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Processare il Kaiser?

Il 10 novembre 1918, da Spa, ove risiedeva presso il Quartier generale dell’esercito, l’ultimo imperatore tedesco, Wilhelm II di Hoehnzollern, passò la frontiera dell’Olanda, dopo che il socialdemocratico Ebert era diventato il nuovo cancelliere e mentre la rivoluzione minacciava di estendersi ai soldati dello stesso Quartier generale. Il giorno dopo il governo tedesco firmava l’armistizio con gli Alleati e, alla fine di novembre, Wilhelm II redigeva un atto formale di abdicazione, ritirandosi come privato cittadino a Doorn, dopo aver chiesto e ottenuto dal governo olandese asilo politico.

Per gli Alleati, tuttavia, questa uscita di scena incruenta, avvenuta quasi in punta di piedi, non appariva come una soluzione soddisfacente del problema politico rappresentato dalla Germania sconfitta. Avendo essi imposto ai rappresentanti tedeschi, a Versailles, di sottoscrivere una dichiarazione in cui si assumevano, per conto del loro Paese, tutt’intera la responsabilità di aver scatenato la Prima guerra mondiale, ne discendeva il "logico" corollario che era necessario, anzi, doveroso, mettere le mani su colui che, giuridicamente, rappresentava tale responsabilità: il Kaiser, Wilhelm II. E così, con l’articolo 27 del Trattato di Versailles, questi venne ufficialmente accusato di aver recato «offesa suprema alle convenzioni internazionali e alla santità dei trattati», con speciale riferimento alla guerra sottomarina e all’invasione del Belgio neutrale. Il 4 giugno 1919 venne deciso dal Consiglio supremo alleato che il kaiser doveva essere sottoposto a processo, e, nel gennaio del 1920, venne ripetutamente presentata al governo olandese una formale richiesta di estradizione nei suoi confronti.

Se l’obbrobrio giuridico del processo di Norimberga, nel quale i vincitori pretesero di ergersi a giudici dei vinti, non venne anticipato di un quarto di secolo, ciò fu dovuto esclusivamente alla dignità e alla fierezza del governo olandese che, dopo essersi fatto dare la parola d’onore dell’ex imperatore che questi si sarebbe astenuto da qualunque attività politica, respinse ogni volta le richieste degli Alleati e garantì all’esule un ritiro quieto per tutti i vent’anni che gli restavano da vivere (si spense il 4 giugno 1941, non senza aver dichiarato, nel 1938, in seguito alle leggi razziali antisemite, di vergognarsi d’essere tedesco).

Gli Alleati, dunque, volevano processare il Kaiser: gli Inglesi in special modo. Gli Inglesi che, nel 1898, avevano voluto portare alla regina Vittoria, per iniziativa del generale Kitchener, la testa del Mahdi, dopo averne profanato la tomba; gli Inglesi che, nel corso della guerra contro i Boeri (1899-1902), inaugurarono la pratica dei campi di concentramento, nei quali trovarono la morte migliaia di donne e bambini i prigionieri (per la precisione, vi perirono 26 mila bianchi, su un totale di 100.000 deportati, e altrettanti indigeni loro alleati); gli Inglesi che, il 4 agosto del 1914, avevano dichiarato guerra alla Germania per difendere i diritti della neutralità belga violata e il valore dei trattati internazionali, e non perché, da anni, avevano deciso di fermare l’ascesa finanziaria, industriale, commerciale e navale tedesca, a qualunque costo; gli Inglesi, che avevano gridato alla barbarie davanti alla guerra sottomarina, ma non si erano mai fatti scrupolo di affamare interi popoli e nazioni con il loro blocco marittimo. Ora, agli occhi di quel popolo di "gentlemen", il Kaiser incarnava appunto questi aspetti, da esso ritenuti particolarmente odiosi, della politica militare tedesca: il disprezzo verso i trattati internazionali e l’incuranza per la condotta cavalleresca della guerra; per questo Wilhelm II andava processato, sì che, nella sua persona, l’opinione pubblica mondiale condannasse la politica della Germania e approvasse, per converso, quella della Gran Bretagna.

Più che mai pertinenti ci paiono le osservazioni che fece in proposito, e a caldo, Mario Missiroli, uno di quei grandi giornalisti che l’Italia un tempo ebbe e che ora non ha più (in: M. Missiroli, «Opinioni», prima edizione: Firenze, La Voce, 1921; Milano, Longanesi, 1956, pp. 47-48):

«Non si legge senza profonda commozione la nota con la quale l’Olanda nega all’Intesa l’estradizione del Kaiser:

"Il diritto e l’onore nazionale, il cui rispetto è un sacro dovere, e il popolo olandese, animato da sentimenti, dai quali nella storia il mondo rese giustizia, non potrebbe tradire la fede di coloro, che si affidarono alle sue libere istituzioni."

