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Dobbiamo ricordarci che l’agricoltura è una transazione equilibrata fra l’uomo e la terra

La terra ci è madre: questo, almeno, lo sappiamo — o crediamo di saperlo. Però non sappiamo trarne le logiche conseguenze. E la prima dovrebbe essere questa: la terra ci nutre, ma noi non possiamo pretendere che lo faccia in assenza di qualunque integrazione da parte nostra. Non possiamo chiederle, e prelevare da essa, più di quanto sia in grado di darci; possiamo chiederle di aumentare la quantità di cibo che essa ci fornisce, ma a condizione di integrare le sostanze organiche delle quali s’impoverisce a causa del nostro prelievo. A lungo andare, l’interferenza dell’uomo sul sistema della natura, dominata da meccanismi economici irragionevoli e parossistici — produrre sempre di più, per consumare sempre di più, e così via, in un circolo vizioso senza fine, e sempre più distruttivo — rischia di farsi tale, da non consentirle di esserci più madre: rischia, cioè, di isterilirla, con le conseguenze a nostro danno che si possono facilmente immaginare.

Se la terra sia stata fatta per l’uomo, o se l’uomo ne sia un inquilino che si è auto-invitato, un po’ come il cuculo che si insedia nel nido dei passeri e sfrutta i genitori adottivi per farsi mantenere come un vorace parassita, dopo averne espulso i legittimi abitanti, è questione controversa e di difficile soluzione sul piano filosofico; né intendiamo anche solo tentare di rispondervi, almeno in questa sede. Quel che ci preme di evidenziare è che l’uomo, in ogni caso, non può semplicemente saccheggiare le risorse del pianeta, e poi utilizzare quest’ultimo come una immensa discarica dei prodotti di rifiuto, senza porsi il problema di trovare un equilibrio ragionevole fra le sue necessità vitali e quelle della madre terra, perché, una volta compromesse queste ultime, egli rischia l’autodistruzione. Dal punto di vista dell’equilibrio ecologico, l’uomo è, di per sé, una specie altamente destabilizzante: l’unica che non si adatta ai ritmi della natura, ma che pretende di adattare quelli a se stessa, modificandoli, manipolandoli, stravolgendoli, e creando addirittura una seconda natura, in gran parte artificiale, per supplire a ciò che la natura, spontaneamente, non sarebbe più in grado di offrirgli.

Mediante la concimazione artificiale, ad esempio, gli uomini sono capaci di far sì che un terreno, che, in condizioni naturali, potrebbe dare sostentamento a una popolazione di 1.000 persone, produca derrate alimentari per 3.000, 5.000 o 10.000, ossia per l’esportazione sul mercato; ma ciò significa immettere nel terreno, e poi nelle falde acquifere, oltre che nell’atmosfera, una quantità di sostanze chimiche, più o meno velenose e nocive, sia per le piante e gli animali, sia, in ultima analisi, per l’uomo stesso, che si nutrirà con quelle piante e con quegli animali da allevamento. Così pure, mediante una alimentazione opportunamente studiata, e tutt’altro che naturale, è possibile far sì che gli animali da allevamento producano delle quantità di carne, di lana, di latte, eccetera, tre, cinque, dieci volte superiori al normale: anche in quel caso, tuttavia, vi sarà un prezzo da pagare, sia in termini di salute dell’uomo stesso, sia in termini d’inquinamento ambientale, sia — perfino – in termini di dissesto degli equilibri ecologici. Per fare un esempio: nelle stalle moderne, concepite secondo criteri rigorosamente industriali, i prodotti della deiezione animale non vengono utilizzati per la concimazione della terra, come avveniva un tempo, ma vengono eliminati mediante potenti getti d’acqua, finiscono nei canali di scolo e, da lì, passano nei torrenti o nei fiumi vicini, e, dopo un lungo percorso, arrivano al mare, dove si depositano sul fondo e favoriscono — complice il riscaldamento del pianeta la temperatura sempre più mite delle acque marine – il fenomeno della eutrofizzazione (crescita abnorme delle alghe). Nello stesso tempo, per fertilizzare i campi, al posto del concime animale, che fa questa fine, ci si serve di concimi chimici, i quali contaminano i prodotti della terra e causano l’inquinamento delle falde acquifere.

