
Amare e voler bene sono due cose profondamente diverse; ma perché?
29 Luglio 2015
In Michelangelo v’è lo slancio doloroso dell’anima a Dio, ma ancora frenato dall’ ego
29 Luglio 2015Seneca è uno dei filosofi antichi che si sono posti più lucidamente la domanda circa il senso dell’idea di progresso, e vi ha risposto in maniera piuttosto netta: la società umana non deve lasciarsi abbagliare dal progresso; esso non è un bene in se stesso: perché il bene risiede nello stato di natura, e il progresso consiste, per l’appunto, nell’allontanarsi dalla natura, dunque nell’allontanarsi dal bene, dalla virtù e dalla felicità.
Seneca tratta esplicitamente questo argomento nelle «Epistulae ad Lucilium», precisamente nella novantesima epistola: in essa egli sostiene che il progresso delle arti non è opera dei filosofi, i quali si occupano delle cose essenziali, che sono quelle interiori, spirituali, non delle condizioni materiali dell’esistenza. Di queste ultime si occupano coloro i quali perseguono un proprio vantaggio, desiderano guadagnare di più, o avere un raccolto più abbondante, o costruire delle navi capaci di viaggiare più lontano e di trasportare una maggiore quantità di merci; di conseguenza, si tratta di invenzioni che migliorano, sì, le attività umane, nel senso di renderle più facili, più frequenti e più redditizie: ma non introducono alcun reale miglioramento nella sfera della vita morale, o nel pensiero, o nella conoscenza dei fini e dei doveri della vita umana. Sarebbe vano, pertanto, attendersi da tali cose un reale progresso degli esseri umani.
La distinzione operata da Seneca fra gli scopi pratici delle invenzioni e le modalità disinteressate del vero sapere, ossia del sapere filosofico, anche se risente, senza dubbio, del disdegno della civiltà classica, e specialmente di quella romana, nei confronti dei lavori manuali aventi scopo di lucro, e della esagerata ammirazione per gli "otia" letterari, visti come oasi spirituali che il saggio si ritaglia nella dimensione materiale dell’esistenza, onde conservare la propria libertà interiore, non si può, tuttavia, liquidare frettolosamente, come tipica espressione di una cultura aristocratica che guarda dall’alto in basso i lavori materiali, dei quali peraltro si serve per assicurarsi la tranquillità dell’animo, ma in modo parassitario e, sovente, attraverso il meccanismo del lavoro schiavistico. Essa, infatti, contiene un nocciolo di verità, che non solo è difficile contestare, ma che risulta più che mai attuale nella civiltà moderna, che del progresso illimitato ha fatto la propria stella polare e, quasi, la propria religione, nonché la propria giustificazione ideologica: che cosa non si giustifica, infatti, in nome di questa potente, ma imperscrutabile divinità, chiamata Progresso? Eppure, bisognerebbe prendersi la briga di distinguere fra "sviluppo" e "progresso", e riconoscere che non può darsi alcun vero progresso umano, laddove vi sia un semplice sviluppo delle forme materiali dell’esistenza, del lavoro, della produzione e del commercio; e che una umanità spiritualmente anchilosata, immatura, straziata da insanabili contraddizioni, non può, né mai potrà presentarsi come "progredita", per quanto potenti siano i mezzi che la tecnologia le mette a disposizione onde modificare in maniera sempre più invasiva gli equilibri della natura.
In effetti, non è neanche del tutto vero che Seneca sia un nemico del progresso; affermarlo, sarebbe come dargli dello stupido: come potrebbe essere, un uomo intelligente, nemico del progresso, di qualunque forma di progresso? Come potrebbe, un uomo intellettualmente onesto, sostenere che dobbiamo ritornare allo stato di natura, e che tutto quanto la civiltà ha prodotto per rendere più sicura e confortevole la nostra esistenza, è male in se stesso (chi, intendiamo dire, tranne i balordi illuministi alla Rousseau, creatori del mito del Buon selvaggio)? Seneca, in realtà, non odiava, né disprezzava l’idea di progresso, e ciò che di positivo esso produce; ma criticava la concezione secondo la quale il progresso materiale porta automaticamente con sé anche quello spirituale; ovvero che quest’ultimo perde ogni importanza e ogni scopo nella vita umana, purché sia possibile assicurare ad una data società umana il solo progresso materiale.
Osserva a questo proposito Luciano Perelli (in: Antonio La Penna, «Scrittori latini», Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1977, vol. 2, pp. 259-260):
«L’epistola 90 si svolge in chiave polemica contro la dottrina del progresso di Posidonio, filosofo dello stoicismo di mezzo, vissuto fra il II e il I secolo a. C. Posidonio fu uno dei pochi tra i pensatori e gli scienziati antichi che si preoccuparono di stabilire il contatto, generalmente trascurato, fra conoscenza scientifica e applicazione tecnica, fra speculazione filosofica e mondo del lavoro; egli visse nell’età ellenistica, che fu la più feconda per questo rispetto, come attesta l’esempio illustre di Archimede.