Auguriamoci che non se ne parli più. La richiesta del Kaiser era un’iniziativa inglese, l’ultima menzogna del sistema britannico. Avendo preparato la guerra, costante preoccupazione dell’Inghilterra fu quella di declinarne la responsabilità. Di qui la ricerca dei "colpevoli" e l’assurda pretesa di processare la storia. Per la Francia la richiesta del Kaiser rispondeva, oltre che agli istinti di crudeltà, propri della razza, al piano politico della borghesia plutocratica, che, condannando in un "regolare" processo un imperatore, si preparava un grandioso precedente per giustificare la persecuzione contro i socialisti massimalisti e i bolscevichi. Per l’Italia, immemore di avere trovato nel Kaiser l’unico sostegno e l’unico conforto dopo la tragedia di Adua, preparataci da inglesi, francesi e russi era una delle tante dedizioni alla volontà degli alleati.

La regina di Olanda, rivendicando contro i pubblicani ed i farisei i sensi dell’umanità e della cavalleria, pone fine a questo orrore giuridico e morale. Nella patria di Spinoza l’ex imperatore troverà quella pace, che gli uomini non possono né togliere né donare.

Vien fatto, ora, di pensare ad un precedente storico pieno di significato e di utili ammaestramenti. Dopo la gloriosa difesa di Roma del 1849, Garibaldi, rifugiatosi a San Marino, trovò, nell’Austria, sentimenti di ben altra umanità. La vecchia monarchia si limitò a chiedere la consegna delle armi alla minuscola repubblica, mentre Garibaldi e la moglie avrebbero dovuto salpare per l’America. È noto che tali condizioni parvero inaccettabili al generale, che poté fuggire attraverso le file dell’esercito austriaco che finse di non vederlo.»

Il fatto è che, per la Gran Bretagna, un processo solenne e una spettacolare condanna del kaiser non rappresentavano solo un importantissimo obiettivo politico, ma anche una specie di accreditamento morale agli occhi dell’opinione pubblica del mondo "libero", che appunto le democrazie anglosassoni rappresentavano, e, nello stesso tempo, una rivalsa e una calcolata vendetta per punire l’uomo-simbolo della potenza che aveva osato sfidare la supremazia britannica sui mari. Come dimenticare o "perdonare", infatti, la sostanziale sconfitta che l’orgogliosa della Flotta britannica, signora degli oceani da almeno tre secoli, aveva subito ad opera di quella germanica, nella battaglia navale dello Jutland (31 maggio-2 giugno 1916)?

Per la Gran Bretagna (e per il presidente americano Woodrow Wilson, suo principale e decisivo alleato), la Prima guerra mondiale non era stata una delle tante guerre per la supremazia, combattute in Europa e nel mondo, a partire dalla Guerra dei Sette anni (1756-1763), che aveva fruttato a Sua Maestà britannica il Canada e l’India; e non era stata, nemmeno, una lotta pura e semplice per la vita e per la morte, cioè per decidere chi delle due, la Gran Bretagna o la Germania, sarebbe cresciuta, economicamente e politicamente, eliminando una volta per tutte la rivale, come era avvenuto nelle guerre fra Roma e Cartagine: era stata, soprattutto, una guerra ideologica, fra l’ideale della democrazia (per Vilfredo Pareto: della plutocrazia demagogica) e il militarismo prussiano (sempre per Pareto, della plutocrazia militare). Ora bisognava far vedere all’opinione pubblica mondiale, a quella dei Paesi neutrali e anche a quella dei Paesi sconfitti, che l’idea democratica aveva vinto perché intrinsecamente superiore e moralmente più nobile, mentre il militarismo aveva perso perché rappresentava una forma di governo ottusa e brutale (non erano forse stati presentati, i Tedeschi, come dei moderni "barbari", e il kaiser come il loro Attila?), e non già perché le potenze anglosassoni avevano letteralmente soverchiato gli Imperi centrali con la loro immensa superiorità di risorse umane e materiali.

Dunque: bisognava processare il kaiser per infliggere una condanna esemplare a colui che riassumeva nella propria figura e nel proprio ruolo tutto ciò contro cui i popoli delle Potenze alleate avevano combattuto per più di quattro anni, versando fiumi di sangue e spendendo montagne di denaro: bisognava mettere l’Orco alla sbarra e poi chiuderlo in gabbia, così come nel Medioevo si chiudeva in una gabbia di ferro il condannato e poi la si esponeva dall’alto delle mura, sotto gli sguardi di tutti, finché il tempo e gli agenti atmosferici non ne avevano ridotto in polvere i miseri resti, quale solenne ammonimento a futura memoria.