Con l’introduzione degli organismi geneticamente modificati in agricoltura, e con la pratica della clonazione nell’allevamento del bestiame, gli ultimi, fragilissimi equilibri fra l’uomo e la terra si sono spezzati definitivamente. Si aggiunga che la popolazione mondiale seguita a crescere con ritmi impressionanti, per cui la domanda di cibo aumenta, anch’essa, in una misura tale che la terra stenta a fronteggiarla: vi sono ampie regioni del globo che sono ormai state sfruttate, dal punto di vista agricolo, oltre ogni limite, e che, per riprendersi e ricostituire il loro strato di humus, avranno bisogno di parecchio tempo. Lo steso avviene con le foreste, che vengono distrutte per fare posto alle coltivazioni o alla pastorizia; in compenso, crescono le superfici dei faggeti, dei pioppeti, degli oliveti, dei sughereti, dei lecceti e di molti altri tipi di boschi artificiali, coltivati per il legname, per la cellulosa o per i frutti, cioè per l’interesse economico che rivestono, non sempre e non solo legato alla produzione alimentare. Specialmente gli alberi a rapido accrescimento, destinati a fornire legname da costruzione o derivati della carta, vengono sottoposti a tagli frequenti e a frequenti nuove messe a dimora, mentre il terreno viene sottoposto a un incessante prelievo di sostanze minerali, che tende ad impoverirlo sempre di più. La pesca selvaggia, l’allevamento e l’agricoltura intesivi di tipo industriale, l’attività mineraria selvaggia, la deforestazione selvaggia, tutti queste cose prelevano dalla terra più di quanto essa possa dare; creano uno squilibrio ecologico, che il ricorso massiccio a fertilizzanti chimici o a pratiche di manipolazione genetica non riescono a ripristinare; e la terra, in deficit permanente di ricostituzione di ciò che le è stato sottratto, si inaridisce, si spopola, diventa un luogo inospitale, desolato.

Un interessante esperimento di ripristino della vegetazione, a scopo di allevamento, è stato fatto in Nuova Zelanda, pochi anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nella regione da pascolo situata sul versante orientale dell’Isola del Sud, fra la Piana di Christchurch e le pendici delle Alpi Neozelandesi. L’allevamento prolungato delle pecore aveva bruciato i pascoli e una successiva invasione di conigli aveva fatto il resto. Eppure, in quel paesaggio ostile, arido, brullo, un metodico e intelligente intervento da parte dell’uomo realizzò il piccolo miracolo di far ritornare il verde e di consentire la ripresa dell’allevamento, con un numero triplicato di animali.

Scriveva J. A. Lauwerys nel volume collettaneo Uomo, natura, ecologia, a cura di Sir Julian Huxley (titolo originale: Man, Nature ed Ecology, London, Aldus Books Ltd., 1969, 1974; traduzione dall’inglese di Elena Bona e Maria Vittoria Lorenzoni, Milano, Longanesi & C., 1974, pp.198-203):

Il problema del sovraccarico dei pascoli e del modo di rendere di nuovo produttive le praterie impoverite è stato studiato in molti paesi. Ad esempio, nel 1948 il Soil Conservation and Rivers Control Council della Nuova Zelanda comprò più di tremila ettari di terra pascolativa gravemente erosa nei Tara Hills, Isola del Sud. I terreni si trovano prevalentemente a un’altezza oscillante tra i quattrocento e i millecinquecento metri; hanno clima semiarido, con piovosità annuale di circa cinquanta centimetri.

Quando subentrò il Council, la maggior parte della terra al di sopra dei milleduecento metri era spoglia di vegetazione eccettuati isolati ciuffi d’erba. Il terreno nudo, specialmente sui fianchi più assolati, era colpito da grave erosione dovuta al vento, al ghiaccio e all’acqua; le gole d’erosione erano numerose. Tra i seicento e i milleduecento metri l’erba era ridottissima sui fianchi esposti al sole, più continua ma eccessivamente brucata sui lati più in ombra. I terreni sotto i seicento metri erano privi di qualsiasi vegetazione eccetto erbacce. Le uniche zone coperte di buona erba erano i coni di terriccio fine e sabbioso dilavato dai fianchi delle alture,c che si erano formati alla base delle gole d’erosione.

