronti di ciò che è stato, e di ciò che siamo stati insieme ad esso, e a causa di esso, deve valere rispetto a ciò che è stato, tanto quanto il nostro ossequio di fronte al principio di realtà deve impedirci di ignorare quello che non è stato, il sentiero (o i sentieri) che non abbiamo percorso.
Nel caso dell’esempio appena fatto: è inutile rimpiangere di non aver potuto fare questa o quella cosa, che avrebbe richiesto una schiena dritta e un fisico intatto e prestante: dobbiamo assumere, nello svolgimento della nostra vita, le conseguenze di quella imprudenza di tanti anni fa. Tuttavia noi possiamo e, anzi, dobbiamo considerare che, se oggi siamo quello che siamo, ciò accade perché siamo stati quello che siamo stati e abbiamo fatto quelle esperienze, compresa quella della caduta, dell’incidente, dell’invalidità. Senza quegli eventi, noi saremmo, oggi, diversi: come dice Petrarca, saremmo in parte altri uomini, da quelli che siamo in effetti. Le esperienze esistenziali, quanto più sono forti, tanto più sono, o, almeno, possono essere, formative: è da esse che s’impara qualcosa, se si è capaci d’imparare. Quanti uomini e donne sono diventati grandi, attraverso il buio della solitudine e della sofferenza? Quanti hanno trovato se stessi, allorché circostanze dolorose li hanno strappati alla vita di prima e li hanno costretti a porsi a tu per tu con la parte più profonda della loro natura?
Di solito, l’aforisma di Plauto viene inteso nel senso che non si possono togliere le conseguenze di un determinato evento, insomma che bisogna inchinarsi al principio di realtà e accettare il fatto che la freccia del tempo procede dal passato verso il futuro, giammai dal futuro verso il passato; e nient’altro. Secondo il nostro punto di vista, questa prospettiva è, quanto meno, incompleta. Sì: non si può prescindere dal principio di realtà, a meno di voler finire come don Chisciotte, che scambia dei mulini a vento per altrettanti giganti, tale è la sua smania di avventure, di gloria e di giustizia; ma siamo sicuri che il principio di realtà sia qualcosa di interamente, esclusivamente passivo? Che consista solo nel dire "sì" a ciò che avviene e a ciò che è avvenuto? Non si dovrebbe articolare meglio quel "sì", per render conto, in maniera più adeguata e più completa, della immensa complessità della vita, anche solo considerata da un punto di vista fisico, cioè dal punto di vista del principio entropico? Il divenire consisterebbe unicamente in un aumento del disordine all’interno di uno stato fisico: è tutto qui, non c’è null’altro di cui rendere conto?
A noi sembra che, considerando le cose in questo modo, si perda di vista un fattore essenziale del reale: la sua natura intimamente dinamica, complessa e auto-rigenerante. Dinamica, perché le cose evolvono in continuazione e lo stato di quiete perfetta non esiste; complessa, perché nessuno, quand’anche possedesse una vista d’aquila e un cervello potente come un calcolatore elettronico, sarebbe capace di cogliere o di prevedere tutte le possibili combinazioni, interazioni e conseguenze di ogni singolo evento e di ogni possibile scelta; auto-rigenerante, perché un sistema fisico, allorché subisce una alterazione, tende a ripristinare il precedente stato di quiete (relativa), e quindi il reale si struttura, si rompe e si ricompone incessantemente, secondo delle linee di frattura dalle quali tende ad emergere sempre un nuovo ordine, un ulteriore tipo di equilibrio. Insomma, anche il concetto di entropia è un concetto dinamico e relativo: dall’ordine si passa al disordine, ma dal disordine si forma sempre un novo ordine: relativo, s’intende, e non assoluto; ma pur sempre un ordine. Se, in un mazzo di carte mescolato a caso, s’incontrano tre carte che formano una sequenza, quello è pur sempre un nuovo ordine, sebbene di grado inferiore rispetto allo stato originario: quello del mazzo nuovo, nel quale tutte le carte erano disposte secondo una sequenza precisa. Il disordine assoluto, in altre parole, semplicemente non esiste.
Il discorso che stiamo facendo non è, come potrebbe sembrare, di carattere squisitamente teorico: ha dei risvolti pratici di notevole portata. Una persona è veramente tale, e non un semplice individuo, ossia un atomo smarrito nella folla, se e quando è capace di utilizzare tutti i mattoni, cioè le esperienze, della propria vita, belle e brutte, e tutte le scelte che si è trovata a fare in prossimità dei bivi esistenziali, per costruire l’edificio della propria personalità, per arricchirlo, per correggerlo, per modificarlo, per renderlo sempre più conforme al progetto originario al quale dovrebbe ispirarsi. Pertanto, chi getta via, o, per parlare con maggiore precisione, chi tenta di gettare via anche un solo mattone (perché la cosa, in realtà, è semplicemente impossibile), commette uno sfregio nei confronti di quel progetto, e compromette l’armonia dell’insieme. L’armonia della nostra vita dipende anche, e forse soprattutto (questo è un paradosso, ma solo apparente) dai momenti dolorosi, dalle scelte sofferte e dagli stessi errori che abbiamo commesso, purché poi ci siamo resi conto che erano tali, e, invece di persistere in essi, magari addirittura vantandocene — come non di rado si vede: ed è uno spettacolo atroce – abbiamo cercato di rimetterci sulla strada giusta. E questo perché l’armonia, come l’entropia, è un concetto dinamico: solo gli Angeli, forse, possiedono un’armonia prestabilita; gli esseri umani, no. Gli esseri umani, compresi i santi — anzi, vorremmo dire: soprattutto i santi — sentono nella carne la fatica di lottare ogni giorno, ogni ora, contro le mille e mille tentazioni di essere infedeli al progetto originario.
