
«Si sente passare nella notte una corrente che accende lumi, perché non ci perdiamo»
13 Giugno 2016
Le origini della vita secondo l’evoluzionismo politicamente corretto
14 Giugno 2016Marco Barbone, milanese, classe 1958, è oggi un collaboratore del settimanale cattolico Tempi e del quotidiano Il Giornale; è lui stesso un cattolico (convertitosi dopo le sue vicende processuali), sposato e con figli, e aderente a Comunione e Liberazione.
Il 28 maggio 1980 uccise, dandogli anche il colpo di grazia, il giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi, insieme ad alcuni compagni del gruppo terroristico da lui guidato, la Brigata XXVIII Marzo: Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele Laus e Manfredi De Stefano. Arrestato nel giro di poche settimane dalle forze dell’ordine, si "pentì" quasi immediatamente e, al termine del processo che si tenne dal 1° marzo al 28 novembre 1983, non solo per l’assassinio di Tobagi, ma anche per altri fatti di terrorismo, poté usufruire del beneficio della libertà provvisoria, sebbene condannato alla pena, poco di più che simbolica, di 8 anni e 6 mesi di carcerazione, e pertanto subito rimesso in libertà con la condizionale.
Il processo era stato caratterizzato da tutta una serie di stranezze, che sarebbe impossibile elencare in questo breve spazio; in particolare, ne uscì assolutamente indenne la fidanzata di Barbone, Caterina Rosenzweig, altra figlia della buona borghesia che giocava a fare la terrorista, ex allieva di Tobagi all’università, benché fosse stato accertato che, due anni prima del delitto, ella lo aveva intensamente pedinato; e si aggiunga il mancato approfondimento di parecchi punti della vicenda che aveva portato all’assassinio del giornalista; l’estrema mitezza della sentenza nei confronti di Barbone e di Paolo Morandini, che avevano fin da subito "collaborato", specie se paragonata alle pene inflitte agli altri terroristi (20 anni a Mario Marano, 28 anni a Manfredi De Stefano, 27 anni e 8 mesi a Daniele Laus (poi ridotti a 16), 30 anni e 8 mesi (poi ridotti a 21) a Francesco Giordano, l’unico, per inciso, che li scontò tutti: e, guarda caso, l’unico che non aveva né ammesso la sua partecipazione al delitto, né voluto collaborare. E c’erano ancora altri interrogativi, rimasti sempre senza risposta: davvero la collaborazione di Barbone con gli inquirenti fu risolutiva per chiarire le circostanze del delitto Tobagi? Non è forse vero che le autorità inquirenti erano già sulle sue tracce e, quindi, non è possibile che fossero già in grado di accertare la verità, anche senza bisogno del suo (dubbio) pentimento? E come mai il pubblico ministero e il giudice furono così concordi nella linea da adottare nei confronti di Barbone, questo figlio della Milano "bene", che non chiese mai perdono direttamente alla vedova, ma scelse di farlo, in maniera generica e assai poco convincente, solo davanti alle telecamere dei giornalisti, poco prima che venisse formulata la sentenza? E, ancora: perché non si volle istruire un processo appositamente per l’assassinio di Walter Tobagi? Ed è vero, o è verosimile, che l’idea di assassinare il giornalista sia maturata, o, quanto meno, che ne sia stata agevolata l’esecuzione, proprio all’interno della redazione del Corriere della Sera? C’erano dei colleghi di Walter Tobagi che ne desideravamo la morte, proprio per le sue scomode inchieste sul terrorismo, o, comunque, che la favirirono, passando agli assassini notizie riservate circa i suoi spostamenti? Come mai Barbone e gli altri sapevano che Tobagi si trovava a Milano, quel 28 giugno 1980, quando non avrebbe dovuto esserci? E che cosa pensare degli smaccati tentativi del partito Socialista Italiano, allora e dopo, di strumentalizzare la vicenda e "intestarsi" la memoria di Tobagi, anche se questi, da tempo, non vi era più iscritto? A quale scopo Bettino Craxi si recò a casa della signora Tobagi, portandole dei giocattoli per i suoi bambini?
A proposito di visite. Solo molto tempo dopo la sentenza e la relativa scarcerazione, Barbone si recò da Stella Tobagi, peraltro senza domandare perdono, ma solo recando una scatola di cioccolatini. In aula, non rinunciò ad alcuno dei benefici che la legge sui pentiti gli consentiva, e si rifiutò persino di pagare una cifra simbolica alla famiglia della vittima (era risultato nullatenente, pur venendo da una buonissima famiglia), quale risarcimento morale: con la squallida e assurda motivazione che ciò avrebbe traumatizzato i suoi figli. Intanto si era rifatto una vita, si era sposato (in chiesa), era entrato in Comunione e Liberazione, aveva trovato da scrivere per alcuni giornali, era divenuto amico dell’arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini. Ma il perdono, no, quello non l’aveva chiesto.
