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A quali acrobazie sono costretti quanti vogliono fare di Nietzsche un maestro

Il caso di Friedrich Nietzsche è paradigmatico, perché compendia quelli di tanti altri scrittori e pensatori della tarda modernità: per poterne fare un maestro, i suoi ammiratori sono costretti a incredibili acrobazie intellettuali, le quali, peraltro, apparirebbero evidentissime ad essi per primi, se non facesse velo alla loro intelligenza il partito preso di chi non riesce nemmeno a immaginare che esista una verità diversa da quella ufficiale e politicamente corretta. A forza di sentir ripetere che costoro hanno segnato delle pietre miliari nella storia della cultura, e che il loro messaggio è fondamentale per capire l’uomo, per cui da esso non si può assolutamente prescindere, hanno finito per introiettare una sola certezza: che occorre andare a cercare in tutte le direzioni quegli elementi di plausibilità che possano suffragare l’assunto iniziale, ma giammai metterlo in discussione o anche solo esaminarlo seriamente da un punto di vista critico. Trasposto sul versante scientifico, sarebbe come se si assumesse una teoria per un fatto, e poi si andassero a cercare tutti gli elementi che possano sostenere la realtà di quel fatto, senza prendere in esame la possibilità che non di un fatto si tratti, ma, appunto solamente d’una teoria: il che, fra parentesi, è esattamente quel che si va facendo, e da decenni ormai, riguardo alla teoria evoluzionistica darwiniana. Tutto questo, però, è antiscientifico: equivale a porre l’ideologia prima e al disopra della scienza. Parimenti l’idolatria dei cosiddetti maestri della modernità: prima di tutto bisognerebbe vedere se, nella modernità, vi sia qualcosa che meriti di essere così tanto idolatrato; poi, se gli esponenti di quella cultura e di quel pensiero meritino effettivamente la qualifica di maestri, per quanto i loro nomi possano ricorrere continuamente nel contesto di una cultura auto-referenziale come quella odierna.

Se, per maestro, si intende un pensatore che abbia detto una parola illuminante riguardo alla strada da seguire, così dal punto di vista intellettuale, come da quello spirituale e morale, e non solamente uno che abbia denunciato errori, presunzioni, equivoci, che abbia demolito ipocrisie, che abbia messo a nudo falsità, senza, però, saper offrire nulla di solido e di costruttivo in luogo delle macerie così create, allora è ben difficile vedere in Nietzsche un maestro; come lo è vederlo in moltissimi esponenti del pensiero e della letteratura moderni, che pure vanno per la maggiore e che regolarmente, a cominciare dalla scuola e dall’università, vengono presentati ai giovani come se fossero circonfusi da un alone di eccelsa profondità e di superiore saggezza. Quell’alone, però, lo hanno fabbricato i critici e gli storici della modernità, i quali avevano, e hanno, tutto l’interesse ad accreditare una simile immagine, perché, così facendo, difendono e promuovono anche se stessi, le loro carriere, le loro cattedre, i loro libri, le loro riviste, i loro concorsi, le loro presenze ben pagate nei salotti televisivi politicamente corretti, magari al cospetto di una scolaresca adorante, lì condotta da qualche professoressa di filosofia o di lettere, del pari cresciuta nella ferma convinzione d’aver capito tutto, mentre non ha mai fatto altro, in tutta la sua vita e la sua carriera, che ripetere i luoghi comuni e gli stereotipi preconfezionati della cultura dominante.

Ed è interessante, anche dal punto di vista psicologico, vedere a quali acrobazie sono indotti gli adoratori dei "maestri" della modernità, per ottenere la quadratura del cerchio: ossia per ammettere che sì, in effetti Nietzsche, come altri, in fondo non ha fatto quella rivoluzione del pensiero che si proponeva di fare, ma che, nondimeno, anzi, proprio per questo (!), l’ha fatta, cioè ha saputo farla in ragione delle proprie debolezze concettuali e delle proprie insufficienze filosofiche. Che meraviglioso gioco di prestigio! Quale inesauribile inventiva nel giocare con le parole, e riuscire a trarre da certe premesse, delle conclusioni diametralmente opposte a ciò che vorrebbero la logica, il buon senso, la pura e semplice lingua italiana! E Nietzsche, si badi, pur con le sue contraddizioni speculative e insufficienze logiche, è stato, comunque, un pensatore di un certo rispetto, se non altro perché ha richiamato tutti a una maggiore serietà di fronte a certi pregiudizi sedimentati nel tempo; ma la stessa cosa non si può dire per tanti altri esponenti del pensiero moderno, e meno ancora per i loro buffi e lillipuziani adoratori, che, ai nostri dì, intasano letteralmente i licei, le università, le case editrici e i salotti televisivi, tutti intenti a fare splendidamente le mosche cocchiere di… altrettante mosche e formiche, che loro, però, s’immaginano essere state dei gagliardi stalloni o dei possenti elefanti!

