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La morte di Dio non ha recato l’avvento del superuomo, ma dell’uomo-scimmia

È noto che l’avvento del superuomo, per Nietzsche, deve avere come presupposto la morte di Dio: solo partendo da questa presa d’atto, che Dio è definitivamente morto nelle coscienze degli uomini, si potranno creare le condizioni idonee alla nascita di un nuovo tipo umano, il tipo superiore, il tipo che è "al di là del bene e del male", il tipo che guarda dall’alto ogni altra cosa, compreso se stesso, il se stesso di prima, limitato, tremebondo, pieno di complessi e di paure, e avrà finalmente il coraggio di essere se stesso fino in fondo, senza residui, senza sconti, senza ipocrisie. Fino a quando gli uomini non si persuaderanno che Dio è morto, che non c’è più posto per lui, che devono fare da soli e provvedere da se stessi alla loro esistenza, al loro futuro, e prendere in pugno il loro destino, fino a che non verrà quel momento, il Superuomo non potrà nascere.

Quando apparve Così parlò Zarathustra, Friedrich Nietzsche non era che un professore di filologia andato precocemente in pensione per mortivi di salute, che vagabondava fra l’Italia e la Svizzera, solo, randagio, meditabondo, senza una donna, senza amici, senza ammiratori di peso, senza cattedre universitarie che propagandassero le sue idee; un solitario piuttosto eccentrico, tutto concentrato sui suoi libri, che stampava in gran parte a sue spese, tutto preso dalla missione di diffondere le proprie idee — idee controcorrente, quanto mai politicamente scorrette, e rese ancor più difficili da digerire da un denso strato di simbolismi oscuri e allegorie poetiche. Eppure, c’era, in quelle idee, un qualcosa che era destinato a "sfondare", a fare breccia e ad aprirsi una strada, come un coltello nel burro, attraverso le contraddizioni e le debolezze del positivismo agonizzante e le illusioni razionaliste che le élite dominanti coltivavano, sovente in perfetta mala fede, circa le magnifiche sorti e progressive dell’Europa e del mondo intero. Nelle parole di quel solitario c’erano una forza devastante, una volontà di fare filosofia a colpi di martello, andando diritto al cuore dei problemi, con franchezza brutale. La veste poetica non era un modo di annacquare la loro asprezza o di addolcirne le amare conseguenze, ma un elemento che apparteneva alla sua indole, perché non avrebbe saputo esprimersi altrimenti: pure, quella veste fu importantissima per avvicinare alle idee di Nietzsche la folla anonima del vasto pubblico, e specialmente i tanti lettori piccolo-borghesi, gli intellettuali a metà, gli scrittori falliti e gli studenti fuori corso, i pensatori senza nerbo e le legioni di frustrati e di spostati, che la trasformazione della società, nel corso dell’industrializzazione e della modernizzazione, stava gettando in un angolo, pieni di amarezza e di risentimento, ad assistere impotenti e rancorosi ai trionfi della scienza e della tecnica, i quali procedevano per la loro strada, senza di loro e contro di loro.

Il paradosso fu questo: che il filosofo più aristocratico d’Europa divenne, negli anni della sua follia e, poi, subito dopo la sua morte, il filosofo più letto, più apprezzato, più ammirato, da stuoli di pensatori senza talento, i quali lo elessero a loro nume tutelare, a dispetto del fatto che lo avessero sostanzialmente frainteso e che lui stesso, se fosse vissuto abbastanza per assistere al proprio tardivo trionfo, avrebbe disprezzato e sconfessato quella pletora d’importuni ammiratori, di conformisti dell’anticonformismo, riconoscendo in essi proprio quella mala razza di nullità presuntuose, di aborti petulanti, di botoli ringhiosi e saccenti, contro i quali aveva scagliato una incessante quantità di fulmini e che sempre aveva considerato come la peggiore pestilenza intellettuale e morale che mai avesse colpito la civiltà europea, da quando il detestato cristianesimo aveva sostituito al culto eroico degli dei pagani, e soprattutto degli istinti, il culto lamentoso ed effeminato di una moltitudine inerme e piagnucolosa, carica di risentimento, che usava l’arma del perdono come una clava per distruggere tutti ciò che di nobile esiste al mondo, tutto ciò che si eleva al di sopra della massa vile ed amorfa.