Secondo Posidonio i primi uomini vivevano in condizioni misere dal punto di vista materiale, ma moralmente incorrotti; essi si affidavano al governo dei migliori e dei più sapienti, i quali non solo istituirono le leggi, ma inventarono altresì tutte le arti e gli strumenti tecnici rivolti al miglioramento delle condizioni di vita: insegnarono l’arte del costruire le case, scoprirono la fusione dei metalli di ferro e di bronzo e fabbricarono gli strumenti utili alla tessitura, all’agricoltura, alla macinazione e cottura dei cibi, alla costruzione delle navi.
Seneca obietta a Posidonio che queste invenzioni non possono essere opera di filosofi, ma bensì di operai, di tecnici, di uomini che adempiono a funzioni servili: i filosofi hanno dei compiti ben più alti, e non possono occuparsi di cose così meschine. Accanto al disprezzo delle arti manuali, tipico della società classica, che conduce alla netta distinzione tra scienza e tecnica, vi è un altro motivo che induce Seneca a negare ai filosofi l’attribuzione delle invenzioni: egli ritiene che le scoperte miranti a un maggior benessere materiale corrompano l’uomo, soddisfacendo la sua brama insaziabile di piaceri e di agi e rendendolo schiavo del proprio corpo. Seneca rimpiange lo stato di natura, quando l’uomo viveva felicemente accontentandosi di soddisfare i bisogni necessari, a cui la natura provvede largamente: ora il progresso materiale ha complicato l’esistenza, rendendola più inquieta, e allontanando l’umanità alla felicità e dalla virtù.
L’atteggiamento negativo di Seneca verso il progresso tecnico va posto in relazione con le condizioni storiche in cui vive. I progressi della tecnologia nell’antichità incontrarono diffidenza da parte del potere politico, che vedeva un pericolo per l’equilibrio sociale ed economico esistente, se essi avessero portato a una modifica radicale dei mezzi di produzione e delle condizioni del lavoro. Pertanto i tecnici si limitarono a escogitare ritrovati che rendessero più comoda la vita dei ricchi, il che non poteva turbare l’equilibrio sociale: le invenzioni che Seneca deplora sono tutte di questo genere, nessuna giova ad aumentare la produzione, a compiere il lavoro con minor impiego di energia umana. Il progresso tecnologico è collegato da Seneca con la società consumistica, con la vita lussuosa e tumultuosa delle metropoli: questo, insieme con altri motivi che sarebbe lungo illustrare, spiega l’aspirazione al ritorno alla natura, comune agli intellettuali dell’epoca.»
Tutto chiaro, dunque? Seneca non è altro che il critico dell’egoismo di classe, caratteristico dei ricchi, del loro inutile lusso — l’unica forma di tecnica che egli conosceva, si direbbe -, mentre, se avesse potuto conoscere la tecnologia socialmente utile, quella mirante a rendere più agevole e rapida la produzione, sarebbe stato un suo difensore, o, quanto meno, non vi si sarebbe opposto, né avrebbe mostrato alcun disdegno nei suoi confronti?
Piano: non ci sembra che si possa correre così in fretta, come suggerisce il Perelli; né che si possa fare la storia del suo pensiero con i "se"; né che la si possa ridurre esclusivamente entro l’angusto orizzonte culturale (e politico) dell’età sua. A noi pare, al contrario, che si farebbe troppo torto a Seneca, ove non si vedesse che la sua critica nei confronti dei pericoli rappresentati dal progresso tecnico non è puramente contingente, né determinata dal ristretto orizzonte del suo tempo, ma che essa, al contrario, nasce da una riflessione universale del problema, una riflessione che – sia detto per inciso — non solo non ha perso nulla del suo smalto, ma ci appare anzi, ai nostri giorni, come straordinariamente attuale e, dunque, eccezionalmente lungimirante, quasi profetica.
Che cosa teme, infatti, Seneca? Teme una tecnica che sfugga di mano all’uomo e che, in nome delle agevolazioni e delle comodità che essa è in grado di portare nella vita umana, incoraggi fin troppo l’umana tendenza ad accontentarsi di vivere nel modo più comodo, non nel modo più degno; a cercare non la verità e la giustizia, ma l’utile e il profittevole; a non curarsi più dei fini e dei valori dell’esistenza, ma a restringere la riflessione unicamente all’ordine della ragione strumentale, ovvero a selezionare i mezzi più idonei per realizzare determinati lavori o determinate prestazioni, con la minore fatica e nel tempo più breve possibile.
