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La frana del torrente Téssina a Chies d’Alpago è un colpo di coda della diga del Vajont?

Il monte Teverone è una bella montagna di 2.345 m. s l.m., che racchiude a occidente la chiostra dei Monti dell’Alpago, affacciati, da un lato, verso la conca del lago di Santa Croce, e collegati, dall’altro, con il Monte Cavallo (m. 2..251), dominante la pianura friulana occidentale, e con le pendici dell’Altopiano del Cansiglio (m. 1.000), ammantato da una delle più belle e più grandi foreste d’Italia, formata da faggi, abeti rossi e abeti bianchi.

Ai piedi del Monte Teverone, in comune di Chies d’Alpago, a monte del paese di Lamosano, si allunga un’ampia zona geologicamente dissestata, nota come "la frana del torrente Tessina", le cui origini sono piuttosto recenti: fu nell’ottobre del 1960, in seguito ad una serie di piogge straordinariamente abbondanti, che iniziò a verificarsi lo smottamento, interessante qualcosa come 1 milione di metri cubi di terra su un fronte di distacco largo 300 metri, a circa 1.100 m. di quota. Due anni dopo, nel dicembre del 1962, la frana si rimise in movimento, sempre in conseguenza di fortissime piogge autunnali, e giunse a sfiorare il piccolo paese di Funés. L’anno dopo, l’ampiezza del fronte franoso si era allargata a oltre 2.200 metri e si era spinta a soli 350 m. dal ponte sul torrente Tessina, sul lato nord del paese di Lamosano. A quel punto si calcolava che il volume complessivo della frana ammontasse già a parecchi milioni di metri cubi di materiale vario. Nel 1964, in primavera, come effetto del disgelo, la frana tornò a mettersi in movimento, scendendo ancora più a valle, mentre la nicchia di distacco s’andava allargando sempre più, specialmente per effetto delle precipitazioni piovose. Nel 1969, nel 1973, nel 1986, nel 1992 e soprattutto nel 1995, la frana ha ripreso a scivolare verso valle, avvicinandosi ancor più ai paesi di Funés e Lamosano. Testimonianze locali attestano che, nel corso degli anni Cinquanta, il Corpo Forestale dello Stato aveva eseguito dei lavori piuttosto maldestri e inconcludenti nel greto del torrente Tessina, ai piedi del Col Martin, creando delle buche di vaste dimensioni. Il loro scopo era quello di consolidare il terreno, ma, a quanto pare, essi hanno avuto l’effetto diametralmente opposto.

Fu solo verso la metà degli anni ’70, che, essendosi già verificati i primi danni, quando alche case di Funés erano state raggiunte dalla frana, che si pensò di eseguire dei lavori sistematici per rallentarla, essendo impossibile pensare di fermarla. Si trattava di canalizzare e convogliare opportunamente sia le acque del Tessina, sia quelle meteoriche, in modo che non contribuissero ad ingrossare e far smottare a valle ulteriormente la già enorme frana. Seguirono quasi vent’anni di tregua, durante i quali la frana rimase quasi ferma o avanzò pochissimo. Ma si trattava di palliativi; e lo si vide nel 1990, quando si verificò un nuovo distacco, questa volta in località Pelegona, che coinvolse ben 10 milioni di mq.: vale a dire, in un colpo solo, una quantità di terra e fango dieci volte più grande di quella che aveva dato inizio alla frana, nell’ottobre del 1960. Questo evento ha fatto capire che la strategia di contenimento doveva essere completamente rivista e che si dovevano impegnare mezzi molto più consistenti. Venne creata una vasta galleria drenante per raccogliere tutte le acque, sia del Tessina, sia delle numerose sorgive che fluiscono dalle pendici del Monte Teverone: un’opera lunga oltre 1200 m. e capace di raccogliere fino a 1.360 l./sec. in caso di forti piogge; la spesa è stata di parecchie migliaia delle vecchie lire (5.000 solo per lo stanziamento iniziale; tutte queste informazioni sono stare attinte dal sito info@funes.bl.it).

A questo punto, non può non sorgere un sospetto: la frana del Tessina si mise in movimento nel 1960; il disastro del Vajont si verificò il 9 ottobre del 1963, ma i getti per la costruzione della gigantesca diga erano iniziati nel 1958. La distanza, in linea d’aria, fra il torrente Vajont e il torrente Tessina, è relativamente breve: solo la Val Gallina separa il Monte Toc, a nord, dal gruppo del Dolada e del Teverone, a sud; ed è quanto mai verosimile che una intensa circolazione di acque di origine meteorica abbia luogo nel sottosuolo di queste montagne, geologicamente affini: rocce calcaree disposte ad anticlinale.