Il culmine della piaggeria e del non senso è stato raggiunto dagli intellettuali di sinistra, e specialmente marxisti, fra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento, i quali hanno osato addirittura tentare di arruolare il buon vecchio cantore di Zarathustra nelle loro file, di trasformarlo in un loro precursore o, quanto meno, in un loro maestro "segreto", che non è stato capito solo perché del suo pensiero si è impadronita la cultura di destra, che lo ha ghettizzato per sempre in una cornice innaturale, distorcendone il messaggio. Complice involontaria la sorella del filosofo, Elisabeth Förster-Nietzsche, la quale, effettivamente, ha curato la pubblicazione delle sue opere in maniera tale da smussare certi angoli e da enfatizzare certi altri aspetti (in particolare, attenuando il suo anticristianesimo e potenziando il suo ipoetico antisemitismo e il suo ancor più ipotetico, per non dire improbabile, nazionalismo), e complice l’interessamento a dir poco opportunistico del regime nazista, andato al potere circa un trentennio dopo la sua morte, quegli intellettuali di sinistra hanno avuto buon gioco nel sostenere che il pensiero di Nietzsche era stato "travisato": il che è vero, ma non nel senso che dicevano loro. Tutto si può dire di Nietzsche, ma non che esso sia un pensiero libertario o progressista: almeno nel senso che queste due parole hanno acquistato definitivamente nella cultura europea. Come potrebbe essere libertario un pensiero che proclama, non già la distruzione, ma il rovesciamento di tutti i valori? E come potrebbe essere progressista un pensiero che va a sfociare nella (peraltro fumosa) dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale? Ma tant’è: quando si vogliono effettuare certe operazioni "culturali" (che sono, in realtà, prettamente ideologiche), non si guarda poi tanto per il sottile…

Dunque, dicevamo: la morte di Dio e l’avvento del superuomo (che poi sarebbe l’oltreuomo, differenza lessicale e concettuale non certo di poco conto). In un certo senso, i teologi cristiani della "teologia negativa" e quelli del deus absconditus, da Karl Barth a Dietrich Bonhoeffer, partono proprio dall’annuncio nietzschiano della morte di Dio, e sviluppano il loro pensiero affermando la necessità, per l’uomo moderno, "adulto" ed "emancipato", di procedere nella vita "come se Dio non ci fosse" (etsi Deus non daretur): significativa convergenza di codesta teologia "cristiana" con la cultura atea militante, materialista e nichilista, per la quale la sola idea di Dio è una zavorra che va eliminata, perché, fino a quando gli uomini non si decideranno a disfarsene per sempre, essa continuerà ad ingombrare la loro strada e a ritardare la loro emancipazione e la loro auto-affermazione. Non avevano forse sostenuto, Feuerbach e Marx, che Dio è la proiezione di tutte le vane attese e le false speranze dell’uomo, il quale, a causa della sua fede in Lui, ha finito per alienarsi dalla dimensione reale della sua vita effettiva? E questo rifiuto aggressivo di Dio e dell’Aldilà, non era stato forse preparato da Hegel, con la sua idea della anteriorità del pensiero rispetto all’essere e con la sua affermazione della superiorità della filosofia rispetto alla religione, e da Kant, con la sua critica serrata ad ogni metafisica, preceduta, a sua volta, da quella scettica, e ancor più intransigente e demolitrice, di Hume?

Ci affidiamo, per ricapitolare i termini della questione relativa alla "morte di Dio" e all’avvento del superuomo, alla sintesi contenuta in un manuale "classico" di filosofia (Nicola Abbagnano-Giovanni Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Torino, Paravia, 2000, vol. 3, pp. 498-499):

La descrizione nietzschiana dello smarrimento esistenziale prodotto dal tramonto dell’idea di Dio è così "partecipata" che, almeno in certi passaggi, sembra opera di un credente (tant’è vero che, soprattutto in questi ultimi anni, essa ha avuto una forte presa sui seguaci delle varie fedi del mondo, che hanno scorto in essa l’annuncio più drammatico dell’ateismo moderno e contemporaneo). Tuttavia, nel contesto GLOBALE del discorso di Nietzsche (quale appare dall’insieme della sua opera) appare evidente che la morte di Dio costituisce sì un "trauma", ma solo in relazione ad un uomo-non-ancora-superuomo, e che, proprio in virtù di essa, può ormai divenirlo. INFATTI LA MORTE DI DIO SEGNA, PER NIETZSCHE, L’ATTO DI NASCITA DEL SUPERUOMO.

Solo chi ha il coraggio di guardare in faccia la vita e di prendere atto della caoticità a-razionale del mondo, al di là di tutte le illusioni metafisiche, è ormai maturo, secondo Nietzsche, per varcar el’abisso che divide l’uomo dall’oltre-uomo. Per cui, il superuomo ha DIETRO di sé, come condizione necessaria del suo stesso essere, la morte di Dio e la vertigine da essa provocata, ma ha DAVANTI a è il "mare aperto" delle POSSIBILITÀ scaturenti da una libera progettazione della propria esistenza al di là di ogni struttura metafisica data: "Noi filosofi e ‘spiriti liberi’ — scrive Nietzsche ne ‘La gaia scienza’ – alla notizia che il vecchio Dio è morto, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presentimento, d’attesa — finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno, – finalmente possiamo di nuovo scioglier le vele alle nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza è di nuovo permesso; il mare, il NOSTRO mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così ‘aperto’ ".

