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Alexander Dalrymple fu l’ultimo geografo ad abbandonare il mito della Terra Australe

Fin dai lontani tempi di Tolomeo la comunità dei dotti aveva immaginato che, per fare da contrappeso alla massa delle terre emerse settentrionali — Europa, Asia ed Africa — esistesse, nell’emisfero meridionale, una massa all’incirca altrettanto estesa di terre ancora sconosciute e inesplorate, la cosiddetta Terra Australis Incognita: credenza che si era tramandata nei secoli, per forza d’inerzia, e che aveva finito per diventare un articolo di fede.

Nel corso del Rinascimento, e poi nel XVII e XVIII secolo, con i grandi viaggi di esplorazione marittima ai quattro angoli del globo, ogni avvistamento di isole, ogni rilevamento di correnti marine, ogni volo d’uccelli verso il lontano orizzonte, erano stati interpretati come altrettanti indizi, fra loro concordanti e rafforzati l’uno dall’altro, dell’esistenza di siffatta Terra Australe; tanto che geografi e cartografi si erano affrettati, sulla base delle più recenti segnalazioni dei capitani di mare, ad arricchire di sempre nuovi particolari, e sempre più fantasiosi, le coste e perfino l’entroterra di quel misterioso continente — benché nessuno, in effetti, potesse affermare con assoluta certezza di averli visti, e tanto meno di esservi sbarcato ed essersi spinto nell’entroterra.

Ed ecco, così, fare la loro comparsa, sugli atlanti rinascimentali, e poi ancora nei due secoli seguenti, di una «Psittacorum regio», ossia di una non meglio precisata e definita «Regione dei pappagalli»; ecco comparire le figure di strani animali, di strani uccelli, di strani pesci, di strani esseri umani, dalle fattezze sorprendenti e, a volte, mostruose; ecco sfociare sulla costa, per mezzo di grandiosi estuari, dei fiumi imponenti, provenienti dalle montagne del continente che nessuno aveva mai visto, ma che certo dovevano esistere, perché si sa che i fiumi, specie se grandi, scaturiscono dalle montagne, e pertanto…

Fin da quando Ferdinando Magellano, nel 1520, aveva attraversato, con successo, il lunghissimo e tempestoso braccio di mare che gli aveva consentito di sboccare dall’Atlantico nell’aperto Mare del Sud (ossia l’Oceano Pacifico meridionale, intravisto qualche anno prima, dall’alto di una collina del Dairén, dal "conquistador" Vasco Nuňez de Balboa), e aveva visto, sulle sponde meridionali, dei fuochi brillare nel buio della notte, quelle lande misteriose e un po’ inquietanti, avvolte in una bruma perenne, erano state denominate Terra del Fuoco: una terra che, senza alcuna ombra di dubbio, "doveva" fare parte del Continente Australe, in accordo con il dogma fondamentale della sua esistenza, che attendeva solo delle conferme positive per essere ratificato. E anche se Francis Drake, pochi anni dopo, fu portato da una tempesta molto più a sud, e non vide alcuna terra meridionale, nondimeno il mito della Terra Australe rimase ben saldo sulle proprie basi: perché, come ha osservato lo scrittore francese René Thévenin, «i Paesi leggendari sono antichi quanto la storia, poiché è nel cuore stesso dell’uomo che vivono, e sempre vivranno».

Vale comunque la pena di fare la conoscenza un po’ più da vicino con la figura del geografo Alexander Dalrymple, se non altro per vedere di che pasta fosse fatto questo serissimo custode dell’ultimo grande mito geografico dell’umanità moderna, questo anti-Cook per antonomasia, James Cook essendo stato il distruttore implacabile e "scientifico" di esso. In un certo senso, il passaggio dal "mondo di Dalrymple" al "mondo di Cook" è stato il passaggio, definitivo e irrevocabile, dal mondo pre-moderno, nel quale c’era ancora spazio per i miti, e uno spazio che la scienza stessa era disposta, almeno fino a un certo punto, a riconoscere, ed il mondo moderno, nel quale ogni spazio mitologico si chiuse per sempre e tutto quel che rimase fu esclusivamente ciò che la scienza "moderna" — razionalista, meccanicista, tendenzialmente materialista — era disposta a concedere, dopo averlo scrupolosamente passato al vaglio, secondo le proprie categorie di ciò che è possibile e di ciò che non lo è (e Dio sa quanto male ha fatto l’assolutizzazione della mentalità scientifica moderna, presa come la sola lente "autorizzata" per la lettura del reale: ad esclusione, ad esempio, di tutto ciò che è "spirituale", e specialmente di tutto ciò che abbia il sapore, o l’inaudita pretesa, di essere considerato come "soprannaturale").