Teme, inoltre, il buon Seneca, una scienza che sfugga completamente dalle mani degli scienziati, ovvero dei filosofi (i due concetti sono, in sostanza, equivalenti: quello che conta è distinguere la verità certa, l’"epistème" dei Greci, guida e metro di giudizio dell’uomo saggio e sapiente, dalla verità solamente probabile, di cui si accontenta l’uomo "pratico" (la "doxa" dei Greci), che oggi sembra indicare una direzione, domani ne segnerà un’altra, magari del tutto diversa. Ebbene, questi "tecnici" rischiano di diventare i veri padroni del mondo di domani, i veri artefici del nostro destino: non solo le opinioni, ma anche le leggi, la politica, l’economia, la morale stessa, finiranno per doversi inchinare e adattare alla realtà "fattuale" costruita dalla loro opera, e, in tal modo, perderà qualsiasi razionalità intrinseca, ovvero relativa ai fini e agli scopi, per ridursi a girare in circolo, come un cane che si morde la coda, nel solo mondo della razionalità strumentale, ove non è importante che una cosa o una azione abbiano un senso, ma è sufficiente che siano perseguite con criteri razionali, improntati alla quantità, alla comodità, alla convenienza.
E questa sorta di dittatura dei tecnici – simile a quella denunciata, nel Novecento, da pensatori come Ernst Jünger – sarà, per forza di cose, una dittatura tanto più temibile e pervasiva, quanto più sarà mascherata e, semmai, percepita come provvidenziale dai cittadini-lavoratori-consumatori, presi nel folle circolo vizioso della produzione del consumo fine a se stessi, e schiavizzati dai meccanismi spersonalizzati della finanza e della speculazione. Basti vedere con quanta naturalezza, oggi, non solo il cittadino "medio", ma anche gli intellettuali — un esempio fra tutti: Luciano Perelli, autore del brano sopra citato — tendono a parlare e a ragionare della "tecnica" come di un bene in se stesso, assolutamente auto-evidente, che non c’è alcun bisogno di giustificare, dato che essa è il segno e lo strumento principale della religione del Progresso, e il Progresso non si discute: lo si può solamente adorare incondizionatamente.
Ora, è verissimo che il ritorno allo stato di natura è una sciocchezza bella e buona, e che il rifiuto, o il disprezzo o la negazione di alcuni aspetti positivi del progresso tecnico, entrati, ormai, a far parte delle nostre vite, sarebbe non solo impossibile, ma anche intellettualmente ipocrita, in quanto criticherebbe una cosa senza la quale nemmeno la critica sarebbe possibile; ma è altrettanto vero che parlare della tecnologia come di un bene auto-evidente, e mostrarsi sdegnosi verso chi ne contesta il valore taumaturgico intrinseco, sono atteggiamenti del pari ingiustificabili e disonesti, privi di qualsiasi dignità filosofica. In filosofia, infatti, non ci si deve domandare se una cosa sia "irrinunciabile", ma se sia buona o cattiva in se stessa; e, se si trova che, in se stessa, non è buona né cattiva, ma che un suo sviluppo irresponsabile, sciolto dall’obbligo di rendere conto dei propri scopi e dei valori su cui si fonda, la rende cattiva, ossia dannosa per la società, quel che bisogna fare è rendersi conto del pericolo e adottare immediatamente tutte quelle strategie che possono ridurre i rischi e valorizzare, al contrario, i possibili aspetti positivi, ma essi soltanto.
Marx, per fare un esempio, pensava che il sistema di fabbrica fosse buono in se stesso, e che a renderlo cattivo fosse solo la circostanza che esso veniva utilizzato egoisticamente da coloro che ne erano divenuti proprietari, defraudando la collettività di quanto le spettava e sfruttando i lavoratori, al punto da renderli schiavi delle macchine; però, una volta che le cose fossero state rimasse a posto e che i mezzi di produzione fossero stati sottratti ai borghesi cattivi (magari sterminandoli) per metterli a disposizione dei lavoratori, tutto sarebbe andato nel migliore dei modi e la tecnica avrebbe assicurato all’intero corpo sociale le "magnifiche sorti e progressive".
Non è così, invece. Non solo la tecnica delle società socialiste ha contribuito al collasso ecologico planetario, ormai palese ai nostri giorni, in misura pari, se non maggiore, a quella delle società capitaliste; ma, soprattutto, non ha affatto assicurato la "liberazione" dell’uomo. Seneca, dunque, diffidando d’un mero progresso tecnico, non si era poi sbagliato di tanto; certo, meno di quanto si sbagliano gli araldi quel progresso, ove sia avulso da una piena e matura consapevolezza spirituale.
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