Qualche studioso di Nietzsche ha sostenuto che la tesi della MORTE di Dio non coincide con la tesi della NON-ESISTENZA di Dio. Infatti l’ateismo sarebbe ancora una posizione a suo modo ‘metafisica’, inaccettabile per Nietzsche. Per cui, tutto il discorso nietzschiano sulla morte di Dio, anziché assurgere ad espressione di una vera e propria convinzione metafisica, si porrebbe in fondo come semplice voce profetica di un accadimento in corso. A nostro avviso questa lettura riflette più certe sensibilità odierne che la posizione storica effettiva di Nietzsche e non regge l’urto con troppi testi del filosofo e con l’esplicita definizione di Dio come ‘menzogna’. Di conseguenza, continuiamo a pensare che la more di Dio, in Nietzsche, sia, AL TEMPO STESSO, il frutto di una persuasione filosofica e l’esito di una consapevolizzazione storico-epocale.

Infatti il superuomo, come si è visto, emerge solo DOPO esser passato sui cadaveri di tutte le divinità: "Morti son tutti gli dei: ora vogliamo che il superuomo viva" esclama Zarathustra. Del resto, delle due l’una: o il mondo è caos dionisiaco e Dio non esiste e il superuomo ha senso; o Dio esiste e il mondo non è più caos dionisiaco e il superuomo cessa di avere senso. Il che è quanto dire che l’universo nietzschiano è tale solo sul PRESUPPOSTO, di derivazione schopenhaueriana, di un mondo "divinizzato", cioè inequivocabilmente a-teo. Per cui, lasciare in piedi anche la più vaga ipotesi della POSSIBILITÀ di Dio o pensare, heideggerianamente, che il nostro tempo possa essere qualificato come "l’epoca degli dei fuggiti e del Dio venturo… degli dei che non vi sono più e del Dio che non v’è ancora" significa minare alla base tutto il discorso di Nietzsche (si intende del nietzschianesimo STORICO), che si erge programmaticamente a partire dagli EFFETTI della morte di Dio.

Del resto l’ateismo di Nietzsche è così RADICALE che egli non contesta solo Dio, ma anche ogni suo ipotetico surrogato, ben conscio che gli uomini, abbattute le antiche divinità, tendono inevitabilmente a crearne altre. Tant’è che nelle pagine finali di "Così parlò Zarathustra", Nietzsche racconta di uomini che si mettono ad adorare un asino, con grande ira del filosofo-profeta, il quale constata come il passaggio dall’uomo al superuomo sia lento e difficile. L’"asino" è simbolo di ogni SOSTITUTO IDOLATRICO di Dio e allude probabilmente alle varie forme dell’ateismo "positivo" dell’Ottocento, nelle quali il vecchio Dio si trova "rimpiazzato" da altrettanti supplenti (lo Stato, l’Umanità, la scienza, il socialismo ecc.), che vengono a riempire il vuoto lasciato dalle precedenti strutture metafisiche : "Dopo che Buddha fu morto, si continuò per secoli ad additare la sua ombra in una caverna — un’immensa orribile ombra. Dio è morto: ma stando alla natura degli uomini, ci saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra. E noi — noi dobbiamo vincere anche la sua ombra! ("La gaia scienza").

Da questa ricapitolazione e da questa interpretazione, che ci sembra di poter sostanzialmente condividere, restano tuttavia esclusi due punti che a noi, invece, paiono essenziali.

Il primo: che razza di filosofo è quello che rimane ambiguo su una questione così centrale: ossia se la morte di Dio sia semplicemente la morte della credenza in Lui, oppure la negazione di Lui? Il fatto che, su una questione di tale portata, siano sorte letture divergenti e perfino opposte, la dice lunga sul valore effettivo di Nietzsche come filosofo. La vera filosofia si fa solo sulla chiarezza, giammai sull’ambiguità: chi non è capace di esprimere concetti chiari, non possiede la stoffa del filosofo, ma, semmai, del poeta, come è il caso del cantore di Zarathustra (e dello psicologo: perché Nietzsche è soprattutto un finissimo psicologo, dalle intuizioni addirittura folgoranti, come si vede, ad esempio, in Umano, troppo umano). Un pensiero che chiunque può tirare di qua o di là, secondo il proprio gusto, come fosse una coperta, non è un pensiero filosofico, ma una minestra buona per tutte le stagioni e per qualunque genere di palato, purché opportunamente riscaldata. E, allo stesso modo, anche l’enorme sopravvalutazione di Nietzsche come filosofo, anzi, come il filosofo tipico della modernità, la dice lunga sulla decadenza del vero pensiero filosofico, iniziata con i cosiddetti philosophes illuministi (o, peggio ancora, con i savants: la modestia non era il loro forte) e proseguita, come lungo una china inarrestabile, per tutto il XIX e il XX secolo.