Questa ipotesi trova pieno riscontro nella monografia del geologo Giovanni Rienzi «La frana dell’alta Valle del T. Téssina nel territorio del Comune di Chies d’Alpago (Belluno) e il lago artificiale del Vajont», di cui riportiamo i passaggi-chiave (Belluno, Tip. Piave, 1979, pp. 3-20):

«Negli anni 1967-68 […] ebbi modo di osservare alla base delle pendici del M. Teverone la grande nicchia di distacco della frana del Téssina che negli anni precedenti (1960-66) aveva minacciato gli abitati di Funés e Lamosano, destando viva preoccupazione nel Bellunese, anche se in quello stesso periodo, nella vallata adiacente, si verificò la enorme catastrofe del Vajont. Il 9 ottobre 1963 una massa di circa 3 mil. di mc. di materiali, che costituiva la prima è parte del fianco sinistro del bacino artificiale, già in equilibrio precario fin dal periodo post-glaciale, e in accertato movimento dal maggio 1960, scese repentinamente sbarrando la valle, e facendo tracimare oltre 25 mil. di mc. d’acqua che travolsero Longarone, Rivalta, Pirago, Villanova, Faé […]Molti constatarono la contemporaneità dei due grandi fenomeni franosi sopradescritti, e sorse il sospetto che la rande frana del Téssina fosse in qualche modo legata all’invaso artificiale del Vajont. […] La grande frana con colata di fango dell’alta valle de torrente Téssina in Alpago (Belluno) ebbe inizio nell’ottobre 1960 […]

Il 30 ottobre 1960 una massa di circa un milione di mc. Di materiali si staccò dal versante destro della valle in località Stalle Moda di Sotto (Col Martino), in corrispondenza della strada Pedol-Roncadin, e travolse il ponte di collegamento fra Pedol e Funés […]. I movimenti franosi ripresero in modo più grandioso nel dicembre 1962, e in modo ancor più imponente ed impressionante nel novembre 1963, e continuarono quassi ininterrottamente negli anni 1964, 1965 e anche 1966: la nicchia di distacco si estese man mano verso l’alto fino a Stalle Moda di Sopra (quota 1.148) e verso il fianco sinistro, fino ad assumere l’aspetto di un enorme imbuto. Si ebbe in sintesi un collasso generale di tutta la parte occidentale della zona di testata del Téssina, agevolato dal fatto che soprattutto le parti inferiori dei lembi di terreno che man mano si staccavano si trasformavano in fango e colavano a valle. L’imponente colata fangosa che fluì a più riprese dalla base del grande svaso colmò la profonda valle fino a lambire l’abitato di Funés, sul crinale fra detta valle e quella adiacente del torrente Funesia, ed arrivò fino a Lamosano. […]