Aveva scritto Gigi Moncalvo, nella Premessa al suo libro Oltre la notte di piombo, nel quale ha rievocato, fra gli altri, l’assassinio di Walter Tobagi (Roma, Edizioni Paoline, 1984, pp. 15-17):
… Con un gesto plateale e, secondo alcuni, ben organizzato e predisposto (come mai, infatti, quel giorno, proprio in quel momento, le telecamere dei giornali erano state fatte arrivare tempestivamente in aula durante un’udienza che si annunciava di normale "routine"?), Marco Barbone chiese perdono ai figli di Walter Tobagi, scegliendo il momento più propizio: qualche attimo prima che i giudici si ritrassero in camera di consiglio.
Poi, il giorno della sentenza, poco prima di conoscere il verdetto, un altro gesto plateale, questa volta da parte dell’avvocato Marcello Gentili, il difensore di Barbone: la distribuzione ai sei giudici popolari, e naturalmente sotto i flash dei fotografi, di un libro di Gandhi: "Antiche come le montagne sono la verità e la non violenza". E, subito dopo la sentenza, lo stesso Gentili, l’avvocato che ha inventato il temine "pentito", pronto a dettare ai giornalisti questo commento: "Spero che i figli di Tobagi un giorno possano comprendere il valore di questa sentenza, come so che comprenderà probabilmente il fratello di Vittorio Bachelet, e vogliano stringere la mano oggi tesa verso di loro da Marco barbone che ha contribuito in modo diretto e determinante alla morte del loro padre".
La casa di Walter Tobagi, dopo quella sentenza, è ripiombata in quei momenti dolorosi, tesi, drammatici, indimenticabili, di tre anni e mezzo fa. Ulderico, il padre di Walter, ha detto: "è come se avessero ucciso mio figlio una seconda volta". Stella Tobagi in quei giorni ha dovuto far fronte al problema pi grande e importante che questa vicenda ha riaperto; rispondere alle stupefatte domande di Luca ("Mamma, ma è vero che hanno rimesso fuori Barbone?"), cercare di impedire in qualche modo che quella atmosfera contagiasse Benedetta, la piccola Bebi, che quel giorno del 1980 vide il suo papà sul marciapiedi in una pozza di sangue.
"Sto cercando di incassare il colpo", disse Stella Tobagi. "In questi anni avevo lentamente, faticosamente cercato di ricreare per i miei bambini una atmosfera che permettesse loro di superare quei momenti difficili. Ora a breccia, che ero riuscita a ricucire, si è riaperta. E io aspetto che questa tensione, questo clima si diradi, questo telefono smetta di squillare, questi telegrammi cessino di arrivare, per poter avere la possibilità, la tranquillità, la serenità di parlare con i miei bambini, di rispondere alle loro domande, di spiegare loro quello che è avvenuto".
Alla vigilia della sentenza, per alcune settimane, avevo conversato a lungo con Stella Tobagi.
Questa è la prima volta che Stella Tobagi accetta di raccontare, nella sua globalità e nella sua interezza, il suo punto di vista sull’intera vicenda. Non le si possono rivolgere col consueto meccanismo del botta e risposta le domande più brucianti, più urgenti, più attuali, e cioè: "Lei crede nel pentimento, nella sincerità del pentimento, di Barbone e Morandini? Oppure pensa che, su suggerimento di qualcuno, abbiano adottato questa tattica difensiva solo per approfittare delle agevolazioni che la legge consente? Lei sarebbe disposta a perdonare gli assassini di suo marito, se davvero fossero pentito, se in qualche modo dimostrassero di esserlo, anche se hanno perduto una buona occasione per farlo rinunciando ai benefici della legge? Che cosa dirà ai suoi figli quando saranno più grandi: perdonatelo, oppure…? Come giudica l’operato dei magistrati, questo salto in avanti del pubblico ministero Spataro, pronto a chiedere il massimo, tutto e subito, compresa la libertà, per quei due assassini? Secondo lei, il fatto che non ci sia stato un "processo Tobagi", ad hoc, ma tutto sia stato infilato nel grande calderone della vicenda "Rosso", ha fin dall’inizio dimostrato una scarsa volontà di fare piena luce sulla morte di suo marito? È stata rimproverata di non essersi costituita parte civile: perché non lo ha fatto? Che cosa pensa di queste polemiche, di questa "breccia che si riapre"? Perché i giornalisti si sono accorti del problema solo dopo la sentenza mentre invece prima, durante il processo, durante l’istruttoria, era quasi impossibile riuscire a convincere un direttore a pubblicare i fatti nuovi, goi interrogativi, le cose strane che a a poco a poco emergevano e lasciavano prevedere un simile finale? Perché uno dei pentiti, Barbone, ha lanciato appelli televisivi, si è rivolto a suore e sacerdoti, ma non ha mai compiuto il gesto più semplice, più elementare, più naturale (e certamente meno eclatante e pubblicizzabile), cioè rivolgersi direttamente a lei, scriverle, farle sapere direttamente questo suo bisogno di perdono dalla famiglia Tobagi?"