Così descrive Dalrymple e le sue idee lo studioso Daniel J. Boortsin nella sua vasta opera «Storia delle conquiste umane» (titolo originale: «The Discoverers», Random House Inc., 1983; traduzione dall’inglese di Silvia Demichele, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1985, vol. 1, pp. 244-5):

«Un geografo scozzese […] che lavorò per la Compagnia inglese delle Indie Orientali fece quasi di questa "Grande Terra Australe" la sua ossessione e produsse l’analisi più completa e dettagliata che mai fosse stata fatta a riguardo. Alexander Dalrymple (1737-1808), uomo alquanto suscettibile di carattere, disegnava carte di oceani e correnti marine per passione e per professione e nel 1795 ebbe la nomina di idrografo della marina. Fin dagli anni della giovinezza i suoi eroi erano stati Colombo e Magellano, coi quali sperava di poter rivaleggiare scoprendo anche lui il suo continente. Nel "Resoconto delle scoperte fatte nell’Oceano Pacifico Meridionale prima del 1764" (1767), traendo spunto "sia dall’analogia della natura, sia da quanto si deduce dalle passate scoperte", Dalrymple descrisse la vasta distesa del Continente Australe, la cui presenza "era resa necessaria per controbilanciare a sud dell’equatore le terre del nord e per mantenere l’equilibrio indispensabile al moto terrestre". Dall’equatore fino a 50 gradi di latitudine nord l’estensione delle acque era più o meno equivalente a quella delle terre, ma a sud le terre scoperte fino allora rappresentavano sì e no un ottavo della superficie delle acque. I venti irregolari notati dagli esploratori nelle zone più meridionali del Pacifico segnalavano la presenza di grandi masse terrestri in quei paraggi. Dalrymple ne dedusse fiduciosamente che da quelle parti doveva esserci un grande continente e che tutte le zone inesplorate dall’equatore a 50 gradi sud dovessero essere occupate da terre "per un’estensione maggiore di tutta la parte civilizzata dell’Asia, dalla Turchia fino agli ultimi lembi orientali della Cina". Queste ragioni avrebbero potuto costituire un valido sostituto alle inquiete colonie americane, che avevano ancora solo due milioni di abitanti, perché il nuovo continente un giorno avrebbe potuto ospitare cinquanta milioni di persone e "i resti di questa tavola sarebbero stati sufficienti a mantenere il potere, il controllo e la sovranità dell’Inghilterra impiegando tutti i suoi fabbricanti e le sue navi".

Per il 3 giugno 1769 era stato previsto che Venere transitasse davanti al sole. Osservando il fenomeno (che non si sarebbe ripetuto per oltre un secolo). Da vari punti della terra molto distanti tra loro, sarebbe stato possibile ricavare elementi più precisi sulla distanza della terra dal sole e migliorare i dati disponibili sulla navigazione celeste. La Royal Society di Londra si preparò quindi a inviare una spedizione a Tahiti. Il governo vide nel progetto un’ottima copertura per tentare una nuova esplorazione delle ultime propaggini meridionali del Pacifico alla ricerca dei confini del favoloso Grande Continente Australe. Se poi quelle terre non fossero esistite, il viaggio sarebbe servito a far svanire il mito una volta per tutte.

Alexander Dalrymple, che, per quanto riguardava il continente inesplorato, si considerava la maggiore autorità vivente, sperava di poter guidare la spedizione. Discendente della potente famiglia scozzese cui apparteneva la contea di Stair, pur se non ancora quarantenne era già un esperto matematico e membro della Royal Society. Suo fratello maggiore, Lord Hailes, era un illustre giudice, nonché un amico del dottor Johnson. Per di più, un rischioso viaggio di due anni in acque inesplorate e fra popoli "selvaggi" non sembrava la cosa più adatta né per studiosi dalle abitudini sedentarie, né per ambiziosi capitano in un’epoca di dilagante pirateria.

Per sfortuna di Dalrymple, la marina inglese aveva da poco sperimentato i postivi effetti delle radicali riforme di Lord Anson (1697-1762), cui andava buona parte del merito delle recenti vittorie navali inglesi. Nel orso di uno storico viaggio di quattro anni intorno al mondo fatto su una nave corsara, Anson era giunto sin nel Pacifico, dove su una nave spagnola aveva catturato un bottino rivenduto poi per 400.000 sterline. Egli aveva fissato i nuovi requisiti professionali per il comando marittimo, e le nomine di aristocratici ben imparentati non erano più così facili da ottenere. Dalrymple aveva poi dimostrato di non essere adatto né per fisico, né per temperamento a un compito così impegnativo. La Compagnia inglese delle Indie Orientali l’aveva allontanato per la mancanza d i tatto con cui aveva impostato i rapporti commerciali con le isole del Pacifico, e inoltre egli soffriva molto di gotta. Lord Hawke dell’Ammiragliato avrebbe anche consentito che Dalrymple si unisse alla spedizione in qualità di osservatore civile, ma il comando doveva essere affidato a un ufficiale di marina. L’aristocratico geografo si ritirò così indignatissimo.