Prendiamo, a titolo di esempio, la conclusione della monografia Guida a Nietzsche del germanista americano Joseph P. Stern (titolo originale: Nietzsche, 1978; traduzione dall’inglese di Libero Sosio, Milano, Rizzoli, 1980, pp. 152-154):

Heidegger aveva forse ragione quando dichiarò che l’opera di Nietzsche era "finis metaphysicae"? Nel filosofare di Nietzsche, e attraverso la sua stessa forma, vengono contestati e resi problematici una serie di argomenti metafisici tradizionali. Eppure, nonostante la forma in cui appaiono, questi argomenti non sono mai totalmente confutati; essi rimangono impliciti nella terminologia delle confutazioni. L’intenzione ultima di Nietzsche non era quella di distruggere la metafisica, bensì di creare un nuovo sistema, più attuale. In ciò, come in tutti i suoi progetti di ampio respiro, egli fallì: e penso che possiamo aggiungere: per fortuna. Non esiste una rivoluzione nietzschiana, bensì un modo nuovo di guardare al mondo — il suo mondo è il nostro — e un nuovo stile per descriverlo. Eppure EGLI È UN MAESTRO DEL PENSIERO MODERNO [la sottolineatura è nostra]: nessuna descrizione intrapresa con qualche intensità lascia le cose come sono, e meno di tutte quella di Nietzsche.

Se ho parlato dell’insuccesso dei tentativi di Nietzsche di dare una giustificazione estetica del mondo, ciò che avevo in mente non era solo la sua incapacità a offrire un "sistema estetico" come alternativa a un sistema morale; la sua avversione per i sistemi, che è una delle sue virtù come pensatore, era troppo grande e profonda per consentirgli di affrontare un compito del genere. Ma c’è anche la sua pratica del giudizio, che rientra nella sua moralità protestante. Essa è radicata troppo profondamente per consentire più che barlumi di modi alternativi di risposta al mondo: di qui la sua incapacità di mostrare, con una ricchezza di particolari comparabile con la ricchezza delle scene che egli presenta attingendole dal mondo morale, come potrebbe essere quest’altro "mondo ed essere dell’uomo" al di là del bene e del male.

Nessun uomo è assolutamente libero dai vincoli di tempo e di luogo: il progetto di un’autocreazione totale di nuovi valori è chimerica. (Quel che non è chimerico è la distruzione di valori accettati che un tale progetto comporta, e in ciò gli ideologi totalitari furono anche troppo pronti a prendere i suoi esperimenti per precetti.) La superba comprensione, da parte di Nietzsche, dello spirito della Grecia classica non fa di lui un pensatore greco. Nonostante i reiterati rifiuti di ogni aspetto del dogma e della fede cristiani egli rimane un cristiano per quanto apostata.

Dov’è dunque che egli ha successo? I suoi fallimenti sono anche il suo successo. Egli comprende e "smaschera" l’etica del biasimo e della lode, della punizione e del premio, e dell’agonia della coscienza, meglio di qualsiasi altro pensatore. Rispettando la varietà della vita più di quanto non rispetti la varietà degli uomini, egli mostra che cosa significhi affrontare ogni problema morale-esistenziale con mente aperta e originale, che cosa significa filosofare contro le massime difficoltà intellettuali e personali che un uomo possa escogitare; e che cosa significa filosofare in un’età che non ha più una fede viva, "al pigro ruotare del mondo". A questi fini egli modella, non un intero nuovo linguaggio (cosa che sarebbe altrettanto assurda quanto il progetto di valori totalmente nuovi), ma un nuovo stile di comprensione, e perciò anche di partecipazione, nel suo mondo e nel nostro. Che "Dio è morto", che il mondo è il prodotto della volontà di potenza, e che veri valori siano presenti in una morale dello sforzo sono formulazioni coniate da Nietzsche per convinzioni su cui si fonda la vita di molti di noi. Esse non sono, secondo me, vere convinzioni. Eppure nessuno ha rivelato più immaginazione nel cercare di vedere come sarebbe il mondo se esse fossero vere.