Ma che cos’è, infine – domanderà qualcuno — codesto progetto originario? Non è forse vero che ciascuno di noi si costruisce la propria esistenza, a partire dai materiali che possiede, come può e meglio che può, in base all’educazione ricevuta, all’ambiente, e, soprattutto, alla propria eredità biologica? Ecco: questo è uno dei tanti (cattivi) lasciti del positivismo: pensare che la nostra personalità, avanti l’esperienza, sia una tabula rasa, un foglio bianco. Si tratta di una ipotesi indimostrabile (non esiste la possibilità di dimostrarla, perché nessuno sa che cosa ci sia in noi, prima delle esperienze infantili) e un po’ furbesca, perché pretende di spiegare tutto, mentre, in realtà, non spiega proprio niente. Non spiega affatto perché noi diventiamo quello che diventiamo; non spiega perché il destino di due fratelli gemelli, cresciuti insieme, possa poi divenire così diverso e perfino opposto. Se noi fossimo solo la somma del nostro codice genetico, dell’ambiente e della educazione ricevuta, perché il loro destino non sarà sempre identico, come due equazioni matematiche perfettamente uguali?
Dunque: dicevamo che, per ogni essere umano, esiste un progetto originario; e che nella maggiore o minore fedeltà ad esso, come quella di un ingegnere chiamato a costruire l’edificio non già a casaccio, ma seguendo il progetto di un architetto, si realizza (oppure no) il passaggio da individuo a persona: da atomo indifferenziato e intercambiabile, ad essere unico e irripetibile, perché responsabile di se stesso, attraverso le proprie libere scelte. Ma chi è allora l’architetto che ha disegnato il progetto, il nostro progetto, visto che — lo abbiamo appena detto — nulla è possibile dire di ciò che noi siamo, anteriormente all’acquisizione dell’esperienza? Date le premesse, la risposta appare evidente: solamente Dio può essere un simile architetto; Lui solo può avere disegnato, per ciascuno di noi, un progetto esistenziale: che sarà, per forza di cose, perfetto, contemperando il massimo della giustizia (la nostra fedeltà verso di Lui, verso noi stessi e verso il mondo) e il massimo dell’amore (il massimo per noi, ovviamente: perché un massimo, per Dio, non esiste, essendo egli l’Amore senza misura, infinito e inesauribile). Ecco perché è così importante imparare a leggere i segni, imparare a prestare orecchio alla voce del Maestro interiore: per capire quale sia il disegno, perfetto, che Dio ha predisposto per ciascuno di noi, fin da prima che fossimo concepiti, anzi, fin da prima che il mondo cominciasse ad esistere.
Per poter udire quella voce, tuttavia, è necessario far tacere le altre voci, quelle inutili e moleste; per imparare a leggere i segni, bisogna liberarsi dall’inutile e ingombrante fardello delle cose futili, esteriori, che non ci danno alcun bene, ma, al contrario, ci allontanano sempre più da Dio e da noi stessi, accrescendo il nostro disordine e aumentando la nostra angoscia esistenziale. La prima cosa che si deve imparare, pertanto, nel processo di costruzione della propria persona, è quella di gettare fuori bordo tutta la zavorra che ci appesantisce, e che è un prodotto di secrezione dell’ego. Quando lo avremo fatto in misura significativa, allora, e solo allora, incominceremo a vederci chiaro; allora, e solo allora, incominceremo a dirigere i nostri passi nella direzione giusta, dopo aver vagato a lungo in mille giri inutili, come dentro un labirinto. A quel punto acquisteremo la leggerezza necessaria per staccarci un po’ da terra, per portarci un poco al di sopra della palude, nella quale giacevamo sprofondati, ma senza neanche rendercene conto: perché, per la rana, è cosa normalissima vivere e sguazzare in mezzo al fango; ma noi non siamo rane, quindi non dovremmo sprofondare in un modo di vivere contrario alla nostra natura, abbrutendoci e degradandoci. E innalzarci, sia pure di poco, al di sopra dello stagno, è indispensabile per incominciare a vedere chi siamo e dove dobbiamo andare.
Tutto il resto è solo chiacchiera inutile, sterile rivolta o deplorevole auto-commiserazione. Si prenda uno qualunque dei cosiddetti intellettuali moderni, compresi quelli che passano per "grandi": ci hanno aiutato ad intuire, anche da lontano, questa verità essenziale? Oppure si sono abbandonati alla chiacchiera inutile, alla sterile rivolta e alla deplorevole auto-commiserazione? Ciascuno può giudicar da sé, purché non si lasci influenzare dal coro celebrativo della cultura moderna: perché la modernità stessa è la malattia, e i giudizi che essa formula non potranno essere che auto-assolutori…
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