La memoria collettiva degli Italiani, si sa, è molto labile, e ci sembra che bisognerebbe partire proprio da qui, da un recupero della consapevolezza e della memoria, per rifondare su basi più salde il patto sociale che deve legare i cittadini di una nazione, se si pensa che "nazione" sia una società nella quale esiste un orizzonte condiviso di valori, un comune sentire, pur nella legittima diversità delle opinioni e delle posizioni individuali. Sappiamo bene che il paragone darà fastidio a molti, ma vogliamo farlo ugualmente: una giustizia che infligge l’ergastolo a un ex capitano tedesco di 85 anni, Erich Priebke, per aver condotto una rappresaglia secondo gli ordini ricevuti dai suoi superiori, e questo a più di mezzo secolo di distanza dai fatti (la sentenza definitiva è stata emessa nel novembre 1998), mentre i responsabili dell’attentato di via Rasella, che provocò anche vittime civili, ricevettero le più alte decorazioni al valore; ma che rimette subito in strada un assassino reo confesso d’un delitto commesso a sangue freddo, per abietti motivi ideologici, esponendo la famiglia della vittima alla possibilità d’incontrarlo per la strada come un qualsiasi cittadino che si gode la vita d’ogni giorno, evidentemente ha qualche problema da risolvere.
Non è una opinione solo nostra: se vi vuole rimettere in piedi la sconquassata società italiana e garantirle almeno una parvenza di coesione nazionale, bisognerebbe partire dalla ricostruzione della famiglia sul piano morale, e della giustizia sul piano politico. Una società senza una giustizia che sia ragionevolmente rapida, certa e imparziale, brancola nelle tenebre dell’incertezza e delle decisioni soggettive del singolo magistrato o della singola corte. Il totalitarismo democratico e buonista oggi imperante, complice la natura vaga e indefinita della legislazione, consente a qualunque magistrato di aggirare e, talvolta, di calpestare, il sentire comune, nonché lo stesso buon senso e la più elementare domanda di giustizia, scarcerando criminali che le forze dell’ordine hanno catturato con fatica e sacrificio e vanificando i loro sforzi, ma anche lasciando delusi i cittadini, e sempre meno sicura la società nel suo insieme. Troppi individui socialmente pericolosi sono lasciati liberi di andare e venire a piacimento, dentro e fuori le camere di sicurezza e i tribunali, dando l’impressione che la magistratura, nel nostro Paese, serva più a ostacolare il cammino della giustizia, a offrire scappatoie ai colpevoli e a mettere sotto accusa le stesse vittime, ad esempio per eccesso di legittima difesa, che non a reprimere i reati, scoraggiare i male intenzionati e proteggere gli individui pacifici e rispettosi della legge. E questo è assurdo: abbiamo costruito una situazione di ordinaria follia, nella quale il potere giudiziario, invece di custodire la pace e la sicurezza dei buoni cittadini, crea occasioni favorevoli alla delinquenza e all’illegalità.
È in questa enorme confusione, non solo giuridica (vi sono troppe leggi, in Italia: qualcosa come 150.000, ossia da 20 a 30 volte quante ce ne sono in Francia o in Germania), ma anche intellettuale, culturale e morale, che si collocano episodi come l’immediata scarcerazione di Marco Barbone, nel 1983. Soprattutto morale. Vale la pena di ricordare, specialmente alle giovani generazioni, che non hanno conosciuto il clima degli "anni di piombo" (vedere il filmato su Youtube, per credere), che, al momento in cui fu data lettura della sentenza, in aula, fra il pubblico, si levò un grande clamore, che il giudice contenne solo a fatica. Era l’indignazione dei parenti del povero Walter Tobagi, penserà qualcuno; o, comunque, di tutti i cittadini i quali sentivano come, in quel giorno e in quel luogo, il più elementare senso di giustizia aveva ricevuto un’offesa gravissima. Nient’affatto: i parenti della vittima erano persone civilissime, di ammirevole dignità e compostezza; e i cittadini moralmente sani ed onesti, se pure ve n’erano, preferirono tener per sé il loro legittimo turbamento. No: quel clamore fu dovuto alla "rivolta" dei simpatizzanti dell’estrema sinistra, scandalizzati perché l’infame Barbone aveva venduto i suoi ex compagni (in effetti, le sue rivelazioni ne fecero arrestare a decine). Una ragazza scandì: Marco, vieni a pescare con noi: ci manca il verme! Chiaro?
In Italia, a indignarsi, troppo spesso non sono le vittime e i cittadini onesti, ma i fanatici estremisti…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Tingey Injury Law Firm su Unsplash