L’opera di Nietzsche, più di quella di qualsiasi altro filosofo, è esperimento e ipotesi, non precetto. Ciò significa che ogni critica valida di essa deve occuparsi del modo in cui bisogna leggerla. Nel modo migliore possibile, forse come leggiamo il cielo turbolento del tardo autunno, con i suoi vedi spettacolosi e i suoi blu-grigi melanconici e le fosche venature rosseggianti; le sue torri spezzate, le sue merlature, i suoi cavalieri impetuosi e anche altre figure, "come un cammello… molto simile a una balena: leggerlo per i segni di oggi e del domani. Ma segni di una tale intensità devono essere sempre più che semplici segni.

Una pagina esemplare, dicevamo, proprio perché l’Autore non idolatra Nietzsche e non esita a metterne in luce i punti deboli, come pensatore; e nondimeno, gli resta impigliata addosso una sorta di attitudine reverenziale che ha respirato dalla cultura oggi predominante, e che lo sforza a trovare comunque delle ragioni per considerare il filosofo tedesco come un maestro.

Dapprima si afferma che Nietzsche non volle distruggere la metafisica, ma attualizzarla; poi si ammette francamente che, in ciò, egli ha fallito, così come ha fallito in tutti i sui progetti di ampio respiro (aggiungendo, per buona misura: per fortuna). Ma poi, subito dopo aver dichiarato che non esiste alcuna rivoluzione nietzschiana, ecco che lo Stern, inaspettatamente, incomincia a virare di bordo, e dichiara che a lui siamo debitori di un modo nuovo di guardare al mondo. A questo punto, filosoficamente parlando, l’unica cosa che dovrebbe avere importanza, è se questo nuovo modo di guardare al mondo sia giusto o sbagliato: ma non è ciò che interessa al Nostro; per lui, si direbbe che questo sia un problema secondario. Dal che si vede come egli ha appreso fin troppo bene la lezione nietzschiana, di sovvertire tutti i valori: al punto che non si preoccupa di capire se una cosa sia vera o falsa, ma gli basta che la maniera in cui ci si pone di fronte al mondo sia "nuova", quasi che "nuovo" sia sinonimo di "giusto". Questo, sì, è tipicamente moderno. E viene in mente quella forma di sfrenata demagogia, oggi imperante nel mondo della cosa pubblica, per cui si chiede soltanto che gli uomini politici siano giovani, e nuovi al mestiere della politica, indipendentemente da quel che pensano e da quel che sanno fare.

Nietzsche, per Stern, ha cercato di sostituire a un sistema etico del mondo, un sistema estetico (il che ne farebbe l’anti-Kierkegaard, più che l’anti-Hegel), e ha fallito per due ragioni: perché troppo allergico ai sistemi, e poi perché troppo protestante per abbandonarsi veramente all’estetica (il che è quasi come dire: se almeno fosse stato un po’ cattolico, come i papi del Rinascimento…). Pur con tutto il suo slancio "dionisiaco", egli è stato semplicemente un cristiano apostata, non un filosofo greco: ha saputo distruggere, ma non costruire; e quelli che han voluto costruire sulla sua scia, dice Stern, hanno fatto disastri. Perciò, in sostanza – aggiungiamo noi -, la sua è una figura più patetica che tragica; ma Stern non ne trae questa (logica) conclusione. Al contrario, afferma — e anche questa, che se ne avveda o no, è una affermazione tipicamente cristiana — che Nietzsche ha successo proprio là dove fallisce, perché i suoi fallimenti sono il suo successo. Parrebbe un paradosso: che, nell’ottica cristiana, non è affatto tale, proprio per l’impostazione generale, non materialistica ma spirituale, del Vangelo; ma che lo è nel contesto della proposta nietzschiana, che è materialistica e antispirituale. Ma in che cosa consisterebbe, allora, il "successo" del filosofia Nietzsche? Nel fatto di aver smascherato, con impareggiabile abilità, l’etica del biasimo e della lode, della punizione e del premio, e dell’agonia della coscienza. Sì: bel lavoro davvero; complimenti. Come non vedere che si tratta di un successo devastante, oltre che inutile, dopo aver ammesso che Nietzsche non sa, non può e, forse, nemmeno vorrebbe costruire un sistema nuovo?