In questi prati la vegetazione naturale era cresciuta senza animali che la brucassero. Quando vi arrivarono i coloni all’inizio del diciannovesimo secolo, il gusto dell’erba matura locale risultò sgradito alle pecore. Gli allevatori affrontarono il problema bruciando regolarmente la vegetazione per favorire la crescita delle piante giovani, e costruendo recinti intorno a vaste distese di terra per separare i pascoli estivi dagli invernali. Dal momento che i pascoli estivi, che erano più in alto, potevano essere soltanto usati in una stagione relativamente breve, i pascoli invernali finivamo per subire uno sfruttamento troppo intenso. Le circostanze peggiorarono in modo drammatico intorno al 1870, quando i pascoli furono invasi da enormi quantità di conigli. L’azione ei conigli fu particolarmente grave sulle zone già troppo sfruttate.

È molto più facile distruggere i pascoli e terre arative che renderle di nuovo fertili: il suolo eroso non riacquista la fertilità in un batter d’occhio. Il programma stabilito dagli scienziati del Council per i Tara Hills, benché di natura sperimentale, doveva tener conto dei problemi pratici che il contadino comune deve affrontare. In particolare, doveva costare poco e fare in modo che almeno una parte dei pascoli fosse usata in continuazione mentre il resto era riportato alla fertilità. Il primo provvedimento consistette nel dimezzare all’incirca il numero delle pecore; si introdussero bovini perché brucassero le erbe più dure, e specialmente perché frenassero il diffondesi delle specie sgradevoli alle pecore; fu compiuto uno sforzo concertato per scacciare i conigli. Allo stesso tempo, si costruirono nuovi steccati per dividere la terra in appezzamenti meno estesi, e di ogni recinto si controllò accuratamente il numero di bestiame, per evitare di sovraccaricarlo. Si fecero ricerche su vari appezzamenti sperimentali ad altitudini diverse per scoprire quali erbe e legumi esotici (non indigeni) avessero la possibilità di crescervi rigogliosi. Si fece arrivare l’acqua nei terreni piani alla base delle montagne con un canale d’irrigazione derivato da un fiume vicino. Le terre piatte furono suddivise in piccoli recinti, che furono piantati a erba medica e trifoglio, in modo da integrare l’alimentazione invernale, e aumentarne il contenuto proteico. Gli alti pascoli, fino a milleduecento metri, furono seminati a erba e trifoglio.

Il programma ha avuto ottimi risultati. Con tutti i terreni di nuovo ricoperti di vegetazione (con specie sia locali sia esotiche), eccetto i più alti, si possono tenere più di tremila pecore contro le millecinquantatre esistenti quando ebbe inizio il programma, e la produzione di lana per pecora è quasi raddoppiata. In più i pascoli marengo circa centocinquanta capi di bovini, che sono non soltanto un utile vantaggio economico per il contadino, ma anche un fattore importante per conservare la qualità del pascolo. L’erosione e lo spreco d’acqua sono stati arrestati con la costruzione di terrazze che dirigono lo scorrimento delle acque piovane verso le zone in cui sono più necessarie.

La lezione che ricaviamo da questo modestissimo schema di bonifica dei pascoli si applica a ogni tipo d’agricoltura. Tanto la coltivazione delle piante quanto l’allevamento del bestiame costituiscono un’interferenza con i processi naturali. La vegetazione climax […] è in uno stato di equilibrio: resiste perché la produzione (crescita vegetale) è bilanciata dalle entrate (i materiali da cui dipende la produzione futura). In condizioni naturali il suolo è protetto da una copertura permanente di vegetazione, ed è mantenuto fertile dalla continua trasformazione di materie vegetali morte in humus.

Nell’Europa nordoccidentale, i coltivatori negli ultimi mille anni hanno imparato che ‘agricoltura è essenzialmente una transazione tra l’uomo e la terra; l’uomo deve rifornire il suolo, in cambio dell’alimentazione che ne trae, d’ingredienti nutritivi: concime, fertilizzanti artificiali e varie piante che arricchiscono il terreno. In tutto il corso della storia l’uomo, quando ha ignorato le clausole del contratto, ha pagato lo scotto: vaste distese fertili si sono trasformate in inutili deserti aridi. Il nostro mondo affamato non può permettersi oggigiorno di pagare un prezzo simile.