L’oculata scelta di Hawke — scelta che offendeva nobili, ricchi e dotti — cadde su un sottufficiale pressoché sconosciuto di nome James Cook (1728-1779)….»

E sarà appunto James Cook, con i suoi tre famosi viaggi esplorativi attorno al mondo, a dimostrare, definitivamente, l’inesistenza del misterioso Continente Australe; o meglio, a dimostrare che, se esso pure esisteva (si era spinto fino quasi alla latitudine del Circolo Polare Antartico), doveva essere, però, interamente coperto di ghiacci e avvolto nella morsa delle nebbie permanenti e di un gelo tale, da renderlo sicuramente inabitabile per la specie umana.

C’è da chiedersi se il destino sia stato davvero maligno, oppure se sia stato benevolo, nel far sì che Alexander Dalrymple, il geografo che si riteneva la massima autorità sul Continente Australe, non potesse condurre il suo viaggio esplorativo negli oceani meridionali, cosa che gli risparmiò, se pure avesse avuto successo — e c’è da dubitarne, viste le sue scarse attitudini per il comando e per l’arte della navigazione — di essere il distruttore della credenza di cui egli era il principale esperto e depositario. Sarebbe stata una tragica ironia se proprio a lui fosse capitata la ventura di demolire la secolare certezza relativa all’esistenza di quella terra favolosa, la cui inafferrabilità aveva fatto ingigantire le aspettative, donandole i favori di un clima mite, temperato se non addirittura sub-tropicale, e popolandola con ogni sorta di ricchezze naturali, di piante, di animali e di genti varie e sicuramente civilizzate.

Una lezione, comunque, vorremmo trarre dalla vicenda del continente australe e dalla fede tenace coltivata da uomini di studio come Alexander Dalrymple (cfr. anche il nostro precedente articolo «Inseguendo senza respiro la mitica terra australe», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 26/05/2007). Non è stato il primo caso, né sarà l’ultimo, nel quale sia alcuni studiosi, sia l’opinione pubblica, o una parte di essa, hanno prestato fede a qualcosa che si è poi rivelato illusorio; ai nostri giorni, un paragone si potrebbe fare, ad esempio, con la «civiltà» di Marte, nella quale — specie dopo la scoperta del ben noto "volto" scolpito nella pietra, e di alcune strutture rocciose simili a piramidi – vi è chi ripone una fede così salda, da scriverci sopra dei libri (come il saggista Gianni Viola) e vi sono perfino degli scienziati che hanno ipotizzato la sua deliberata distruzione da parte di popolazioni aliene (come il fisico del plasma John Brandenburg).

Ora, il punto veramente interessante, a nostro parere, non è tanto che James Cook avesse "ragione" nel dubitare dell’esistenza della Terra Australe, e che Alexander Dalrymple avesse torto: questa, infatti, è la verità puramente esteriore e quantitativa della controversia. Il punto, secondo noi, è che per uomini come Dalrymple — che era, si badi, non un qualsiasi sprovveduto, ma un grande e stimatissimo geografo — non vi era contraddizione nel credere a qualcosa che non era stato direttamente osservato, e tanto meno dimostrato, perché essi avevano una concezione elastica, duttile e "aperta" del conoscere, e, nello stesso tempo, un rispetto vivissimo per la tradizione; mentre la scienza moderna, specialmente da Newton in poi, ha ritenuto di poter escludere "a priori" tutte quelle credenze che si trovavano — e che si trovano — in contraddizione con i presupposti, rigidi e dogmatici, della scienza moderna, così come i suoi fondatori l’avevano definita, operando una vera e propria rottura epistemologica con la scienza "classica", specialmente aristotelica: che era, ancora in pieno ‘500, la scienza di Paracelso, di Cardano, di Agrippa di Nettesheim, di John Dee, di Giovan Battista Della Porta, impregnata di magia, alchimia e astrologia.

Con l’avvento della scienza moderna, l’invisibile scompare, come un fiume carsico inghiottito entro una dolina. Ma noi sappiamo che "invisibile" non è affatto sinonimo di irreale, come i materialisti, i positivisti e tutti gli scientisti fermamente credono: ignari che anche la loro è solo una "credenza"…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by NastyaSensei from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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