Non era forse per questo motivo che circa un secolo prima, all’indomani della battaglia di Waterloo, Napoleone Bonaparte era stato deportato nell’isola di Sant’Elena, nelle fredde e remote solitudini dell’Oceano Atlantico meridionale, in modo che il mondo intero fosse ammonito sulla sorte che attendeva chiunque osasse mettere in pericolo la supremazia mondiale dell’Impero britannico? E che soddisfazione era stata, per il meschino governatore di quel minuscolo lembo di terra circondata dai flutti, per quel burocrate lillipuziano, poter perpetrare i suoi calcolati dispetti ai danni del gigante ormai domato e abbandonato da tutti, ad esempio facendo tagliare l’albero alla cui ombra Napoleone amava riposare e meditare: era stato come se, attraverso il piccolo Sir Hudson-Lowe, lo stesso ministro degli Esteri, Lord Castlereagh, e, con lui, tutto il popolo del Regno Unito, dal sovrano Giorgio III di Hannover, fino all’ultimo suddito, avesse gustato l’acre piacere della rivincita, al termine di una lotta ventennale, senza esclusione di colpi.

Ripetere, nel 1919, ciò che era stato fatto nel 1815, questa volta non con l’imperatore dei Francesi, ma con l’ex imperatore dei Tedeschi: un evento del genere sarebbe stato più utile e più gratificante di cento trattati diplomatici, e avrebbe parlato più chiaramente, nei confronti dell’opinione pubblica internazionale, di qualsiasi pezzo di carta che potesse mai uscire dalla Conferenza di pace di Parigi: avrebbe mostrato a tutti, in ogni angolo del globo terracqueo, e con una forza simbolica dirompente, chi avesse realmente vinto e chi avesse perso, al termine della titanica lotta svoltasi fra il luglio-agosto del 1914 ed il novembre del 1918.

Si sarebbe potuto caricare sulle spalle del kaiser, sconfitto e umiliato, anche il crimine della guerra sottomarina e quello dell’invasione del Belgio neutrale, sempre per evidenziare il fatto che la Gran Bretagna e i suoi alleati non avevano combattuto per dei fini egoistici, ma per il trionfo della libertà dei mari (cioè, in pratica, del monopolio britannico) e per ristabilire il diritto internazionale, ingiustamente violato. Ma proprio qui, appunto, avrebbero potuto incominciare a sorgere dei problemi e avrebbero potuto crearsi degli sgradevoli effetti collaterali.

Primo: l’Olanda non intendeva cedere ed estradare il kaiser; l’Olanda, una piccola, ma fiera nazione, come il Belgio; e, se gli Alleati avessero insistito con le loro pressioni diplomatiche, avrebbero dato la spiacevole impressione di sfoggiare la stessa arroganza che gli statisti germanici avevano mostrato nel luglio del 1914, ai danni del governo di Bruxelles. Non solo: l’Olanda era una nazione democratica: dunque, il suo governo godeva di un ampio sostegno popolare e rappresentava lo stesso principio di libertà che l’Intesa e gli Stati Uniti, nel corso della guerra, avevano incarnato, e preteso di difendere a qualunque costo.

Secondo: se gli Alleati avessero rinfacciato al kaiser la responsabilità della guerra sottomarina indiscriminata, questi non avrebbe potuto ribattere che la Gran Bretagna e i suoi alleati avevano condotto un disumano blocco marittimo ai danni delle Potenze centrali, condannando alla fame centinaia di milioni di persone, in spregio ad ogni distinzione tra forze nemiche combattenti e popolazioni civili, assolutamente inermi? (Cfr. il nostro precedente articolo: «Violando i diritti dei popoli la Gran Bretagna affamò gli Imperi Centrali», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 05/03/2008). E chi può dire se la terribile epidemia di influenza spagnola, che colpì l’Europa e il mondo a guerra finita, mietendo qualcosa come 50 milioni di vite, non fu la conseguenza della denutrizione dei suoi cittadini, dovuta, in gran parte, proprio agli effetti del blocco marittimo?

Terzo: se la Germania violò i trattati internazionali, invadendo il Belgio neutrale nel 1914, che cosa si sarebbe potuto dire dell’intervento alleato in Grecia, nel 1916, cioè in un altro Paese neutrale?

Troppe e clamorose sarebbero state le contraddizioni in cui gli accusatori sarebbero incorsi; avrebbero rischiato di vedersi incriminare a loro volta. Per questo, Wilhelm II fu lasciato in pace…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Tingey Injury Law Firm su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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