L’esperimento delle Tara Hills è stato significativo, ma non si devono trarre da esso, o da altri consimili, delle conclusioni maggiori delle premesse; non si deve scivolare in un ottimismo ingiustificato, perché vi sono parecchie ragioni per pensare che operazioni del genere hanno successo se condotte in ambito circoscritto e in presenza di condizioni particolarmente favorevoli, che di rado si presentano tutte insieme. La Nuova Zelanda costituisce un ambiente insulare molto isolato, nel quale è relativamente facile selezionare quelle specie animali e vegetali che possono fornire la resa migliore, eliminando quelle nocive. Ma è pur vero che queste ultime, talvolta, resistono in maniera sorprendente, e che alcune di esse si introducono a dispetto dell’uomo, come il caso del coniglio dimostra, moltiplicandosi in maniera tale da renderne poi difficilissima o impossibile l’eliminazione (come è accaduto, e in misura ancor più impressionante, in vaste zone dell’Australia). Insomma, l’uomo crede di riuscire a controllare tutto, di poter padroneggiare i processi innescati dall’introduzione di nuove specie, magari a solo scopo di diporto (come il cervo, sempre nel caso della Nuova Zelanda, dove mancano i grandi mammiferi indigeni), ma è quasi inevitabile che qualcosa, prima o dopo, vada storto e che si creino delle situazioni incontrollabili. Basta che si verifichi una sola smagliatura nella catena alimentare, ad esempio, perché la sopravvivenza di intere specie venga messa a rischio, con un effetto domino che può ripercuotersi su tutte le popolazioni di una determinata regione o di un intero continente; e questo senza contare il danno irreparabile, dal punto di vista floristico e faunistico, oltre che paesaggistico, prodotto dalla sostituzione di specie esotiche a quelle indigene.

Da qualunque parte si consideri la cosa, appare evidente che la terra è un unico, immenso organismo, che reagisce in solido a qualunque massiccio intervento umano, per quanto localizzato esso sia. Soltanto se diviene realmente consapevole di ciò, l’uomo può ragionevolmente pensare di continuare a chiedere alla terra di sostentare una popolazione che ha sfondato il limite dei sette miliardi di persone e che continua a crescere in maniera pressoché incontrollata (e a dispetto del crollo della natalità nei Paesi maggiormente industrializzati). Gli organismi geneticamente modificati sono stati presentati come la soluzione del problema alimentare mondiale, ma ciò è falso: il loro commercio, oltretutto sottoposto a monopolio da parte di poche grandi multinazionali – una in particolare, la Monsanto -, non serve a sfamare una popolazione in continua crescita nei Paesi del Sud del mondo, ma solo a moltiplicare gli utili del sistema finanziario e speculativo che li ha posti in commercio; senza contare che si tratta di organismi sterili, che il contadino deve tornare ad acquistare ogni anno, venendo così a trovarsi in uno stato di dipendenza permanente, cosa che lo spinge a coltivare non le piante alimentari di cui avrebbe bisogno per la sussistenza, ma le piante d’interesse industriale destinate all’esportazione. In pratica, l’agricoltura del Sud del mondo, per questa via, continua ad alimentare gli allevamenti bovini del Nord, che devono produrre la carne destinata ai consumatori ipernutriti dell’Occidente.

In definitiva, solo se vi sarà un profondo ripensamento ecologico, accompagnato da una nuova sensibilità e dal ritorno a uno stile di vita più sobrio, il prelievo eccessivo di risorse dalla terra potrà conoscere un rallentamento; la cosiddetta impronta ecologica dell’uomo, oggi pesantissima, potrà alleggerirsi (si pensi a quanti ettari di bosco sono necessari per la stampa di un solo giornale quotidiano, o a quanti milioni di ettolitri d’acqua servono per alimentare, ogni giorno, un grande impianto industriale); e gli equilibri della natura potranno, almeno in parte, ristabilirsi, consentendo il rinnovo di un patto fra l’uomo e la terra, fondato su di una più matura consapevolezza del suo carattere essenziale di transazione ragionevole.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by NastyaSensei from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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