In ultima analisi, tutti i titoli di merito per attribuirgli la qualifica di "maestro" si riducono a quest’unico: avere elaborato e introdotto nel mondo un nuovo stile di comprensione della realtà, in un’epoca che non possiede più una fede viva. Dunque: una filosofia in briciole, ma non nel senso kierkegaardiano (estremamente serio), bensì nel senso di una filosofia per malati, per inappetenti, per intestini pigri, che non potrebbero tollerare un cibo più sostanzioso. Un po’ poco, a nostro avviso; e specialmente per uno che voleva rivoluzionare il mondo e che si proclamava l’Anticristo, venuto a capovolgere le tavole della Legge. Ma qui viene il colpo di teatro: Stern non solo ammette, implicitamente, che ciò è poco, ma soggiunge (e ha ragione) che tutto l’insegnamento di Nietzsche si riduce non a dei ragionamenti, e meno ancora a dei ragionamenti veritieri, ma a delle "convinzioni" (semplice doxa, opinione, direbbe Platone), le quali non sono neppure delle vere convinzioni. Tutto chiarito, dunque? Niente affatto: perché nessuno più di Nietzsche, dice il nostro Autore, ha saputo lavorare d’immaginazione nel vedere come sarebbe il mondo, se quelle "convinzioni" fossero vere. In ciò consisterebbe il suo valore speculativo; in ciò risiederebbe la motivazione della qualifica di "maestro" per il filosofo tedesco.

È abbastanza strano che Joseph Stern non si sia accorto di aver detto una vera e propria assurdità, oppure, il che è lo stesso, non si sia accorto di aver proclamato Nietzsche come il campione assoluto di un genere letterario che allora muoveva appena i primi passi: la fantascienza; o, più ancora, un campione assoluto del non-senso, come Alice nel Paese delle meraviglie di Lewis Carroll. O forse, in qualche angolo della sua consapevolezza, se n’è accordo. Come spiegare, altrimenti, proprio in chiusura di un saggio che vorrebbe essere una sintesi della filosofia di Nietzsche, quel’imbarazzante esplosione – non la si potrebbe definire altrimenti — di poesia a buon mercato, tratteggiata con le pennellate più banali di un mediocre pittore dilettante, il quale cerchi l’effetto a tutti i costi? Fra cieli tempestosi, colori autunnali variopinti, castelli in rovina e cavalieri erranti, pare che ci paghi il biglietto gratuito per l’ingresso in un luna-park piuttosto dozzinale. In che consisterebbe, dunque, la grandezza di Nietzsche? Nell’averci introdotti a un mondo "sperimentale" di effetti poetici ed estetici? Eppure, è proprio questo che dice Stern: che l’opera di Nietzsche, più di quella di qualsiasi altro filosofo, è esperimento e ipotesi, non precetto. Benissimo. In tal caso, onestà vorrebbe che si tirasse un rigo su qualunque pretesa di fare di Nietzsche un "maestro": non è certo un maestro colui che, per tutta la vita, si è limitato a pasticciare con le ampolle e gli alambicchi, senza mai giungere ad una conclusione universale, a una scoperta significativa.

Eppure, a Stern deve aver sfiorato la mente che la sua spiegazione non spiega nulla, che la sua interpretazione gioca troppo d’astuzia, laddove conclude che la filosofia di Nietzsche è fatta di segni, come il fatto di paragonare cammello a una balena, e che segni di una tale intensità devono essere sempre più che semplici segni. Quel "devono, in verità, è tutto un programma: che cosa significa, esattamente? Si tratta di puro volontarismo, proprio come quello di Nietzsche, allorché il suo Zarathustra esclama: è QUESTA la vita, dunque? Ebbene ancora, e ancora, infinite volte? Significa, ad esempio, che se un artista è pieno di ardore e di passione, non potrà che realizzare degli autentici capolavori? Qui siamo in presenza di un ammirevole, ma ingiustificato, atto di fede: se i "segni" di Nietzsche sono così affascinanti, dice lo Stern, non è possibile che siano solo e unicamente dei segni; essi devono (devono!) avere anche un significato reale. Peccato che nessuno possa credergli, dopo averlo seguito nelle sue (peraltro condivisibili) critiche a proposito delle insufficienze filosofiche di Nietzsche.

E che dire, poi, dell’affermazione che ogni critica valida (della filosofia di Nietzsche) deve occuparsi del modo in cui bisogna leggerla? O è una scadente tautologia, o è qualcosa di peggio: un’astuzia per rimettere in circolazione una moneta falsa, dopo averla riconosciuta tale, ma spacciandola per buona. Se la critica della filosofia non avesse altro compito che quello di occuparsi del modo in cui si devono leggere i filosofi, staremmo freschi (ma, sia detto fra parentesi, questo è proprio quel che i nostri eccellenti professori di filosofia fanno, tutti i santi giorni e con ardore encomiabile, nei licei e nelle università, sfornando migliaia di studenti omologati, saccenti e incapaci di pensare con la loro testa). A noi pare che la filosofia dovrebbe porsi un obiettivo un pochino più alto che quello di fare le pulci a quel che ha detto Tizio o a quel che ha detto Sempronio: essa dovrebbe aiutarci a cercare la verità…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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