Per quanto riguarda le cause del grandioso fenomeno franoso,si è parlato, fino ad ora, soprattutto delle acque traboccanti dai calcari del M. Teverone; non si è tenuto conto di quelle che sgorgano copiosamente soprattutto dagli strati arenacei e calcarenitici del Flysch che si presenta chiaramente rovesciato in contropendenza. La zona compresa fra il Vajont e l’Alpago è costituita da terreni prevalentemente calcarei disposti ad anticlinale: l’anticlinale M. Coppolo – M. Pelf, che qui presenta una culminazione secondaria, con direzione E-W, denominata anticlinale della val Gallina. […] Il solo esame litologico dei terreni attraversati [da una perforazione eseguita dall’AGIP Mineraria, nel 1960, alla ricerca di idrocarburi nella Val Gallina], fono a 2.613,70 m di profondità, mise in evidenza grosse anomalie: sotto le dolomie del Trias superiore, affioranti nel nucleo della piega, si rinvennero, a circa 1.800 m, i calcari oolitici del Dogger ed altri terreni giurassici, cioè terreni più giovani di quelli soprastanti. L’anticlinale della Val Gallina risultò quindi interessata in profondità da notevoli dislocazioni con sovrascorrimento della piega affiorante verso sud ed accavallamento sui calcari del Dogger. […] La zona compresa fra la valle del Vajont e l’Alpago è dunque costituita da terreni dolomitici e calcarei che risultano non solo piegati, ma ampiamente accavallati con sovrascorrimento verso sud. Le numerose spaccature e faglie sia parallele che trasversali, visibili sul terreno, mettono ancor più in evidenza la grandiosità e complessità di questo fenomeno, e gli ulteriori movimenti cui è stata sottoposta la zona nelle successive fasi orogenetiche. […] Le rocce in prevalenza calcaree e dolomitiche della zona compresa fra la valle del Vajont e l’Alpago, essendo state sottoposte ad intensi sforzi tettonici, risultano molto fessurate e fratturate, e quindi molto permeabili: le fatturazioni hanno interessato tutti i terreni, compresi quelli più rigidi del Dogger dove è stata impostata la diga del Vajont. Non vi sono dubbi che le acque meteoriche possano trovare facili vie di penetrazione per alimentare la falda freatica profonda, la cui base non è escluso possa coincidere, almeno in parte, con la grande superficie di sovrascorrimento sopra ricordata.I pozzi pierometrici, perforati nel 1961 sul fianco sinistro della valle del Vajont, misero in evidenza una falda freatica il cui livello, oltre una certa quota, seguiva pressoché esattamente e rapidamente le variazioni di livello del serbatoio. Questo fatto dimostrava, oltre che l’elevata permeabilità del versante, che il lago portava il livello della falda ad una quota superiore ai 700 m., molto maggiore di quella che aveva prima della costruzione della diga le cui fondazioni si trovano alla quota di m 463,90. Tenendo conto che i terreni calcarei della zona sono molto permeabili per fessurazione, è fuor di dubbio che il bacino artificiale determinò un innalzamento della falda di qualche centinaio di metri. […] A causa della resistenza opposta dalle sottili fessure della roccia [in una falda freatica posta al di sotto di una dorsale permeabile con la base permeabile inclinata], il pelo freatico si solleva fino a determinare movimento dei filetti idrici verso entrambi i versanti. È evidente che il sollevamento del livello della falda da un lato, determina maggiori afflussi dall’altro.In altre parole, il lago artificiale del Vajont, impregnando d’acqua tutta la zona circostante, rese possibile, nei periodi piovosi, un maggior deflusso di acque sotterranee verso l’Alpago. La colossale diga del Vajont, la più alta diga del mondo ad arco coi suoi 261,60 m di altezza, fu costruita nel periodo dal luglio 1957 all’autunno 1961: il bacino artificiale, al massimo invaso di quota m 722,50, aveva una capacità di 150 mil. di mc, era lungo oltre 5 Km, ed aveva una profondità massima di 258 m. Il primo invaso sperimentale ebbe inizio nell’anno 1960 e fu interrotto a quota 652 il 4 novembre di quel’anno per un imponente crollo dal versante sinistro e per la comparsa della grande fessura perimetrale ad M (margine della nicchia di distacco della grande frana del 9 ottobre 1963). […]

Il secondo invaso sperimentale si ebbe nell’anno 1962: il livello del lago fu portato lentamente alla quota di m 700 raggiunta nel novembre di quel’anno. Seguì il secondo svaso fino alla quota di m. 647 raggiunta nell’aprile 1963. Il terzo invaso, iniziatosi nello stesso mese di aprile, portò il livello a m 710 nel settembre 1963; il terzo svaso, reso necessario dall’aumento di velocità di spostamenti dei capisaldi di controllo del versante sinistro, fui tragicamente interrotto dalla catastrofe del 9 ottobre 1963, quando il serbatoio era a quota 700,4. La grande frana sbarrò completamente la prima parte del bacino artificiale, per cui a monte si formò un ampio lago naturale, il lago di Erto, il cui livello (quota 713) era destinato ad aumentare a causa degli afflussi naturali dell’alto Vajont

Il problema della vuotatura di questo lago residuo o almeno il contenimento del suo livello entro limiti di sicurezza fu allora risolto (22 febbraio 1964, quota lago 723,90) per mezzo di una installazione di pompatura che sollevava le acque al di là della Sella di S. Osvaldo, convogliandole nel torrente Cimoliana. […] L’alluvione del 4 novembre 1966 riportò il lago al livello di m 640-650 che mantenne fino al maggio 1967 allorché fu definitivamente vuotato. […] Da quanto esposto risulta che la grande frana del Téssina (o di Lamosano), fra le più grandi verificatesi nelle Alpi in epoca storica con oltre 10 mil. di mc di materiali fluidificati, è stata determinata indirettamente dal lago artificiale del Vajont.».

Ed ecco la conclusione, scioccante, ma chiarissima. Fu la creazione del lago artificiale del Vajont a impregnare d’acqua i terreni rivolti verso l’Alpago: fu quella la vera origine della frana del Tessina. A oltre mezzo secolo di distanza, la sciagurata diga più alta del mondo non ha ancora finito di provocare dissesti, pericoli e spesa di denaro pubblico. Ci dispiace che questa tesi circoli così poco: tutti dovrebbero conoscerla, affinché tutti possano riflettere su quanto sia imprudente intervenire con leggerezza sugli equilibri idrogeologici, in montagna. Ci pensino, i pubblici amministratori: ad esempio, quelli di Vittorio Veneto, impegnati nel controverso traforo di Santa Augusta. Anche quella è una zona geologicamente fragile (frana del Fadalto); ed è già stata ampiamente manomessa per la costruzione dell’autostrada lungo la Val Lapisina. Da tempo, la notte, si odono sinistri boati…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by NastyaSensei from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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