Il secondo punto che ci preme sottolineare: Nietzsche, come si è detto, aveva previsto che gli uomini, dopo l’annuncio della morte di Dio, si sarebbero messi ad adorare un asino (straordinaria convergenza con l’affermazione di Jean-Marie Vianney, il santo curato d’Ars, il quale una volta disse: Lasciate un paese senza parroco, e, dopo vent’anni, gli uomini si metteranno ad adorare le bestie). L’aveva previsto così bene, da affidare la sua stessa indignazione all’indignazione di Zarathustra: tanta fatica, tante veglie, tanti sacrifici, per ottenere un risultato così meschino, così aberrante? Ma, allora, Nietzsche è stato qualche cosa di peggio di un sognatore o di un utopista: è stato un pazzo criminale. Non si strappa la benda a qualcuno che potrebbe fare un uso così detestabile della vista; anzi, che ne farà certamente un uso così detestabile. È come prevedere lucidamente un omicidio — o, se si preferisce, un suicidio — e, nondimeno, porre una pistola, o un pugnale, nelle mani del futuro omicida/suicida. I casi sono due: o si stimano gli uomini quanto basta per immaginare che sapranno fare un buon uso di quanto viene insegnato loro, oppure no. Nel secondo caso, che è il caso di Nietzsche, non si dovrebbe rivelare loro quello che li farà scendere ancora più in basso nella scala della loro umanità. È chiaro, infatti, che essi non diventeranno superuomini, ma sotto-uomini, ovvero scimmie.

Fatale contraddizione di tutto il pensiero nietzschiano: un pensiero aristocratico che si rivolge, di fatto, a tutti (donde quell’assurdo, ridicolo aristocraticismo di massa, che abbiamo addebitato particolarmente alle interpretazioni "di sinistra" del nietzschianesimo). Se non si ha fiducia negli uomini, perché annunciare loro, a tutti loro, la dottrina che, invece di emanciparli, li renderà ancor peggiori, ancor più animaleschi? Ed è forse un caso che, proprio negli anni ruggenti della riscoperta di Nietzsche, la versione trionfante (e semi-ufficiale) dell’antropologia, in Europa fosse quella darwiniana, la quale si gloriava di conferire una patente di rispettabilità "scientifica" all’idea che l’uomo discenda dalla scimmia, o, quanto meno, da un antenato comune con le scimmie, mentre il ritratto "scimmiesco" di Darwin incombeva ovunque, idealmente e praticamente, a trecentosessanta gradi – politica e letteratura incluse – mediante il famoso, o famigerato, darwinismo sociale? E quanto male abbia fatto il darwinismo sociale, penetrato assai a fondo, sia esplicitamente, sia sotto mentite spoglie, in quasi tutte le ideologie politiche della fine dell’800 e dei primi del ‘900, è cosa troppo nota perché valga la pena di evidenziarla. Né i genocidi del XX secolo, né lo sterminio di classe nell’Unione Sovietica di Stalin, né il capitalismo selvaggio, con il suo immenso bagaglio di sfruttamento, crisi economiche e povertà, sarebbe anche solo immaginabili, se, nel’humus culturale dell’epoca, non ci fosse stata l’esiziale dottrina del darwinismo sociale.

Tornando a Nietzsche. Egli è convinto che la realtà sia caotica, e perciò "dionisiaca": altro che razionalità, bisogna che l’uomo impari a danzare al ritmo del flauto di Pan. Egli è convinto che una tale rivelazione sia troppo per gli uomini, che essi non la potranno sopportare; eppure non esita a gridarla dai tetti, per bocca del suo Zarathustra. Questa la prima contraddizione. La seconda è aspettarsi che il superuomo, da lui auspicato, possa mai nascere da queste plebi miserande, da questi adoratori dell’asino: in virtù di quale miracolo? Se manca la materia prima, quale artista potrà forgiare il superuomo? La terza contraddizione sta a monte: Nietzsche non dimostra che Dio è morto; lo pone, lo dichiara, lo proclama nelle piazze. Anche da questo si vede quale sia la vera stoffa di Nietzsche come filosofo. Fare filosofia significa tentare di dimostrare perché le cose stiano in un certo modo; limitarsi ad affermarlo, non è fare filosofia, ma letteratura. Con tutto il rispetto dovuto alla letteratura: però sono due ambiti diversi. Un letterato che voglia fare il filosofo, sarà sempre un cattivo filosofo; e le conseguenze del suo pensiero saranno, per forza, cattive anch’esse…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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